Dal Guatemala pluriversi femministi e indigeni

Aura Lolita Chávez, Lorena Cabnal, Ilka Oliva Corado e le loro battaglie per le donne

di Maria Teresa Messidoro (*)

 Spunti di riflessione dalla terra dell’eterna primavera, cioè il Guatemala, come siamo abituati a chiamare Iximulew, il paese dei Maya, conosciuto anche dagli antichi Nahuatl come Quauhtlemallan, cioè “luogo di molti alberi”.

Nella lingua ixil, invece, il concetto che esprime il Guatemala è Tx’avail ixi’m.

Non spunti di riflessione generici, ma stimoli che provengono dal mondo femminile indigeno guatemalteco, un mondo vivo e arricchente per tutt@ noi, dall’altra parte del mondo.

Aura Lolita Chávez è la portavoce del Consiglio dei Popoli Maya Kiche’: più volte si è esposta per denunciare la corruzione e la violenza dello Stato guatemalteco e la devastazione perpetrata dalle multinazionali con sede in Europa (come Enel Green Power, italiana, e ACS di Florentino Peréz, spagnola). Dopo essere sopravvissuta a diversi attentati, ha ricevuto la protezione della Commissione Interamericana dei Diritti Umani e ha dovuto lasciare il proprio paese, che ha il triste record negativo per il più alto tasso di omicidi di difensori ambientali del continente.

Durante l’esilio, che dura ancora oggi, Lolita non ha smesso di lottare nè di dare visibilità alla causa del suo popolo, intessendo nuove reti di solidarietà in giro per il mondo.

Lolita è inoltre una delle esponenti del movimento delle Mujeres Comunitarias Antipatriarcales, che lottano per i diritti delle donne a partire dalla cultura e identità indigena, ed è stata una delle fautrici della trasformazione dell’ultimo Encuentro de Mujeres argentino in un evento plurinazionale capace di coinvolgere le dissidenze sessuali, le donne lesbiche, trans, travesti, bisessuali e non binarie, ma anche le villeras, che vengono dalle villas (quartieri poveri auto-costruiti) dove vivono l’esclusione dovuta alla disuguaglianza sociale imperante.

In una intervista apparsa su Olasur a marzo di quest’anno, Lolita sottolinea che questa plurinazionalità intesa nel suo senso più ampio  non esiste solo nel continente Abya Ayala (cioè il continente latinoamericano) ma in tutto il mondo, anche se spesso assente nell’agenda di un femminismo occidentale e più tradizionale.

https://www.olasur.info/2020/03/03/cosmogonie-e-identita-plurali-e-diverse-per-un-femminismo-comunitario-intervista-a-lolita-chavez-2/

In ogni territorio convergono nazionalità multiple e plurali, scrive Lolita, come multiple e plurali sono le diverse cosmogonie; la presunta idea di omogeneità e di un vincolo strettamente nazionale non ci permette di riunirci, ma al contrario ci divide, ci isola l’una dall’altra, facendoci perdere la forza della collettività.

Quanto sostiene Lolita può essere collegato all’intervento, che definirei provocatorio, di Lorena Cabnal, poco più che trentenne ma già storica portavoce del femminismo comunitario territoriale di Iximulew, un intervento apparso a febbraio sulla rivista digitale spagnola Pikara.

https://www.pikaramagazine.com/2020/02/defensa-y-recuperacion-del-territorio-de-la-sanacion-ancestral-originaria/

Lorena ci sbatte in faccia una realtà con cui ci obbliga a confrontarci, soprattutto noi, volonterose e perché no cocciute donne impegnate nella solidarietà internazionale: le donne esponenti del femminismo  comunitario ribadiscono da almeno dieci anni  che non è possibile permettere alle defensoras del territorio di esporre pubblicamente le proprie storie, ad alto contenuto di rischio politico, se non si creano contemporaneamente le condizioni per sostenerle emotivamente in uno spazio adeguato, che permetta loro di canalizzare le proprie emozioni, affrontando i timori e le sofferenze che inevitabilmente generano queste testimonianze. Se così non è, in realtà – nonostante tutta la buona volontà di chi organizza e partecipa a questi momenti – si corre il rischio di vittimizzare un’altra volta chi racconta, caricando sulle loro spalle un nuovo accumulo emozionale negativo, difficile da affrontare.

Quante defensoras sono ormai stanche di parlare e condividere la propria esperienza, ritrovandosi con il sistema nervoso alterato dovendo fare i conti con i ricordi degli attacchi, rischi e minacce vissute? Il rischio è grande, se non si creano le condizioni per un loro necessario “riposo” fisico, spirituale e psicologico. Ma Lorena ci ricorda anche che la Red de Sanadoras Ancestrales, di cui fa parte, non vuole compromettersi in logiche di ricerca di appoggio da parte di organizzazioni della cooperazione internazionale per progetti rivolti alle defensoras nel campo della cosiddetta sanación, che in realtà diventano degli strumenti per depoliticizzare l’auto cura di sé, mercificando spazi di benesseri emozionali delle donne coinvolte, spendendo soldi e risorse. E’ il caso estremo di donne defensoras di territori ancestrali portate in spa, magari con l’obiettivo di un massaggio rilassante, supponendo che ciò serva a prendere le distanze e a dimenticare ciò che hanno subìto: ma ciò non sta di fatto contribuendo ad un confronto con le radici profonde delle proprie oppressioni ancestrali e patriarcali, per realizzare una catarsi politica e spirituale, per liberarsi veramente.

No dunque ad un discorso femminista alla moda, un discorso “kaxlan” (letteralmente “no nuestro”, “no originario”, ciò che viene da fuori; per molte anziane indigene, Kaxlan è la gente ladina, la gente bianca).

Infine, Lorena sottolinea l’importanza di aprire il nostro cuore per accogliere il “cosmo-sentire”, le riflessioni di donne geograficamente lontane, apportando sempre qualcosa di nuovo al risveglio della memoria che cura e sana, per poter ritessere comunitariamente ciò che il colonialismo ha rotto nella Red de la Vida.

Alle donne che condividono il femminismo comunitario, piace mettere in campo gli Acuerpamientos Territoriales con altre donne, per sanare le relazioni di potere e privilegio che esistono, sapendo che per realizzare questo occorre spesso spostarsi in luoghi lontani, perché essere femminista territoriale non significa rimanere in città, continuando tranquillamente a conversare; il solo discorso non è una pratica di autocura, occorre invece prendere coscienza che ci si cura con la terra, il fiume, la montagna, perché nella tradizione maya “Láin ut laat, laat ut loin”, tu sei io e io sono tu.  Conclude Lorena: “per questo difendiamo il nostro territorio corpo e il nostro territorio terra. Nella comunità dormiamo, mangiamo, sogniamo, piangiamo, ci lamentiamo e ci curiamo tra donne con saggezze plurali e questo succede anche quando emigriamo, perché i saperi camminano con noi. Noi ci riconosciamo nella memoria sanatrice e plurale ereditata dalle nostre antenate, e ciò è vero in popoli differenti, in cui tutte le donne sono capaci di essere curatrici, quando non si mettono in competizione nel campo delle conoscenze, o peggio ancora quando si riduce il tutto a commercio o folklore”.

Tutto questo, chiaramente, recuperando l’allegria senza mai perdere l’indignazione e la ribellione, rispettando la pluridiversità.

Connesso ai pensieri di Lolita e Lorena è l’intervento di Ilka Oliva Corado, poetessa, scrittrice e pittrice.

Nacque nella provincia di Jutiapa, in Guatemala, quarant’anni fa; da piccola, anzi piccolissima, vendeva gelati nel mercato di Ciudad Peronia, alla periferia della capitale. Dopo essersi diplomata in educazione fisica, si iscrive all’Università al corso di psicologia, che interrompe nel 2013 per emigrare negli Stati Uniti; un viaggio che fece come molti altri centroamericani in modo clandestino, attraversando il deserto di Somoa nello stato di Arizona. Questo viaggio è raccontato in “Storia di una indocumentata”, l’unico suo libro tradotto in italiano. Sul suo blog “Cronicas de una inquilina” precisa che una nube passeggera la battezzò come migrante indocumentada, però con maestria in discriminazione e razzismo.

Alla fine di febbraio pubblica “Cuando la victima es indigena”: immediatamente stampo e leggo, convinta che anche questa volta mi trasmetterà qualcosa di nuovo. E non mi sbaglio nemmeno questa volta.

https://cronicasdeunainquilina.com/

https://cronicasdeunainquilina.com/2020/02/17/cuando-la-victima-es-indigena/

Nel testo, Ilka si domanda quale sarebbe il nostro comportamento se scoprissimo che il molestatore coinvolto in un caso qualsiasi non è più uno sconosciuto ma è, ad esempio, nostro fratello, padre, nonno, sposo, compagno, fidanzato,… E ancora, come reagirebbe una giornalista di una qualunque testata di informazione se alla sua porta bussasse un gruppo di giovani, per denunciare per molestie un personaggio noto al pubblico, magari impegnato pure in prima fila nella difesa dei diritti umani. Sapremo guardare negli occhi chi sta prendendo coraggio e non vuole più accettare una tradizione patriarcale dura a morire, o semplicemente ci gireremo dall’altra parte? E l’ultima domanda di Ilka è la più difficile: e se queste giovani sono indigene o negre? Passiamo forse la mano, perché tanto a chi le importa ciò che succede a una indigena o a una negra, tranne quando abbiamo bisogno di fare folklore? In situazioni come queste, purtroppo, anche il discorso del femminismo cade, come cade quello dei diritti di genere o il concetto di solidarietà o addirittura della sorellanza, ed entra invece quello della discriminazione ed il razzismo.

Non sono domande retoriche quelle che ci pone Ilka, perché poco tempo fa in Guatemala, un noto difensore dei diritti dei popoli indigeni ha molestato perlomeno quindici donne, indigene, però i mezzi di comunicazione a cui si sono rivolte le giovani per denunciare il fatto ed ottenere un po’ di appoggio, si sono rifiutati di dare spazio alla loro testimonianza, perché il responsabile ha una fama internazionale e loro sono soltanto un gruppo di giovani indigene, molestate come è successo a milioni di altre nella storia umana. Si è giunti a suggerire loro, diplomaticamente, di poter denunciare ciò che è successo senza fare il nome del responsabile, affrontando il tema in termini generali, per aprire un dibattito pubblico sul tema delle molestie. E’ davvero così grande allora il peso del patriarcato, del razzismo, del classismo e della doppia morale?

Ilka termina il suo articolo, con la speranza che queste donne negre ed indigene trovino spazio in mezzi di comunicazione alternativi, dove la loro voce di denuncia sia ascoltata, senza che nessuno pensi di diminuire il valore della loro parola semplicemente per motivi etnici.

Questo articolo mi fa ritornare alla mente il caso delle quarantun bambine bruciate vive nel centro per minori Virgen de Asunción a Città del Guatemala, mentre altre diciassette sono rimaste ustionate.

E’ successo, ironia della storia, tra il 7 e l’9 marzo del 2017, proprio nel giorni in cui milioni di donne erano scese in piazza, come molte altre volte, per denunciare la violenza patriarcale e chiedere giustizia.

Una morte non accidentale, con pesanti responsabilità dello Stato e della stessa Polizia Nazionale, che di fatto non intervenne immediatamente, gesto che invece probabilmente avrebbe salvato le vite delle bambine intrappolate.

Bambine che avevano proprio poco tempo prima denunciato le violenze e gli abusi subiti in quel centro e che per questo erano state punite, chiuse nella casa, intrappolate.

No, non possiamo girarci dall’altra parte e dimenticare: nemmeno accettare che il Ministro della Cultura guatemalteco abbia tentato di far ritirare dalla Plaza de la Constitución di Città del Guatemala il monumento realizzato spontaneamente per ricordare le vittime dell’incendio; fortunatamente, due giorni dopo, un altro altare è stato eretto perché la Memoria è sacra e solo la Memoria ridà dignità alle vittime. Anche se sono semplicemente indigene.

https://www.nytimes.com/es/2019/02/14/espanol/america-latina/hogar-seguro-guatemala.html

https://www.efe.com/efe/america/sociedad/reinstalan-un-altar-en-honor-a-las-41-ninas-quemadas-hogar-estatal-guatemala/20000013-4082616

(*) Vicepresidente Associazione Lisangà culture in movimento

Teresa Messidoro

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