Dal basso, per la sinistra e con la Terra

Una sfida da Abya Yala/afro/latinoamerica

di Maria Teresa Messidoro (*)

Yerka-yerkaland

«Esco a camminare

per la cintura cosmica del sud.

Cammino nella regione

più vegetale del tempo e della luce.

Camminando sento

tutta la pelle dell’America nel mio piede.

E col mio sangue scorre un torrente

che libera nella mia voce la sua forza».

(da “Canción con todos” di Violeta Parra, resa celebre dalla splendida voce di Mercedes Sosa)

La fine del secolo scorso e i primi anni del duemila hanno segnato cambiamenti profondi nel continente latinoamericano, sia a livello sociale che politico.

Innanzitutto, per molti latinoamericani e per chi segue con attenzione i processi in corso, il ventunesimo secolo iniziò in realtà sei anni prima, il primo gennaio 1994, quando il fiume zapatista irruppe nello scenario mondiale, modificando prospettive e modalità di lotta.

In secondo luogo, occorre sottolineare che non ci si trova più di fronte a un continente omogeneo nella sua storia e nella sua cultura, la cosiddetta “America Latina”, bensì di fronte a un pluriverso, mondo fatto di molti mondi, portando alla definizione di Abya Yala/Afro/Latino-America, in cui si riconoscono indigeni e afrodiscendenti, contadini, abitanti dei territori urbani popolari, giovani e donne.

Mentre alcuni governi “progressisti” sono entrati in crisi e il neoliberismo mondiale sferra il proprio attacco ai cambiamenti effettuati nel continente utilizzando “golpes suaves”, quei colpi di Stato indiretti che destabilizzano presidenti eletti democraticamente, l’intero continente è percorso da dibattiti di movimenti trasversali, da assemblee di comunità di resistenza sorte ovunque, da mobilitazioni di donne, contadini e studenti, per riaffermare la propria identità e dignità.

Il simbolo di tutto ciò che sta avvenendo è la “minga”, letteralmente in lingua quechua «lavoro collettivo volontario fatto a vantaggio della comunità»; questo strumento di incontro, appartenente alla tradizione precolombiana, soprattutto in Colombia, Perù, Ecuador, Bolivia, Cile e Paraguay, oggi è utilizzato come metafora del lavoro intellettuale svolto collettivamente.

In Brasile esiste una parola equivalente, “mutirão”, applicata anche a iniziative con finalità politiche e sociali, come marce, manifestazioni etc.

Nelle mingas si cerca di coniugare la formula zapatista “dal basso, a sinistra” con la terra, perché «la terra comanda, il popolo ordina e il governo ubbidisce, costruendo autonomia».

Quante cose è stata la sinistra in Abya Yala/Afro/Latino-America: teorie, strategie, lotte, emozioni, canti, arte, tristezze, vittorie e sconfitte, rivoluzioni, momenti di bellezza e orrori, icone come Che Guevara o Camillo Torres, il rosso intenso delle mille bandiere sventolate con orgoglio in tante manifestazioni. Ma questa sinistra deve ripensarsi, ripartire dal basso, rinascere nelle numerose mobilitazioni degli ultimi decenni, nelle mingas di pensiero, in vertici dei popoli e in convergenze di ogni tipo, dove i protagonisti centrali siano i saperi delle comunità e dei popoli che resistono.

E’ necessario ripartire prima di tutto dalle lotte autonome di tutti coloro che si difendono dallo sviluppo estrattivista, coscienti che «affinchè lo sviluppo possa entrare, deve uscire la gente», come affermano gli afrocolombiani che vivono in prima persona l’esperienza dell’espulsione dai propri territori sotto la pressione del cosiddetto progresso.

In questo contesto diventano centrali concetti come autonomia, territorialità e “comunidalidad”; questa parola, forse estranea a noi occidentali, viene impiegata con vari significati: il “comunal”, il “popular-comunal”, le lotte per i “comunes”, “comunitismo”, attivismo comunitario. Fondamentalmente la comunidalidad è la condizione di essere comunal, un nuovo paradigma degli afrolatinoamericani, a partire da culture profonde, per essere elemento portante anche delle lotte attuali in contesti urbani.

La comunidalidad ha rappresentato una categoria centrale nella vita di molte popolazioni del continente e continua a esserlo, lontano da qualsiasi forma assistenzialista, derivata dall’ancestralità però aperta verso il futuro, con la ricchezza di tutta la sua autonomia da schematismi e rigidità predefinite teoricamente.

Di fronte a una vorace globalizzazione neoliberista, portata avanti da un mondo capitalista, “moderno”, patriarcale, che si arroga il diritto di essere il Mondo, rifiutandosi di relazionarsi con altri mondi, l’autonomia ha la sua ragione di essere come elemento caratteristico di quei popoli-territorio che si mobilitano e difendono i propri modelli di vita diversi da quello imposto.

Come affermò Raul Zibechi – riferendosi alle insurrezioni indigen-popolari che portarono al potere Evo Morales – più che di movimenti sociali, l’autonomia ci parla di società in movimento, addirittura di mondi in movimento, dove il comunale prevale sull’individuale, il legame con la terra sulla separazione tra umani e non umani, il buen vivir sull’economia.

Il buen vivir è il sumak kawsoy, il vivere bene.

I comuneros indigeni misak del nord del Cauca in Colombia ci ricordano che si deve «recuperare la terra per recuperare tutto … per questo dobbiamo pensare con la nostra testa, parlando il nostro idioma, studiando la nostra storia, analizzando e trasmettendo le nostre esperienze come anche quelle di altri popoli» (Cabildo indigeno di Guambia, 1980). E il popolo nasa, in Colombia: nella mobilitazione, la minga sociale e comunitaria afferma che «la parola senza l’azione è vuoto. L’azione senza la parola è cieca. L’azione e la parola senza lo spirito della comunità sono la morte».

Autonomia, comunidalidad, relazioni e territorio sono intimamente legati nel nuovo pensiero di AbyaYala/Afro/Latino-America.

In questo contesto, la grande sfida per la sinistra e l’autonomia è imparare «a sentipensare con la Terra, ad ascoltare profondamente sia il grido dei poveri che il grido della terra» (Leonardo Boff).

La Terra è l’elemento più antico, più profondo, dei popoli originari, quando gli uomini si resero conto di essere relazione ma anche loro stessi Terra, sapendo contemporaneamente che tutto nell’universo è vivo, che la coscienza non è prerogativa degli esseri umani ma una proprietà distribuita in ogni ambito della vita. Questa concezione della Terra è ben viva e presente nel pensiero attuale di coloro che difendono la montagna contro la miniera perché anch’essa è viva, o le sorgenti d’acqua perché sono origini di vita, spesso considerati luoghi sacri dove l’umano, il naturale e lo spirituale si fondono e si confondono. La stessa concezione della Terra che anima il desiderio di ricomunalizzazione della vita, la rilocalizzazione delle economie, concretamente con la produzione e la difesa delle sementi autoctone, il rifiuto dei prodotti transgenici e dei Trattati di Libero Commercio, per la difesa dell’agroecologia e la sovranità alimentare.

«Il territorio è la vita e la vita non si vende, si ama e si difende» recitava lo slogan della marcia della Comunità Binnizzá, in Messico nel 2013.

Molti popoli descrivono la propria lotta politica come “la liberazione della Madre Terra”, cercando di salvaguardare le proprie condizioni di esistenza e resistenza di fronte all’aggressione sviluppista, estrattivista e modernizzatrice; questo concetto diventa fondamentale per tutte le pratiche politiche nel presente della sinistra, nei processi di autonomia faticosamente in costruzione, nelle lotte ambientali e per altri modelli di vita, legando fra loro giustizia ambientale, giustizia cognitiva, autonomia e difesa dei mondi altri.

Il territorio diventa il luogo di quelle e quelli che difendono la Terra, come affermano lucidamente le donne della piccola comunità di La Toma del Norte, nel Cauca, mobilitate contro la ricerca illegale dell’oro: «Alle donne che curano i loro territori. Alle curatrici e ai curatori della Vita Degna, Semplice e Solidaria. Tutto questo che abbiamo vissuto è stato per l’amore che abbiamo conosciuto nei nostri territori. La nostra terra è il nostro luogo per sognare con dignità il nostro futuro. Forse è per questa ragione che ci perseguitano, perché chiediamo una vita di autonomia e non di dipendenza, una vita non si debba mendicare né essere vittime» (Lettera aperta di Francia Márquez, leader di La Toma, 24 aprile 2015).

Le esperienze comunitarie e autonome del continente Abya Yala/afro/latinoamerica in difesa della Terra possono essere inevitabilmente debilitate, non sempre l’impegno per le trasformazioni raggiunge gli obiettivi prefissati; alcune possono ricadere in antiche forme di oppressione o di liderismo, altre falliscono, spesso per l’incredibile peso delle pressioni del momento o per la repressione messa in atto contro di loro. Ma non importa, perché «la speranza non è la certezza che una cosa accdrà, ma che ha senso perseguirla, accade quel che accada» (Esteva).

I veri anacronistici sono coloro che insistono sulla via dello sviluppo e della modernità, sono loro i suicidi o meglio ecocidi. Non sono invece né romantici né infantili tutti coloro che difendono il proprio luogo, il territorio e la Terra, consapevoli della necessità della transizione verso altri modelli di vita, verso un pluriverso di mondi.

«Il possibile è stato già fatto, ora puntiamo all’impossibile» (Attivisti indigeni, contadini e afrodiscendenti, Tramas y Mingas para el Buen Vivir, Papayan, 2014).

Grazie dunque a tutti quei popoli, collettivi, movimenti, artisti e intellettuali che fanno camminare la parola lungo “la cintura cosmica del sud”, lontani dalle telecamere e dalle mode del momento, continuando a costruire un sogno dal basso e da sinistra, dando spazio a molti mondi, per colorare questo grigio orizzonte neoliberale. Per far riflettere anche noi che, in altri contesti, vogliamo resistere e lottare.

E, con le parole di Violeta Parra, «Gracias a la vida que nos ha dado tanto…».

«Soy America Latina,

un pueblo sin piena pero que camina.

Tu no puedes comprar al viento

Tu no puedes comprar al sol

Tu no puedes comprar la lluvia

Tu no puedes comprar el calor.

Tu no puedes comprar las nubes.

Tu no puedes comprar los colores.

Tu no puedes comprar mi alegria.

Tu no puedes comprar mi alegria»

(Da «Latinoamerica» di Calle 13)

 

   (*) Maria Teresa Messidoro è dell’associazione “Lisangà culture in movimento”: questo articolo è stato scritto per la rivista «Tempi di fraternità», attingendo a piene mani dal bollettino 3/2016, del 16 febbraio 2016 di «America Latina dal Basso», a cura di Aldo Zanchetta, che ringrazio per il suo prezioso lavoro di ricerca, traduzione e proposte, instancabile con la freschezza dei suoi 80 anni. Nel bollettino citato c’è un interessante testo di Arturo Escobar, colombiano, professore emerito di Antropologia all’università del North Carolina a Chapel Hill.

 

L’IMMAGINE è di JACEK YERKA, molto amato qui in “bottega”.

 

Teresa Messidoro

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