Cresce la popolazione carceraria femminile in America latina

Mancano politiche di genere e attività che possano favorire il reinserimento delle recluse nella società.

di David Lifodi

Povertà, mancanza di lavoro e di adeguate politiche di genere sono tra le cause che hanno provocato la forte crescita della popolazione carceraria femminile in America latina. A dirlo è la Comisión Interamericana de Mujeres, che sottolinea il coinvolgimento spesso forzato delle donne (definite mulas o burreras) nel trasporto e nel commercio della droga. Uno studio del Centro de Investigaciones y Estudios Superiores en Antropología Social (Ciesas) mette in rilievo, inoltre, altri fattori, tra cui la mancanza di misure alternative al carcere, i lunghi tempi di attesa prima del processo, l’inasprimento delle pene ed il costante aumento del numero di donne che si sono macchiate di delitti gravi.

Anche se le detenute rappresentano soltanto il 5% del totale dei reclusi nelle carceri latinoamericane, preoccupa che la loro attitudine a delinquere avvenga attraverso le attività illecite dei loro compagni o mariti. Più che essere legate all’utilizzo delle armi o all’uso della violenza in qualità di prime responsabili, le donne sono spesso vittime sfruttate da un sistema che non offre la possibilità di poter contare su un lavoro stabile e su un salario fisso e le costringe, fin da giovanissime, a doversi occupare obbligatoriamente dei figli e della casa, in una sorta di figura perenne di ama de casa (donna di casa) alla quale sono relegate dai mariti. È in questo contesto che si legano al traffico e al trasporto della droga, una delle poche possibilità che hanno per garantirsi un salario. Purtroppo, quando escono dal carcere si trovano di fronte le stesse, minime possibilità di trovare lavoro del periodo precedente alla detenzione e, in gran parte dei casi, finiscono per rimanere impigliate nel giro della piccola delinquenza.

Per evitare il ritorno in carcere delle donne servirebbero delle politiche in grado di ridurre, se non far scomparire, gli episodi di violenza domestica e favorire il loro reinserimento nella società e nel mondo del lavoro, soprattutto dal punto di vista di una prospettiva di genere che però resta assente. Il carcere rappresenta per le donne un ulteriore spazio discriminatorio e oppressivo: prevale l’idea che se si trovano in carcere sono necessariamente portate a delinquere e tutto ciò cozza contro il ruolo di sposa, madre, sottomessa, dipendente e docile tipico di una certa cultura machista latinoamericana. Tutto ciò, implicitamente, è condiviso dagli stessi istituti di pena, dove si ricorre alle tradizionali attività di socializzazione pensando che per aiutare le carcerate a tornare alla vita reale basti far seguire loro corsi di cucina e di cucito e promuovere lavori domestici per invitarle a stirare, a pulire e a realizzare piccoli lavori di artigianato, tutte attività poco redditizie che difficilmente permetteranno alle donne di poter contare su un lavoro sufficientemente remunerato per essere indipendenti una volta uscite dal carcere.

Gli istituti di pena latinoamericani si contraddistinguono per il gran numero di detenuti non condannati in attesa di giudizio, carcere duro, mancanza di cure mediche adeguate e poche iniziative di carattere educativo, ma nelle carceri femminili uno degli aspetti più difficilmente sopportabile per le recluse riguarda la mancanza dei propri figli. Tra loro prevale il timore di essere considerate della malas madres, delle cattive madri, dai loro stessi figli, e questo si somma alla solitudine che ne caratterizza la vita carceraria, spesso abbandonate anche dai loro mariti o compagni, con la totale assenza di prospettive una volta uscite dal carcere. In alcuni paesi, la legislazione carceraria permette che i minori possano rimanere in carcere con le madri dalla loro nascita fino ai 4 anni (in alcuni casi anche fino a 11), ma tutto ciò rappresenta comunque una evidente violazione dei diritti umani poiché le donne restano facilmente ricattabili e sono costrette a mantenere una condotta necessariamente docile e rassegnata pur di poter restare insieme ai loro figli. Ancora più difficoltosa la situazione delle madri che arrivano in carcere in stato di gravidanza. Trasferite in ospedale giusto il tempo del parto, anche lì subiscono le stesse forme di discriminazione degli istituti di pena e sono guardate con estremo sospetto.

Attualmente l’America latina, insieme all’Asia, è la regione del mondo con il maggior numero di detenute.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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