Covid e (mala)sanità: due testimonianze

testi di Giacinto Botti ed Eleonora Martini

Covid 19: una dura prova personale e umana

di Giacinto Botti (*)

Care compagne, cari compagni, innanzitutto grazie per la vostra vicinanza e solidarietà.

Dimesso dall’ospedale S. Raffaele il 19 novembre dopo dieci giorni di ricovero per una polmonite da Covid e con il tampone ancora positivo, scrivo dalla quarantena in attesa della negatività che mi permetterà finalmente di riprendere la mia vita personale e l’attività sindacale. Non sono a casa e nemmeno in un albergo Covid, pura invenzione della propaganda politica, ma in un luogo confortevole e sicuro che un caro amico e compagno con generosità mi ha messo a disposizione. Mi sono ritrovato sotto un’onda che ti schiaccia, ti travolge e ti trascina in una dimensione di insicurezza e di fragilità che mai avrei pensato di vivere. Come tanti mi illudevo che a me non sarebbe mai potuto succedere. Confidavo nelle mie condizioni di salute e nell’adottare le misure di precauzione, ma il virus vigliacco trova altre strade, e si è infilato nelle mie vie respiratorie. Da dove e da chi provenisse ho smesso di chiedermelo.

Sono stato fortunato. Sono uscito dal tunnel sembra senza gravi danni, a differenza di tanti altri che ne porteranno i segni o che non ce l’hanno fatta. Ho scelto di scrivere una parte di questo articolo condividendo la mia esperienza personale. Sono della generazione che ha teorizzato che il personale è politico, e che occorre riportare la dimensione individuale dentro a quella collettiva.

Ho visto la sofferenza e la paura di non farcela di tanti, la solitudine e la disperazione, la terribile “fame d’aria” e il bisogno di ossigeno di chi all’improvviso piombava in una condizione inaspettata della propria vita. Una prova dura, un’esperienza umana che ti segna, ti dà la coscienza di una realtà immaginata e mai vissuta, ti fa impattare con la materialità del tuo corpo, in una dimensione inesplorata del tuo essere persona.

Si impara e si riflette. È capitato a me come a centinaia di migliaia di persone.

Una sera la febbre, e la percezione che il virus si fosse impadronito del mio corpo, ma speravo di non dover ricorrere almeno all’ospedalizzazione. Non è stato così.

La febbre non scendeva e dopo cinque giorni a casa chiuso in camera in isolamento per non trasmettere il virus, in contatto telefonico col mio medico di famiglia, pur non accusando sintomi gravi, ho perso l’olfatto, ma soprattutto la saturazione del sangue era insufficiente, come indicava il “saturimetro”, quell’oggetto prezioso di cui siamo diventati esperti in tanti.

Alla fine, su consiglio del medico, a malincuore ho chiamato il 112 per farmi portare dalla Croce Rossa al pronto soccorso per una radiografia al polmone e per fare il tampone. Da quel momento sono entrato consapevolmente in un tunnel pieno di incognite e di insicurezza.

L’operatore del 112, con gentilezza (in quante figure di lavoratori sconosciuti ci si imbatte da paziente), mi ha consigliato di non aspettare per ore l’autoambulanza e di farmi accompagnare in auto al pronto soccorso dell’ospedale S. Raffaele. A mia moglie è stato consentito di accompagnarmi fino allo spazio antistante, poi mi sono ritrovato solo nel triage del percorso Covid. Sul biglietto dell’accettazione, che conservo, c’è scritto il giorno, 9 novembre 2020, il codice di entrata in medicina respiratoria, il numero 640, l’orario di entrata: ore 14,15.

Dopo mezz’ora la misurazione dei parametri, pressione e saturazione. Poi in pensierosa attesa, seduto su una sedia di ferro per oltre tre ore, nello spazio esterno delle ambulanze, essendo la sala d’attesa piena di pazienti Covid. Stavo relativamente bene rispetto ad altri. Lì ho saputo dello sproloquio nelle tv del “famoso” e altezzoso medico di Berlusconi che, come ho constatato poi, ha irritato tutti i medici e gli infermieri del pronto soccorso e non solo.

In aiuto alla tesi riduzionista e ai troppi decerebrati, sosteneva che dal suo ufficio sopra il pronto soccorso del S. Raffaele, non vedeva la fila delle ambulanze e che non c’era nessuna emergenza. Dentro un’altra realtà, la sala d’attesa piena con barelle nel corridoio. I medici, molti giovani e tante donne, e gli infermieri in difficoltà nel garantire nel breve tempo la visita ai tanti pazienti.

Mi hanno messo sulla barella e portato in corridoio nella sala d’attesa verso le 18.

La diagnosi della visita, avvenuta dopo altre due ore, è stata di saturazione bassa e criticità polmonare da Covid. Portato in una stanzetta con altri pazienti, verso le quattro del mattino mi è stata fatta, sempre steso sulla barella, la radiografia portatile da un’infermiera specializzata, credo. Un’ora dopo ero nel salone allestito a parcheggio, dove sono stato per quattro giorni su una barella insieme a altri 35 pazienti, in attesa di essere trasferito nel reparto. Finalmente alle 8 di mattina un bicchiere di tè caldo e due fette biscottate. In quei cinque giorni, ad assistere pazienti anche gravi e con sofferenze che mai dimenticherò, solo due medici e quattro infermieri con la solita umana professionalità e disponibilità.

Da qui in avanti, per dieci giorni – per fortuna gli ultimi cinque in una confortevole camera con un altro paziente – sono stato curato e sostenuto in modo adeguato con competenza e umanità da tutto il personale ospedaliero: dal medico all’infermiere/a, che ogni quattro ore, giorno e notte monitorano le tue condizioni e ti garantiscono le cure previste, donne e uomini dei vari servizi che cambiano le lenzuola, puliscono e sanificano l’ambiente, portano i pasti.

Passano i giorni in attesa di una notizia buona, di una dimissione che non arriva mai, con la speranza che il Covid non ti lasci in futuro tracce e conseguenze.

E’ un’esperienza di vita, umana e personale che vorrei, appunto, uscisse dalla dimensione individuale. Un’esperienza da trasmettere per ricavarne una riflessione politica e sindacale, per prendere insieme coscienza della realtà, per un senso di giustizia e di rabbia che mi hanno animato sempre.

La materialità del vissuto, la concretezza della condizione, lo stare dentro e conoscere la realtà ti permette di avere un altro approccio, di sgombrare il campo dalla retorica, dall’ipocrisia e dalla distanza di tanti politici e non solo. Percepisci il bisogno di sfuggire al vuoto delle parole per stare in sintonia col tuo essere un cittadino come tutti nella condizione di paziente. Lì misuri il confine e la differenza tra la realtà e le parole.

Lì capisci e vedi la mancanza del personale, la precarietà di molti, vedi la fatica e lo sfruttamento al limite delle forze. Ti senti alleato di quei medici degli ospedali del S. Paolo e S. Carlo di Milano che in un documento hanno denunciato il collasso dei pronto soccorso e le difficoltà del sistema sanitario pubblico a reggere l’ondata dei malati, ponendo interrogativi sulla prevenzione, sui tagli dei posti letto e del personale, e mettendo a parte opinione pubblica e istituzioni del dramma che vivono ogni giorno davanti al numero dei ricoverati e dei morti. Come in guerra sono terrorizzati di essere costretti a decidere chi curare e chi lasciar andare, contro ogni principio etico.

Da paziente vedi lavoratori, donne e uomini, invisibili fuori ma fonte essenziale di cura, benessere e di vita per te. Per me. Ci salvano mettendo seriamente in pericolo sé stessi e i loro cari, e si ammalano in tanti di Covid. Hanno paura. Odiano essere chiamati eroi da chi poi nega i loro diritti, un contratto, condizioni di lavoro dignitose, mettendoli sotto accusa se fanno uno sciopero per sé e per una sanità diversa. Fanno al meglio il loro dovere, con disponibilità e umanità, in condizioni di lavoro disastrose; passano le notti e i giorni in corsia facendo turni massacranti, fuori da ogni legge e dal buon senso. È un lavoro che richiede passione, umanità, solidarietà, disponibilità, professionalità e sacrificio. Senza di loro il paziente sarebbe più solo e sofferente. Ho visto, sentito quanto è vitale la loro presenza nei confronti di chi soffre ed è angosciato, di chi non può avere nessun contatto con i propri cari perché intubato o dentro un casco per l’ossigeno. La loro assistenza umana, psicologica è decisiva. Il loro sorriso, la stretta di mano, la carezza, la telefonata assistita ai parenti sono cose che vanno oltre il loro dovere e fonte di vita e di speranza.

Da paziente ho usufruito con gratitudine della loro disponibilità e della loro professionalità, come sindacalista mi sono sentito inadeguato, e ho provato un senso di responsabilità verso ogni lavoratrice e lavoratore che opera nel comparto sanità, pubblico e privato. Accudiscono e garantiscono la somministrazione delle cure, fanno prelievi costanti, monitorano le condizioni dei pazienti ogni quattro ore e non si fermano mai. Fanno turni di 12 ore mangiando qualcosa in 10 minuti e a turno in uno sgabuzzino in corsia. Si muovono nei reparti, tra i letti come marziani, imbacuccati dentro le tute bianche, coperti da mascherine e da caschi. Senti le loro voci, guardi il taglio degli occhi, il colore, la carnagione per cercare di identificarli, se no non ti rimane che guardare il nome scritto col pennarello sulla loro schiena. Sono loro a garantirci il primario diritto alla salute sancito dalla nostra Costituzione. Quando sei fuori di lì non pensi che nella vita puoi divenire il paziente; impattare con un sistema che è stato svalorizzato; che sarai, comunque, bisognoso di una sanità pubblica efficiente e dignitosa e di lavoratori professionali e tanta umanità. Che senza il lavoro di cura e di sostegno a tutti i livelli delle lavoratrici e dei lavoratori il sistema non regge. Che questi lavoratori vanno riconosciuti, professionalizzati, dotati di diritti contrattuali, orari di lavoro compatibili con la fatica e la loro vita famigliare. A loro occorre garantire vicinanza concreta e sostegno verso le loro rivendicazioni, il loro diritto di scioperare senza essere criminalizzati, sapendo che non li spinge il corporativismo ma il rispetto dei loro diritti e di quelli di tutte e tutti alla salute e alla cura. La nostra Funzione Pubblica è in campo. Ha il merito in questa situazione di cercare di rappresentare e riunificare il mondo del lavoro pubblico, di porsi dentro una visione generale e non corporativa nelle rivendicazioni, a partire dalla sanità. Di difendere il diritto di sciopero dagli attacchi beceri dei soliti benpensanti.

Ci sono sempre due Italie: quella dei fanfaroni, degli speculatori, dei qualunquisti e dei menefreghisti, delle lobby, degli evasori ladri di posti letto, delle mafie e della corruzione e quella che non ha nessun potere e poca rappresentanza politica ma che agisce, opera allo stremo delle forze, con grande solidarietà, disponibilità e sacrificio.

Quella che lotta con la CGIL per il futuro del Paese, per i diritti universali, la giustizia e l’uguaglianza, per il lavoro e il bene pubblico. È l’Italia migliore. La CGIL con le sue radici, la sua storia e i suoi valori.

Sento una rabbia non conosciuta e una forte intolleranza, come tutti coloro che sono entrati nel tunnel, verso chi parla oggi di aperture commerciali, dei ristoranti e dei negozi, dei campi da sci, dello shopping, del cenone natalizio. Verso chi, prima di garantire l’ossigeno ai malati, pensa a darne all’economia, verso gli ipocriti, i qualunquisti e gli affaristi.

Intolleranza verso chi continua a mettere la borsa in alternativa alla vita. Verso i politici spregiudicati di destra, ma anche verso quei politici di sinistra che dopo essere stati corresponsabili per anni di scelte sbagliate che hanno aggravato la situazione sociale e mortificato il sistema sanitario pubblico, la scuola e chi ci lavora, rimuovono le loro responsabilità.

Non bastano oltre 50mila morti e oltre 200 medici e 60 infermieri deceduti facendo il loro lavoro per capire che nulla sarà più come prima e per farci sentire il bisogno di cambiare il nostro modo di vivere e di consumare?

I titolari d’impresa, i commercianti, i negozianti e ristoratori, chi perde reddito e lavoro devono avere un sostegno dallo Stato, finanziamenti ma non a pioggia.

Tra loro, come ci ricorda ogni anno l’Agenzia delle entrate, ci sono piccoli e grandi evasori che hanno rubato la vita alle persone per le mancate entrate allo Stato e la conseguente riduzione della spesa sanitaria.

Rimuovere la realtà non può essere la strada giusta se si vuole cambiare. Le priorità assolute sono la salute pubblica e la vita delle persone. La prima misura che potrà salvarci anche economicamente è fermare il virus, se non vogliamo pagare un prezzo ancora più alto di vite umane con una terza ondata che farebbe peraltro crollare i consumi e l’economia.

La pandemia non è uguale per tutti.

Molti sono gli insegnamenti, le riflessioni individuali e collettive che questa terribile esperienza dovrebbe imporci. Non si risolleva l’economia a scapito della vita e della salute delle persone. Questo non è scontato certamente a destra, ma purtroppo neanche a sinistra. La lezione estiva del “liberi tutti” sembra non essere servita a nulla, eppure tanti morti e tanta sofferenza potevano essere evitati. La destra politica reazionaria, i populisti e i negazionisti continuano nella campagna politica, odiosa e strumentale, contro il governo, che comunque, nelle grandi difficoltà del momento, sembra avvitarsi su sé stesso, accumulando ritardi e non riuscendo ad individuare linee strategiche di intervento per l’uscita dal tunnel.

Alla politica si può e si deve chiedere tanto, ma non tutto. Molto dipende da noi cittadini, militanti della CGIL e della sinistra sociale e politica, dalla nostra capacità di partecipare e di essere protagonisti del cambiamento. Per non lasciare ad altri il potere di determinare la nostra vita e scrivere la storia del futuro.

Le condizioni economiche e sociali di ognuno non sono date per sempre, le situazioni cambiano velocemente, la salute, la fortuna e il benessere possono essere messi in discussione, possono sparire. E allora si sente l’importanza di essere una collettività, di usufruire di una rete di solidarietà, di avere un sostegno economico e sociale dello Stato di diritto.

Prendiamo coscienza e percepiamo sulla nostra pelle, nelle condizioni materiali vissute, il valore e l’importanza di una sanità universale pubblica.

Non si possono rimuovere responsabilità, mancanze, speculazioni e gravi ritardi. Occorre chiedere conto di tanta sofferenza e delle morti evitabili almeno nella quantità. Quanti errori fatti in nome del mercato e del profitto, politici di tutte le parti genuflessi alle politiche di austerità e dei vincoli finanziari imposti, in favore del privato e a scapito del welfare, dell’istruzione e della scuola, del nostro sistema sanitario nazionale.

Quanto improvvida e nefasta è stata quella riforma del titolo V della Costituzione, voluta dal centrosinistra e dal Pd, che ha spostato poteri e funzioni in materia di sanità, fonte della babele tra le istituzioni regionali e lo Stato centrale, a scapito della salute delle persone. Quanta arroganza, incapacità, quanta indecenza da parte di certi Presidenti di Regione, di destra ma non solo, che è ora di smettere di definire governatori: siamo una Repubblica e non una federazione di staterelli regionali autonomi.

La Regione Lombardia, come altre, ha miseramente fallito perdendo tempo senza mettere in atto nulla dinanzi alla prevista seconda ondata. Il disastro, l’ecatombe e le sofferenze indicibili di primavera non sono serviti a nulla. Il sistema sanitario pubblico è stato svenduto, mortificato in favore del privato e dalla corruzione. Ciò che è inaccessibile, difficile, introvabile nel pubblico diventa possibile nel sistema privato. Mentre il pubblico arranca e accumula perdite il privato fa profitti attraverso il pagamento dei vaccini antinfluenzali, l’assistenza a domicilio, i tamponi e i test sierologici. Il diritto alla salute è subordinato al reddito individuale delle persone, alle condizioni economiche dell’individuo. Non bisogna dimenticare e perdonare nulla. Bisogna chiedere che chi ha sbagliato paghi prima di fare altri danni, e se ne vada, soprattutto nelle zone dove la pandemia ha colpito di più mettendo in luce la contraddizione tra eccellenza ospedaliera fortemente segnata dai privilegi del privato e medicina territoriale e di base, quella più vicina alla gente, che è stata smantellata.

I medici di famiglia – indicati oggi come una necessità, senza sostegno e senza una struttura adeguata di medicina territoriale, lasciati senza strumenti e senza protezioni, mal pagati e poco valorizzati – sono stati ridotti nei numeri, richiamati in servizio per affrontare la pandemia anche da pensionati, con appelli nazionali che segnano il fallimento della riforma sanitaria nazionale e regionale. Come non ricordare le dichiarazioni di uno che dovrebbe essere il miglior politico della Lega, Giorgetti, che teorizzava la follia dell’inutilità della figura del medico di famiglia, ormai superata dall’avvento della tecnologia. Quei medici considerati inutili ma così essenziali per reggere l’urto della pandemia, per non accentrare sugli ospedali e i pronto soccorso i tanti malati di Covid, per garantire il rapporto con i pazienti nel territorio.

La privatizzazione selvaggia, la corruzione, il “sistema” Formigoni (condannato), e della sua giunta di centro-destra e leghista, la posizione di Confindustria e Assolombarda rispetto al ritardo nelle chiusure delle attività produttive non necessarie sono tra le cause dell’ecatombe di primavera nelle Rsa e tra la popolazione, in una delle regioni più ricche d’Italia e d’Europa.

In Lombardia, come in tante regioni si muore e si soffre ancora per malasanità, corruzione, incapacità, improvvisazione, burocrazia, per scelte politiche fatte di privatizzazione della salute umiliando e depauperando la sanità pubblica e chi ci lavora.

Qualcuno dovrà pur pagare il conto sul piano giudiziario e politico per le loro colpe, l’incapacità e le nefandezze, da non rimuovere, compiute sulla pelle delle persone.

Non saranno i vaccini a liberarci dal male ma noi stessi e una politica coraggiosa, responsabile e consapevole. A nessuno dovrebbe essere permesso di fare soldi, ingenti profitti sulla salute e la vita delle persone. A nessuno può essere permesso di usare il vaccino come arma di potere e di controllo. Il vaccino prossimo non deve creare discriminazioni e ulteriori disuguaglianze nel diritto alla vita, tra i popoli del pianeta, tra Occidente e Oriente, tra Paesi poveri e Paesi ricchi.

Il vaccino deve essere pubblico e mondiale, e va tolto dalle mani speculative delle multinazionali del farmaco, che tra l’altro hanno ricevuto ingenti fondi pubblici per la loro ricerca.

L’impressione che ne ricavo è che si dica molto e si faccia ancora troppo poco, che si affermi con superficialità che nulla potrà e dovrà essere come prima senza la consapevolezza e la responsabilità di cosa questo significhi. Di cosa questo concretamente comporti nelle scelte valoriali, economiche e sociali.

Per noi significa cambiamento radicale, analisi, studio, proposte, progetti e politiche sociali ed economiche alternative. Significa affermare la centralità del lavoro e del suo mondo, mettere in campo la partecipazione attiva dei lavoratori e dei pensionati, dei giovani e delle donne, e i necessari rapporti di forza e le lotte di sostegno, perché lo scontro di classe non è una passeggiata, le alleanze dei movimenti, delle associazioni sociali, il sostegno tra generazioni sono indispensabili per costruire il futuro del Paese. Un patto generazionale di reciproco riconoscimento, di valorizzazione dell’esperienza, di solidarietà umana e politica.

Basta con l’idiozia della rottamazione, con le contrapposizioni utili a chi vorrebbe rivedere il sistema per piegarlo e utilizzarlo in una perversa continuità con il passato.

Abbiamo bisogno di un progetto alto e di un orizzonte dove guardare il futuro. Spazzare via nazionalismi e razzismi di ogni specie, individualismo, egoismo sociale e qualunquismo, lo sfruttamento del pianeta e degli esseri umani.

Quando, se non ora, cambiare, riconvertire le produzioni di armi, mettere al bando le produzioni inquinanti e nocive, modificare i modelli di produzione e di consumo, rimettere al centro i diritti universali, cambiare il paradigma che ha visto la centralità del mercato e del profitto? Non la decrescita felice ma una diversa e radicale alternativa di crescita e di sviluppo della società, del Paese, dell’Europa e del mondo.

Per la CGIL è una grande sfida da vincere, per la sinistra che ancora non ha identità e progetto è un’incognita. Ma non ci sono altre strade se non vogliamo continuare nell’agonia in attesa di un nuovo tsunami sanitario, sociale ed economico, mentre prevalgono gli interessi corporativi, le richieste di Confindustria, delle lobby finanziarie e dei poteri economici. Occorre recuperare risorse dall’evasione, tassare le grandi ricchezze, investire in ricerca, nell’istruzione, nella sanità pubblica. Fare investimenti per lo sviluppo e la qualità della vita, per il diritto al buon lavoro. Per l’uguaglianza nei diritti e nelle possibilità. Per la salute e la vita delle persone, a sostegno della medicina territoriale, della prevenzione, riaffermando la centralità e il valore assoluto del sistema sanitario nazionale, la più grande conquista storica degli anni ‘60.

La pandemia non è uguale per tutti in un Paese diseguale e ingiusto, e non colpisce allo stesso modo. Penso alle nuove e diffuse povertà che il virus amplia in un sistema malato e diseguale non per natura ma per scelta. Chi non ha soldi, chi vive nella marginalità, nella precarietà di vita e di lavoro non si alimenta in modo sano e adeguato, non si può curare in un sistema colpevolmente e violentemente privatizzato per fare soldi sulla pelle delle persone. Sono in milioni a divenire più fragili, senza i diritti essenziali sanciti dalla nostra Costituzione non ancora applicata, ad essere più esposti e soggetti al virus e alle malattie in generale.

Il male non è oscuro e ha schiantato molte sicurezze, stravolto condizioni e abitudini. La feroce pandemia è una minaccia globale, richiede risposte politiche e scelte globali, e lo sforzo collettivo delle migliori intelligenze, della scienza, dei saperi, se vogliamo sconfiggere la pandemia e cambiare radicalmente il nostro sistema produttivo e di sviluppo.

Per cambiare il mondo non bastano i palliativi, e nemmeno l’impegno straordinario delle associazioni umanitarie e del terzo settore, delle Ong, dei tanti volontari; o dei filantropi, con i loro modelli accentratori di potere e di intervento fuori dalla dimensione collettiva e pubblica.

In assenza della sinistra, ci dobbiamo richiamare a un Papa (inviso al potere e agli stessi cattolici integralisti) che sprona, incita e afferma che «è tempo di osare, di costruire il futuro, per una economia a misura d’uomo e per la salvezza del pianeta»…. «per impedire che dopo la crisi sanitaria e sociale da Covid si punti solo a far tornare tutto come prima».

Un messaggio chiaro, rivoluzionario in questi tempi bui, che vorrei sentire dalla politica, dalla sinistra afona e confusa, impregnata di un passato carico di responsabilità e di subalternità al mercato e al profitto, che senza una precisa identità, non ha ancora definito la sua natura, la sua collocazione sociale e il suo riferimento prioritario nel mondo del lavoro.

Contro le ingiustizie e un sistema economico e sociale sbagliato e perverso servono scelte e politiche, sguardo lungo e progetti di concreta utopia del possibile. Servono istituzioni internazionali, sistemi di protezione e di solidarietà, di riconoscimento dei popoli e della loro autodeterminazione, dove gli esclusi diventino protagonisti, i sudditi diventino cittadini.

Servono modelli di sviluppo, di progresso e di sostenibilità. Servono coscienza e partecipazione, responsabilità individuale e impegno collettivo.

Occorre una selezione rigorosa e definita in pochi ma strutturali progetti di priorità e di prospettiva strategica, che non vediamo ancora né dal governo né dalla sinistra di governo, su cui concentrare e indirizzare le tante risorse disponibili – non certo quelle del Mes – selezionando e garantendo aiuti e sostegno a chi perde o sospende realmente la propria attività per la pandemia, avendo come bussola l’interesse generale e il bene comune.

Nessun patto consociativo e di potere regge alla prova dei fatti, ogni tentativo, senza un disegno e un progetto politico alto, è destinato a frantumarsi contro la dura realtà sociale. L’esperienza dovrebbe aver insegnato qualcosa ai dirigenti del Pd di ieri e di oggi.

La rimozione e l’ipocrisia di tanti politici dinanzi ai limiti e le ingiustizie che la pandemia ha fatto emergere in modo dirompente sono insopportabili. Nessuno può chiamarsi fuori.

La politica e i politici, in particolare della sinistra di governo – ché la destra fa la destra – negli ultimi vent’anni sono stati protagonisti colpevoli di scelte sbagliate che hanno favorito ingiustizie e nuove povertà. Si è messa in discussione la tenuta del Paese e si sono alimentate divisioni tra Nord e Sud, ci si è piegati all’autonomia richiesta dalle regioni ricche del nord, sostenendo la mortificazione dello Stato sociale, della sanità e della scuola pubblica con pesanti tagli economici. Aver ideato e proposto la nefasta riforma del titolo V, aver permesso al governo Renzi di portare un attacco ai diritti di chi lavora, all’articolo 18, alle conquiste storiche del movimento dei lavoratori e del sindacato restano responsabilità gravi, come quella di aver privilegiato il rapporto con l’impresa e messo al centro il mercato e il profitto, le privatizzazioni selvagge, la svendita del patrimonio pubblico. E ancora aver fatto proprie le teorie del pensiero unico neoliberista e aver favorito le diseguaglianze nei diritti e nelle opportunità, di genere e di generazione. Per questo ho trovato la lettera scritta dal segretario del Pd a Repubblica il 23 novembre priva di proposte e di contenuti, molto politicista e un po’ ipocrita per le tante rimozioni. Se si scrive che «Finalmente ci si è accorti che alti tassi di diseguaglianza minano non solo le vite di milioni di esseri umani ma le democrazie stesse», che «le teorie del pensiero unico neoliberista e del trionfo dei mercati hanno prodotto paure e solitudine e hanno dato forza a follie nazionaliste e sovraniste» non si capisce chi sia il soggetto responsabile del degrado e della situazione del Paese, chi si sia finalmente accorto dei tassi di diseguaglianza e chi invece abbia fatto proprie le tesi neoliberiste.

Sicuramente non la CGIL, che è stata ed è in campo con la sua autonomia, le sue proposte strategiche, il suo piano del lavoro e la sua Carta dei diritti, il nuovo statuto dei lavoratori. Una CGIL che ha manifestato, lottato, spesso in solitudine, in questi anni in difesa dei diritti universali, del lavoro, contro la precarietà e in difesa del lavoro pubblico, del sistema sanitario nazionale, della scuola pubblica. Noi c’eravamo, altri dovrebbero chiedersi dov’erano e cosa facevano. Non è più tempo di rimozioni e di sconti per nessuno. Non per me. Questa terribile pandemia ha accelerato tutto. Ci sta ponendo grandi interrogativi e ci obbliga a ripensare il nostro sistema di sviluppo e di vita, a fare i conti con le tante follie compiute verso il pianeta e le persone, in nome del mercato e del profitto. La crisi strutturale di sistema è davanti a noi, basta volerla vedere. È la crisi dell’egemonia del pensiero unico liberista, del capitalismo rampante accentratore di ricchezze e produttore di diseguaglianze, dello strapotere della finanza. L’alternativa però occorre pensarla, costruirla, proporla e realizzarla. E il necessario cambiamento radicale deve avvenire conservando i propri valori e le storiche radici del movimento operaio e della sinistra politica e sociale. Ci sono ideali, princìpi non disponibili e non trattabili che hanno a che fare con la vita e le condizioni sociali delle persone.

Il senso della collettività, del bene pubblico, dell’eguaglianza nei diritti e nelle possibilità sono il faro di riferimento nel mare burrascoso della crisi sanitaria, sociale e economica più grave del dopoguerra.

Per me, per noi, le radici a cui siamo aggrappati, il grande valore di riferimento è da sempre la militanza nel nostro sindacato: la CGIL.

(*) Referente nazionale «Lavoro Società per una Cgil unita e plurale»

L’IMMAGINE IN ALTO E’ STATA SCELTA DALLA “BOTTEGA” (ne girano in rete varie versioni)

Bristol, la ragazza con gli orecchini di perla di Banksy al tempo del Covid

Il Covid in una stanza, diario di una malata fuori statistica

di Eleonora Martini (**)

Nessuno mi ha mai contattata dalla Asl, nessuno ha mai inserito i dati generati dalla App sul mio telefono nel sistema di Immuni. Non sono mai stata tracciata. In quei giorni ho inviato due Pec. La prima al Sisp, il servizio dal quale dipende la gestione delle malattie infettive. La seconda al dirigente della mia Asl. Nessuna risposta

Non ho mai perso il gusto e l’olfatto. Sentivo ogni sapore e odore e avrei potuto gustare tutto, se solo ne avessi avuto la forza. Se solo avessi potuto, almeno per i primi 10/12 giorni, passare del tempo davanti ai fornelli. Per il resto, di sintomi ne ho avuti tanti, diversi e ne ho ancora, a dieci giorni dalla negativizzazione. Non facevo che dormire, notte e giorno, giorno e notte, come narcotizzata. Ed era anche l’unico modo per dare un po’ di pace ai miei polmoni. Poi sono arrivati pure tutti gli annessi e i connessi, dalla pelle all’intestino, le aritmie che ti svegliano nel mezzo della notte, il cuore in gola, il fiato che manca e i battiti che diminuiscono. Soprattutto il buio della mente, l’ignoto, la solitudine. Ma ancora di più l’impotenza, la terribile consapevolezza di una solitudine che non ha scampo né colpevoli, perché tutto il mondo, lì fuori, sta combattendo la tua stessa battaglia. E in tanti stanno pure molto peggio di te.

Premessa: ho scaricato l’app Immuni dal giorno del suo stesso lancio, tenendola sempre accesa e collegata. Mi muovo in autonomia con mezzi di trasporto personali, vivo sola, non ho figli, lavoro in parte da remoto e in redazione ho una stanza tutta per me. Sono stata attentissima; quest’estate mi sono concessa qualche rischio di più ma sempre all’aperto, perciò senza conseguenze, come ha confermato il test sierologico al rientro in città. Imprudentemente invece ho frequentato qualche giorno prima che i primi sintomi si manifestassero una palestra le cui misure di prevenzione e igiene – mi sono accorta in seguito – non erano poi così puntuali. Purtroppo ho scoperto recentemente che i gestori del club(in uno dei quartieri emergenti di Roma) non hanno avvisato tutti gli altri utenti che avevano partecipato alla lezione (a stanza piena e finestre chiuse) assieme a me.

E PENSARE CHE non appena arrivata la notizia della positività, mentre ero già a letto con febbre alta e tosse che non mi lasciava respirare, ho passato l’intera giornata al telefono per rintracciare e avvisare chiunque avessi incontrato e qualsiasi luogo avessi frequentato a partire dalle 48 ore antecedenti ai primi sintomi. Uno sforzo che in quel momento era quasi superiore alle mie capacità ma che volevo assolutamente fare, per scongiurare il propagarsi del contagio.

E ho fatto bene perché, malgrado la Regione Lazio dichiarasse allora di tracciare il 97% dei positivi, nessuno mi ha mai contattato dalla Asl, nessun operatore ha mai inserito i dati generati dalla App sul mio device all’interno del sistema di Immuni. Non sono mai stata tracciata, insomma. Né i miei dati sono finiti nelle statistiche dell’Rt. E a pensarci bene, visto la quantità di tempo che ho dovuto dedicare alla faccenda, senza l’automatismo garantito dalla App Immuni – se solo fosse stata imposta d’obbligo e messa nelle condizioni di funzionare davvero – quel lavoro di tracciamento non avrebbe potuto essere svolto da nessun altro con accuratezza, efficacia e tempi ragionevolmente compatibili con un servizio di massa. Per quanto personale potesse essere dedicato al contact tracing.

MENTRE PASSAVANO i giorni e consumavo il secondo ciclo di doppi antibiotici senza trovarne giovamento, sentivo spesso il mio medico di base, bravissimo come non ne ho mai avuti prima, e dalla coscienza infinita, ma senza mezzi, costretto con le mascherine che ha comperato di tasca propria, a pochi anni dalla pensione, a seguire via telefono la maggior parte dei suoi pazienti, imparando a inviare mail seduta stante – addestramento forzato al multitasking – arrangiandosi per inoculare i vaccini antiinfluenzali nella sua stanzetta quattro per tre, supportato da una veterana del melting pot, ogni giorno a contatto con lingue, culture e difficoltà provenienti da qualche dozzina di nazioni diverse ma dallo stesso baratro sociale, stando alle stime ufficiali di questo quadrante orientato a sud est, antica borgata pasoliniana della prima periferia romana. Un quartiere che nelle statistiche cittadine si è piazzato al vertice dell’indice di contagio. E non potrebbe essere altrimenti, viste le masse di persone che si accalcano alle fermate dell’autobus o riempiono i marciapiedi, i senza fissa dimora che si sono moltiplicati in questo anno disgraziato, la movida dissennata (dalla quale mi sono sempre tenuta lontana).

QUEL MIO CARO MEDICO che, dopo aver tentato inutilmente di contattare le autorità sanitarie preposte e aver richiesto l’invio di una visita Uscar (Unità Speciale di Continuità Assistenziale Regionale), nel mezzo di una crisi mi raccomandò vivamente di chiamare l’ambulanza per farmi almeno controllare i polmoni. Per due volte ho avuto la valigia pronta, ma sapevo che nel migliore dei casi – in quei giorni era così – avrei dovuto trascorrere ore e ore in ambulanza fuori da un pronto soccorso, sapevo che avrei rischiato di peggiorare perfino la situazione.

«No, ti prego: andare in ospedale adesso è come andare in carcere. Aspetta, proviamo così, resisti, domani mattina cerco di mandarti un medico amico». A salvarmi è stato un vecchio compagno del manifesto, che negli anni Settanta militava nel collettivo di medicina dell’università e che ora lavora in un distretto dell’Asl romana. Il medico che il giorno dopo mi ha visitato senza ecografo, inserendomi a forza nella sua agenda del servizio Uscar, mi ha prescritto eparina e cortisone, mi ha impartito una serie di istruzioni spiegandomi con chiarezza le mie condizioni e i rischi, e da quel momento in poi è sparito. Risucchiato dal tritacarne dell’emergenza epidemica.

In quei giorni ho inviato due Pec. La prima al capo del servizio Sisp (Servizio igiene e sanità pubblica), quello dal quale dipende la gestione delle malattie infettive e la loro notifica (nel Lazio, però, a differenza che in Emilia-Romagna, per esempio, non esiste un sistema informativo unico di inserimento dei dati sulle malattie infettive: alcune Asl hanno il proprio sistema, altre fanno riferimento al Sisp). La seconda, al dirigente della mia Asl di riferimento. Entrambe senza risposta.

L’unico tentativo del mio doc andato a buon fine è stata la richiesta di aiuto del servizio di Telemedicina dell’Asl. Un operatore gentile mi ha telefonato per darmi un’informazione a metà (avevo un appuntamento per il test di controllo, due settimane dopo il tampone positivo, ma non sapeva dove avrei dovuto recarmi né a che ora), un consiglio inutile (scaricare l’App «Lazio doctor per Covid», in modo da poter comunicare i miei sintomi al medico di base, il quale non usa l’App ma risponde al telefono), e una falsa promessa (la chiameranno presto per il contact tracing). Alla fine dell’intervista, aveva sbagliato persona: abbiamo dovuto ricominciare tutto da capo. Ma questo è un dettaglio di poco conto.

DA ALLORA SILENZIO assoluto. Ho scoperto dopo, quasi per caso, che a Roma un drive-through non aperto al pubblico è riservato ai tamponi di controllo prenotati dalla Asl. Funziona, è rapido ed efficiente. I giovani e giovanissimi operatori sono affidabili, esperti ed empatici.

Ne sto uscendo. «Non è stata una passeggiata», come dice Totti. Ma per quelli che non hanno un prof. Zangrillo a disposizione, e nemmeno un amico del manifesto, ammalarsi di Sars-Cov-2, anche senza aver bisogno dell’ossigeno, può diventare un incubo che lascia segni a lungo. Se ne esci.

(**) pubblicato sul quotidiano «il manifesto» del 27 novembre

 

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