Crovi, Leveratto, Maimone, Recami, Vitali e due Thompson

7 recensioni (giallo-noir) di Valerio Calzolaio

 

Jim Thompson

«Notte Selvaggia»

traduzione di Anna Martini (originale «Savage Night» 1953; prima ediz italiana: Fanucci 2004, esaurito)

HarperCollins

286 pagine, 15 euro

Peardale, piccola città universitaria della costa atlantica. Dopoguerra. Dall’Arizona, passando per New York (dove ha ricevuto l’incarico dall’Uomo) vi arriva Carl Bigelow, efficiente prestante killer assoldato per uccidere Jake Winroy, ex malavitoso e ora testimone chiave in un grosso processo relativo al ricco giro di scommesse sui cavalli, l’unico che possa far incriminare politici e giudici corrotti che prendevano le mazzette. Si finge ingenuo studente alla facoltà di Magistero e affitta una stanza nel villino della futura vittima. Qui incontra la fatale moglie Fay e l’arrembante donna delle pulizie Ruth, avvenenti e disponibili. Vero mortale guaio. Un altro straordinario romanzo del mitico (e poco apprezzato in vita) scrittore e sceneggiatore americano James Myers Jim Thompson (1906-1977) nel cuore dei suoi prolifici anni d’oro (1952-1957) riedito in Italia per la goduria degli appassionati, “Notte Selvaggia”, in prima irriverente e irrisolta (verso tutti i possibili guai).

 

Vincenzo Maimone

«La distanza più breve. Finale di partita per Costante e Serravalle»

Frilli

Acireale. Estate. Sono ormai trascorsi tre mesi dall’esplosione che ha sconvolto la vita di Tancredi Serravalle. Il killer Gregorio Tringali ha ucciso la moglie Camilla, azionando il telecomando a pochi metri dalla macchina, rimanendone ferito e rendendosi poi irreperibile. Da quel giorno la figlia Chiara, otto anni e lunghi capelli castani, si rifiuta di salire in automobile e riempie pensieri e preoccupazioni del padre, un bravo professore ancor più smarrito nel periodo di vacanze lavorative. L’amico commissario Giacomo Costante, dotato di uno splendido Panama di Paglia Toquilla regalatogli dalla compagna Carla, sente il peso del senso di colpa (da parecchio non riesce a chiamare Tancredi) e dei casi ancora irrisolti, i due voluminosi faldoni dell’esplosione (la pratica rischia di essere archiviata la settima successiva) e del delitto dell’onorevole Mastroeni, una faida non certo conclusa. L’altro onorevole, Adolfo Collura, mediocre ambizioso rampollo in carriera di una facoltosa famiglia di palazzinari, viene convocato dal reggente della cosca per lungo tempo dominante della zona, don Sebastiano Bastianazzo Capodicasa, suo protettore. Il fatto è che lo manda a chiamare anche l’ex compagno di Bocconi (un quindicennio prima) Michele Borrello che, fra piste di polvere bianca e squillo fenomenali, gli propone di tradire e porta solidi argomenti, non solo un ricatto. Collura gli si accoda e viene di fatto variamente coinvolto in omicidi e attentati. Costante indaga con acume e trova il tempo di incontrare finalmente l’amico, proprio quando Giacomo si rifà vivo con ulteriori drammatiche minacce. Tancredi e Chiara vorrebbero frequentare Caterina, sarà una corsa non solamente contro il tempo.

Il colto professore associato di filosofia politica Vincenzo Maimone è nato (nel 1970) e si è laureato a Messina, lavora all’università di Catania, risiede e ambienta i suoi romanzi ad Acireale, bella e anticamente potente, quasi a metà strada fra i due capoluoghi. Oltre che con famiglia, cucina e moto si diletta efficacemente nella letteratura di genere con il duo Costante-Serravalle giunti alla quinta avventura, godibile spunto per commentare le contraddittorie cronache contemporanee di una terra amata, armata e complicata. I finali di partita corrono paralleli a breve distanza (da cui titolo e sottotitolo): la palpitante vicenda personale di Serravalle, la criminale guerra mafiosa di fronte a Costante. La narrazione è in terza varia su una decina dei personaggi protagonisti, seriali o meno, buoni e cattivi, amici e nemici, destinati a uccidere o a morire o a tornare. Si sottolinea la similitudine tra la filosofia e l’indagine poliziesca, sono entrambe forme di investigazione che hanno bisogno dell’attenzione ai dettagli per poter progredire e per poter individuare la soluzione migliore. Hanno, dunque, assoluta necessità di un irrispettoso affettuoso interlocutore (oltre alla sacralità del porsi sempre dubbi), il demone socratico per Tancredi, Carla per Giacomo. A sua volta (omicida) il padre morto per il killer. Segnalo la Timpa, soprattutto a pag. 39. Whisky e birra in buona quantità. Wish You Were Here dei Pink Floyd quando i due amici si reincontrano al bar.

 

Andrea Vitali

«Il metodo del dottor Fonseca»

Einaudi

188 pagine per 16,50 euro

Spatz, ai confini di una nazione e del tempo. Piovoso fine ottobre. Alle sette di mattina un agente della sezione investigativa statale riceve la telefonata del capo. Deve presentarsi subito in ufficio (al quinto dei sei piani), dovrà partire in missione. Fra gli ispettori della struttura il suo capo si porta in giro il soprannome di Maiale, grasso e roseo, arti corti e grossi, sguardo freddo, sempre chiuso in ufficio, sempre seduto alla scrivania, senza segretaria. Sei mesi prima aveva punito l’agente per aver sparato senza motivo, ferendo un passante: servizio solo d’ufficio (al quarto), battere a macchina verbali e denunce, raccogliere e schedare segnalazioni varie. Ora gli ridà finalmente un incarico esterno, lontano dalla capitale, a circa trecento chilometri. C’è stato un omicidio a Spatz, paesotto a millesettecento metri d’altezza in un distretto di montagna vicino al confine settentrionale del Paese (ristrutturato in ottanta distretti), incassato fra due cime, il Salter e il Danzas, ultimo insediamento prima di una zona di rispetto, non appartenente a territori nazionali. Il caso sembra semplice: il colpevole dovrebbe essere un minorato, fratello della vittima 23enne; ha tre giorni di tempo per verificare e tornare. Parte. Poca gente per strada e in giro, scarsa popolazione anche all’arrivo, quasi tutto chiuso. C’è un’osteria con alloggio, il proprietario ha solo un altro cliente, alto magro pallido, tal Ermini. L’agente arriva e legge il verbale della guardia cantonale, i due erano orfani e vivevano insieme, c’è qualcosa che non lo convince. Proprio la guardia lo va subito a trovare per aggiornarlo, accompagnato dal presidente del costituendo consorzio turistico. L’omicida è ancora latitante, va trovato. A cena conosce Ermini, affranto, ha portato il fratello nella clinica dove da dieci anni un mitico professore opera i casi più disperati nel mondo, quelli senza speranza; i quattro edifici sono collocati nella zona cuscinetto, chiamata “terra morta”. Misteri e pericoli incombono.

Settantesimo volume e cinquantesimo romanzo (circa) in trent’anni per il medico scrittore Andrea Vitali (Bellano, Lago di Como, 1956), ulteriore gradevole esperimento letterario drammaturgico e gotico, senza una data certa (né trascorsa né futura) o un contesto paesaggistico istituzionale vero (ispirato alla val Bregaglia in Svizzera), originariamente pubblicato a puntate (in versione un poco differente) nell’agosto 2009 su “La provincia”, antico e molto letto quotidiano a diffusione locale nelle “sue” province di Como, Lecco e Sondrio. Il bravissimo scrittore allora faceva ancora il medico “condotto” di Medicina Generale e iniziava a virare la inesauribile vocazione per lo scrivere con più frequenza verso il genere giallo noir. Abbiamo subito all’inizio il morto ammazzato e l’investigatore depresso, la narrazione è in prima persona al passato, l’indagine rivoluzionerà la vita anonima del giovane diplomato elegante agente di bell’aspetto, spaesato in un periferico disabitato luogo di montagna, necessitato a verificare pure episodi di telepatia o telestesia. Sarà aiutato da un (altro) maiale. I personaggi citati si contano sulle dita di due sole mani, quelli che il protagonista lì incontra (vivi) sulle dita di una (sei a essere precisi). I capitoli sono brevi e brevissimi, lo stile figurativo ed evocativo; niente cellulari, tv, cinema, quotidiani; dialoghi brevi e contingenti anche quando a parlare tanto è soprattutto uno, un diario o una voce o una comunicazione a distanza. L’azzeccata copertina evoca il panorama descritto, spettrale e lunare, con al centro l’incombente enorme clinica dei misteri, ove il professore e il dottor Fonseca hanno evoluto originali metodi di lavoro (da cui il titolo). Bevande e musiche spartane.

 

Luca Crovi

«Storia del giallo italiano»

Marsilio

508 pagine, 19 euro

Italia. La narrativa poliziesca si mette in moto subito prima dell’Unità: Mistriani e De Marchi, con due romanzi ambientati a Napoli, sono nomi importanti da citare. Ne seguiranno migliaia di altri, moltissimi dei quali raccontati da Luca Crovi nel documentato saggio “Storia del giallo italiano”. Si parte dai migliori epigoni del modello francese dei misteri e si prosegue con la notevole diffusione delle collane poliziesche all’inizio del Novecento, per arrivare alla vita moderna quando la letteratura di suspense permette ad autori di diversa estrazione di analizzare la società attraverso tematiche criminali, diffondendosi in ogni città, segnalandosi per non pochi capolavori. L’affresco è minuzioso. La storia e la geografia del contaminato genere meritano ormai un’impresa collettiva di documentazione ed esame, basti pensare agli innumerevoli partecipanti al Premio Scerbanenco nell’ultimo trentennio o alla costante coraggiosa promozione degli autori “di provincia” da parte di Frilli.

 

Francesco Recami

«La cassa refrigerata. Commedia nera n. 4»

Sellerio

186 pagine, 13 euro

Veneto. Settembre 1992. La piccola folla di una ventina di persone attende davanti al portone d’ingresso della villetta monofamiliare. Vi viveva Maria Carrer, nata a Zenson di Piave il 10 febbraio 1910 e deceduta due giorni prima, il 4 settembre 1992, a 82 anni. L’incaricato delle pompe funebri apre la casa poco dopo le 15 e consente così l’accesso disordinato alla camera ardente, il feretro sulla sinistra del soggiorno in una bara di lusso color bianco avorio, sormontata da un monumentale coperchio refrigerante Body Freeze, con un oblò sulla parte anteriore. I presenti si raccolgono vicino alla salma, in silenzio, forse compresi nel cordoglio, pur avendo poco o nulla conosciuto la morta in vita. Non ci sono parenti stretti, nemmeno amici, giusto la donna delle pulizie e altri che avevano fatto lavoretti o servizi per lei, una donna con bimbo, curiosi imboscati, ipocriti affaristi, cinici illusi, soprattutto compaesani ovviamente. Tutti comunque pensano che era tirchia e ricchissima, non aveva conti in banca, forse ha nascosto i soldi dentro casa in qualche anfratto, basterebbe trovarli (magari fra i libri o nei bagni) senza farsi scoprire. Perlopiù cominciano scompostamente a cercare, facendo finta di niente, accampando frasi di circostanza e addirittura intascando oggetti. Il fatto è che fuori incombono nubifragio e tempesta e dentro si scatenano risse e disagi, ognuno preso da conflitti familiari, competizioni, innamoramenti, in una ricerca individuale di denaro e senso. Tanti sfruttano l’occasione: coniugi per mandarsi a quel paese in pubblico, coetanei sconosciuti per promettersi amore reciproco, colonnelli in pensione per comandare ancora, amanti o furbi per nascondersi, estranei per capirci qualcosa, altri per altro. Finché non ci scappa il morto ammazzato, un primo, un secondo, un terzo. Il quadro criminale precipita dentro, mentre l’alluvione avanza fuori, va via pure la luce, acqua e fango lambiscono porte e finestre. Sono proprio isolati dal mondo civile?

L’irriverente divertente scrittore satirico toscano Francesco Recami (Firenze, 1956), noto in passato soprattutto per romanzi e racconti dedicati ai condomini di una casa di ringhiera a Milano, continua la nuova serie toscana di favole (incubi) noir, giunta al quarto episodio, ancora in terza varia, questa volta ad ambiente rigido e fisso, l’interno della casa con la refrigerata cassa (da cui il titolo), quasi con la macchina da presa in mano, lì nel backstage dell’inedito spettacolo drammaturgico in corso, momenti di massa e primi piani, dialoghi e riflessi. La stessa struttura del romanzo è organizzata in trenta “scene”, ognuna con la specificazione di quante sono le persone presenti, viventi e defunte, in totale minimo 22 massimo 24 (anche se poi l’ultima riguarda solo 2 di loro, un anno dopo). La protagonista non è la vittima, molto odiata e poco frequentata, che possedeva alcune farmacie e poi aveva liquidato tutto. I protagonisti siamo noi, le dinamiche di persone in un gruppo e in un ambiente chiusi, come nascono gli schieramenti di pragmatisti e utilitaristi, oppure di trasversali e opportunisti; come si approvano mozioni d’ordine; come si individuano capi-delegazione, comitato dei probiviri, giunta esecutiva, servizio d’ordine, delegazioni; come non si entra o non se ne esce vivi o almeno sani di mente. La villetta aveva una cantinetta, per altro, una cinquantina di bottiglie di vino, che hanno un senso in quella regione, alle quali andrà trovato un senso in quel contesto. Per i soldi a nessuno viene in mente Edgar Allan Poe, non tutti conoscono i fondatori del genere che amano leggere, giallo o mystery che sia.

 

Jim Thompson

«I truffatori»

traduzione di Anna Martini (originale «The Grifters» 1963; prima ediz italiana, Fanucci 2010)

HarperCollins

270 pagine, 15 euro

California. Anni sessanta. Roy Dillon arriva alla sua auto e vomita. Ha appena ricevuto nello stomaco un violentissimo colpo con una mazza segata dal giovane commesso del negozietto dove aveva messo a segno il venti, uno dei trucchetti classici (insieme allo schiaffo e al cubetto) dei piccoli delinquenti. Si ferma la polizia, se la cava, va a rifugiarsi in una camera a sud. Vive di truffe e raggiri, sta con Moira, è proprio nei guai. Scoprendolo chissà come, si presenta la giovane madre Lilly (solo 14 anni in più) che non vorrebbe aiutare lui e non sopporta lei, ma ha bisogno di denaro. Ricominciano le avventure criminali e vitali. Un po’ come le avete viste nel bel film tratto dal romanzo, Rischiose abitudini di Stephen Frears, con i tre interpretati da John Cusack, Annette Bening, Anjelica Huston. “I truffatori” è un altro straordinario romanzo del mitico scrittore e sceneggiatore americano James Myers Jim Thompson (1906-1977), riedito in Italia per la goduria degli appassionati.

 

Pietro Leveratto

«Il silenzio alla fine»

Sellerio

306 pagine, 15 euro

New York. Inizio 1932. L’ouverture e il finale sono in Florida nel 1966, ad aprile e qualche mese dopo, due soli personaggi, l’anziano dottor Goe e il perfetto maggiordomo nero Clarence. La vicenda si svolge però tutta a New York, dove nel febbraio 1932 arriva in nave (da Napoli) la 47enne camicia nera antemarcia Gaspare Tiralongo, già siciliano di campagna, che frequenta il circolo dei camerati Mario Morgantini, si affida al simpatico biondo chiacchierone trentenne bootlegger Joe Cusumano e ogni venerdì invia a Roma resoconti circostanziati (che nessuno legge). Vi si trovano anche il direttore d’orchestra austriaco David Weissberg, alto e corpulento, geniale riservato scontroso, e il suo poco più vecchio avvocato tedesco, caro amico e collaboratore tuttofare Bruno Göetz, magro e di bassa statura, accomodante e competente, gran scrittore di diario cui confida anche un’omosessualità mai dichiarata né praticata. Gaspare aveva conosciuto bene Benito Mussolini vent’anni prima in Svizzera, dopo innumerevoli tentativi di farsi leggere e ascoltare da lui, il duce decide di inviarlo a una generica missione negli Stati Uniti, giusto per levarselo di torno. David era stato fino a poco tempo prima il Direttore del Metropolitan Opera House, sempre accompagnato e “gestito” da Bruno; ora il nuovo maestro è un italiano libertino e altrettanto geniale, Andrea Bergallo, socialista dichiarato e antifascista emigrato in America Latina. Weissberg e Bergallo sono i direttori d’orchestra più famosi della loro epoca, rivali (anche per una breve tresca del secondo con la moglie del primo) ma accomunati dall’età e dal repertorio d’elezione. Ad aprile Gaspare ha la bella pensata di far rapire Andrea per fargli rimangiare le continue offese al regime e al Duce e comincia un’altra storia metropolitana criminale che in vario modo coinvolge tutti quelli e altri figuri. Nemmeno la mafia può stare a guardare.

Il grande musicista Pietro Leveratto (Genova, 1959), contrabbassista di jazz, compositore, arrangiatore, docente al Conservatorio di Roma, all’esordio nel romanzo non poteva che scrivere un intenso colto noir musicale. Gli è riuscito bene, anche perché ha scelto la documentazione storica di contesto ambientale e sociale, per quanto senza nessun personaggio reale: il testo ha stile e ritmo, i silenzi al punto giusto (da cui il titolo). La narrazione è in terza persona varia, tutti i venticinque capitoli hanno un’intestazione che richiama partiture di classica e libretti di composizioni, nel cuore della vicenda perdono l’andamento cronologico per seguire i fili di pensieri e gli eventi, paralleli e intrecciati, dei protagonisti, nel contesto frenetico di New York, con lo sfondo delle politiche convulse nelle patrie di ciascuno. Il manager teatrale, anch’egli di origini italiane, appare convinto che i cantanti siano ancor più folli dei direttori e l’intero testo risulta una voce da dentro rispetto alla storia dei generi musicali e delle relative relazioni sociali negli ultimi due secoli. Né mancano accurati resoconti sulle dinamiche razziali dei tempi andati (e presenti) con il vecchio caso dei mozzarellanigger a New Orleans. Fra l’altro, poliziotti e federali sono distratti perché proprio quello era il periodo in cui tutta l’America si trovava in ansia per la sorte del piccolo Charles Augustus Lindbergh jr, poi trovato ucciso, come noto. Si beveva molto, nonostante (o forse grazie a) il proibizionismo, pure Bordeaux e Bollinger. Musica per ognigusto, con l’interessante crescente motivata centralità dello swing.

Redazione
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