Da esempio di integrazione quasi perfetta…

all’emergenza dell’ordine pubblico: la strana storia del campo rom di San Nicolò Arcidano

di Gatta Cikova

E’ il 1988 quando a San Nicolò Arcidano, centro agricolo della provincia di Oristano, si stanzia una comunità Rom. Qualche mese dopo,

nel 1989, il Comune – con i fondi della legge Tiziana – dota la comunità di un piccolo campo sosta in località “Su Riu e sa Murta”. Così, negli anni, la comunità si integra perfettamente con gli oriundi. I figli dei Rom vanno a scuola, giocano con i bambini di Arcidano; sono arcidanesi a tutti gli effetti. Nel 2007 nuove migliorie al campo… sino a un tragico incendio nel 2011.

A San Nicolò Arcidano è raro trovare chi si lamenta dei Rom. La comunità presente nel paese è da sempre ben voluta, e in Sardegna spesso quando si parla di integrazione fra rom e nativi si cita il caso della comunità arcidanese. Proprio tale integrazione viene fatta materia di studio in alcune tesi di studenti dell’Università di Cagliari così come in articoli e servizi giornalistici.

Che tra arcidanesi e Rom vi sia grande fratellanza è chiaro: dopo l’incendio che ha distrutto il campo grande è stata la solidarietà degli abitanti locali.

La comunità Rom a San Nicolò d’Arcidano è costituita da circa un centinaio di persone, il 3,5% della popolazione totale (2.800 abitanti). Ovviamente come accade in ogni gruppo sociale anche fra i Rom c’è qualche “curricula” che non va. Ma gli arcidanesi sono gente saggia e sanno benissimo che tra la popolazione oriunda ci sono, forse in maggiore proporzione, persone “non proprio a posto” e fra questi qualcuno che va ben oltre il furtarello.

Sembrerebbe però che per il sindaco del paese, Emanuele Cera, un ladro di Arcidano possa essere accettato mentre un Rom che commette un furto invece no. Così la storia di buona convivenza diventa una storia di ordine pubblico.

Come diceva qualcuno “le domande sorgono spontanee”.

Cosa mai avrà condotto il sindaco Cera a desumere che qualche cittadino non troppo perfetto possa essere problema generale di ordine pubblico che riguarda un’intera comunità? Non era forse quella di San Nicolò Arcidano una storia di piana convivenza? E sopratutto c’è differenza fra chi cittadino italiano, indigeno, è ristretto in “regime di domiciliare” e un altro cittadino che invece ha nelle vene sangue rom?

Sono differenti i presunti pregiudicati rom dai presunti pregiudicati sardi?

Il tutto nasce – o così sembra – ai primi di agosto quando il tribunale di Oristano manda ai domiciliari nel campo arcidanese una giovane rom (che chiameremo Laura) arrestata in fragranza di reato. Il primo cittadino definisce «inaccettabile» che «una nomade non residente in questo Comune sia stata condannata a dimorare presso il nostro campo rom invece che nel proprio paese di residenza».

Il sindaco peraltro da tempo lamentava il fatto che nel campo avessero accesso persone non autorizzate e l’ordinanza dei domiciliari della giovane sarebbe andata contro le decisioni prese dall’ente locale. Scriveva il sindaco «Non vorremmo, e lo impediremo in tutti i modi, che il nostro campo diventi un luogo autorizzato a ospitare tutti i Rom condannati a misure cautelari» (CagliariPad).

Nel campo rom di San Nicolò Arcidano, è da notare, vivono diversi cittadini con cittadinanza italiana ma ci sarebbero effettive difficoltà a conoscere il reale numero dei residenti.

Così si legge sul quotidiano «La Nuova Sardegna»: «Un paese di 2.800 abitanti sta ospitando dagli anni ’80 una comunità che oggi è arrivata a contare 95 unità, con 40 bambini, secondo l’ultimo censimento» ma il numero secondo il sindaco sarebbe inattendibile. Iinfatti sempre su «La Nuova» si legge: «Ci vuol poco per accorgersi che il campo accoglie ormai tante altre persone Riteniamo vi stia dimorando almeno una ventina di persone in più che non hanno titolo ad esservi ospitate. E questi sono episodi che bisogna stroncare». Ma in Arcidano circolava la voce che gli “abusivi”, come li chiamerebbe il sindaco, sarebbero più di quaranta.

Da qui sorge il problema legato al regolamento del campo rom approvato nel 2011 che per l’Asce (associazione sarda contro l’emarginazione) – da sempre in prima fila nella lotta dei diritti del popolo rom – è veramente “sui generis”.

Il caso diventa ancora più particolare quando il sindaco Cera, in un servizio a Videolina (una tv regionale) risponde a un Rom residente nel campo che chiede come ci si dovrebbe comportare per la residenza in caso di un matrimonio. Dove dovrebbe risiedere il componente della coppia che viene da fuori? «Qua no, in Sardegna sì, ma qua non può stare» dichiara il primo cittadino. «Se si dovesse verificare come in passato un surplus di cittadini si porrebbe un problema di ordine pubblico e di ordine sanitario e io a questo punto sarei costretto mio malgrado a firmare l’ordinanza dello sgombero».

Sembrerebbe quasi sia vietato sposarsi e avere figli con chi non risiede nel campo dal 2011, data di entrata in vigore del regolamento, sebbene nel campo risiedano diversi cittadini italiani.

Parole quelle del primo cittadino che danno adito a molteplici interpretazioni e a nuovi interrogativi.

Insomma che succede? Da massimo esempio di integrazione sociale il campo di San Nicolò sarà costretto a virare rotta?

Il sindaco Cera giustamente ricorda alla stampa: «La nostra amministrazione e la comunità arcidanese tutta dagli anni 80 a oggi ha fatto tutto il possibile per favorire l’integrazione della comunità rom locale, con l’impiego di finanze pubbliche e non solo. Purtroppo spiace appurare che, di contro, si è denotato solo un flebile riscontro da parte della comunità rom la quale, soprattutto nell’ultimo periodo, preferisce vivere nella noncuranza delle leggi e dei regolamenti vigenti. (sempre su «La Nuova Sardegna»). E ancora: «L’Amministrazione ha solo intenzione di tutelare tutti, non solo la comunità Rom, noi abbiamo da rispondere a tutta la Comunità amministrata e siamo fermamente decisi a far rispettare il regolamento comunale esistente perché approvato dall’assemblea consiliare all’unanimità (…) si è solo chiesto il rispetto delle più basilari regole di civile convivenza e se i Rom intendono continuare a stare nel nostro paese devono rispondere a queste richieste che l’Amministrazione e la Comunità esigono, diversamente se le ritengono eccessive possono eventualmente scegliere di andare ad abitare altrove».

Nel frattempo l’Asce svolge un’accurata inchiesta e scopre che Laura, la ragazza sottoposta agli arresti domiciliari, non è un’abusiva, fa parte di quel campo in qualità di sposa di un residente (cittadino italiano) da cui ha avuto un bambino che oggi ha 4 mesi.

L’Asce decide poi di andare alla ricerca degli abusivi e cosa scopre? I presunti abusivi, forse una dozzina, sarebbero le spose e i nuovi figli dei giovani residenti nel campo: a una parte di loro però il Comune avrebbe negato la residenza mentre altri non l’hanno nemmeno chiesta sospettando un rifiuto.

Non è sempre opportuno leggere fra le righe e in situazioni come queste è bene stare alle dichiarazioni. Però si vorrebbe avere una risposta alla prima domanda da cui poi nasce tutto il “can can”: perché la comunità arcidanese potrebbe veder messo a rischio il proprio ordine pubblico?

L’Asce non si ferma, scrive al Prefetto – dunque al rappresentante territoriale del governo – sostenendo che è invece il sindaco a fomentare il crescere della diffidenza e i sentimenti anti-Rom.

Di sicuro questa è una storia destinata a non finire qui.

In un servizio del Tg regionale il Prefetto comunica che il sindaco si è rivolto a lui perché “a suo dire” c’erano seri problemi e gli è stato consigliato di “dialogare con i residenti”.

Nasce così l’invito del sindaco Cera ai capifamiglia dei Rom per un incontro su tutta la questione. I Rom per iscritto confermano al sindaco Cera la loro presenza e chiedono «che venga invitato anche il presidente dell’Asce, persona di loro fiducia e sicuramente competente».

La risposta è impressionante: «L’incontro è da ritenersi circoscritto ai soli capifamiglia che saranno ricevuto dall’autorità locale e dal rappresentante delle forze dell’ordine delegato».

Ancora più impressionante la comunicazione agli organi di informazione che rendicontavano l’incontro. L’accordo vincolerebbe i Rom a non farsi rappresentare da terzi, anche per il futuro e a nessun titolo, al fine di eliminare sul nascere le incomprensioni con qualche associazione. Il riferimento è principalmente all’Asce ma anche all’Associazione 21 luglio (con sede a Roma) che scrive e chiede vanamente un incontro.

Il presidente dell’Asce, Antonio Pabis, conferma: «La vicenda è soltanto agli inizi. Il sindaco non sa che in Italia esiste un diritto costituzionale alla difesa e che ogni cittadino ha il diritto di avere un avvocato, un sindacato, un’associazione che lo tuteli e la rinuncia – che in questo caso noi riteniamo estorta – non ha alcun valore perché si tratta di un diritto non negoziabile. Curiosamente il sindaco diminuisce il valore dei diritti dei Rom e dà maggior valore al suo potere di ordinanza che gli consentirebbe di cacciare indiscriminatamente residenti e non residenti che non rispettano, a suo dire, un regolamento che per noi è impresentabile e dovrà essere profondamente rivisto se non annullato».

Se nel campo ci sono cittadini italiani che godono degli stessi diritti e doveri di chi vive nel centro abitato di Arcidano come è che il sindaco dichiara che deve rispondere a tutta la comunità amministrata? E i Rom chi sono?

Ma l’Asce pone altre domande. Perché il sindaco Cera rifiuta di incontrare i Rom con le loro Associazioni magari lasciando le porte aperte al contributo di altre istituzioni e cittadine/i competenti sulle tematiche da affrontare? Perché invece invita soltanto maresciallo dei carabinieri, ben sapendo che ciò potrebbe intimorire i già spaventati rom? Perché il sindaco non fa una discussione aperta, magari in piazza, per affrontare insieme i problemi e cercare con tutti soluzioni civili?

Insomma – chiede l’Asce – perché Cera rifiuta il dialogo?

L’Asce ha un sospetto: la situazione economica generale peggiora e alcuni cittadini si lamenterebbero perché aspirano agli aiuti comunali in concorrenza con famiglie di origine rom. Si può rispondere a ciò in tanti modi ma il sindaco, secondo l’Asce, avrebbe scelto di alimentare la guerra fra poveri. In questo modo, prosegue il presidente dell’Asce, si alimenta anche il disordine sociale. Forse sarebbe meglio servire la popolazione con progetti di aiuto veri, capaci di affrancare la gente dalla carità pelosa, puntando sul lavoro e cercando di assicurare un minimo lavorativo per tutti oltre alle condizioni di crescita personale e di emancipazione.

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