Dal profondo Sud degli Usa – 1

di Marco D’Eramo (*)

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MARCO D’ERAMO INVIATO A CHARLESTON (SOUTH CAROLINA)

Sabato alle dieci del mattino sono attese 30.000 persone da tutti gli Stati uniti per celebrare i solenni funerali, con gli onori militari, di otto marinai. Ripreso da decine di canali tv, il corteo comprenderà 8 carri addobbati a lutto, trainati da cavalli: partirà dai giardini che fronteggiano questo storico porto dell’Atlantico, costeggerà le antiche magioni dei piantatori schiavisti e si concluderà nel cimitero Magnolia. Le salme onorate sono non di marines morti in Iraq, ma di 8 sommergibilisti periti 140 anni fa. Si trovavano sul sottomarino confederato (cioè dell’esercito sudista) Hunley che, al comando del tenente George Dixon, il 17 febbraio 1864 salpò per affondare la Housatonic, una nave dell’Unione (cioè nordista) che bloccava il porto. L’Hunley riuscì a conficcare una carica esplosiva nella nave nemica e a farla saltare, 6 km al largo della città, ma poi andò disperso (la sua fu nella storia la prima missione sottomarina compiuta con successo). Il suo relitto fu ritrovato per caso nel 1995 dallo scrittore di best seller d’avventura marina Clive Cussler, e fu recuperato nel 2000.

I funerali di domani concluderanno un’intera settimana di celebrazioni, iniziata lunedì sul ponte della portaerei Yorktown, dove sono state svelate le ricostruzioni facciali degli ottocenteschi sommergibilisti, e proseguita i giorni successivi nelle varie chiese della città. Attorno alle cerimonie si è costituita tutta un’industria dell’Hunley, con vendita di modellini del sottomarino (una cui copia è esposta nel museo cittadino), monete facsimili di quelle ritrovate a bordo, riproduzioni di cimeli e di armi. È enigmatico lo scalpore che quest’evento suscita nel sud degli Stati uniti, quando il resto del mondo è concentrato su sonorità diverse: Falluja, Kerbala, Nassirya.

Si potrebbe pensare che è un evento eccezionale, poiché è «l’ultimo funerale di soldati confederati», ma in realtà «l’ultimo funerale» si ripete ogni qualche anno: ce ne erano già stati nel 1999 e nel 2000, quando furono sepolti i resti di circa 30 soldati e marinai di quella che nei testi italiani è chiamata Guerra di Secessione (1861-5) e qui è invece Guerra Civile. Anche allora migliaia di persone fecero ala al corteo funebre e anche allora tra le salme onorate c’erano quelle di altri sommergibilisti di un precedente esemplare dell’Hunley (così chiamato dal suo armatore Horace Hunley, anch’egli sepolto nel Magnolia Cemetery).

È come se in Italia decine di migliaia di persone accorressero nel 2004 al funerale, trasmesso in diretta tv, dell’«ultima camicia rossa» garibaldina i cui resti sarebbero stati ritrovati a Calatafimi.

A uno straniero sembra incomprensibile, anzi un po’ maniacale, quest’attaccamento alla Confederazione, come se la storia si fosse fermata 140 anni fa: e senti ancora un’ostilità verso gli yankees.

La vedi questa fissazione proprio davanti al Campidoglio di Columbia, capitale della South Carolina (in ogni Stato degli Usa, il parlamento riproduce in piccolo del campidoglio di Washington). Qui, sulla cupola del Campidoglio, fino al luglio del 2000, sventolava la bandiera confederata. Sotto la pressione nazionale, il parlamento della South Carolina (S-C) decise di rimuoverla dalla cupola e, invece, di farla garrire al vento su un’asta proprio sul prato antistante al Campidoglio: un affronto per i neri di tutta la nazione, visto che quella confederata è la bandiera schiavista.

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Del funerale dell’Hunley vengo a sapere nella sede locale della National Association for the Advancement of Colored People (Naacp) in una casetta dimessa, in un quartiere povero del centro di Charleston, dove alle 18.30 si tiene la riunione del loro comitato esecutivo. Qui, tra signore e signori sulla mezza età e della piccola borghesia, è tutto un incrociarsi di battute sul funerale. D’altronde non si è ancora placata la polemica locale che ha visto contrapposto la Naacp e il capo della polizia di Charleston che aveva detto che se due neri si uccidono tra loro, non è un problema suo.

Ti chiedi dove è andato a finire il famoso «Nuovo Sud» di cui da una quindicina di anni si straparla. Nella vulgata corrente, il New South detiene il controllo delle elezioni presidenziali: John F. Kennedy riuscì a vincere grazie all’apporto del suo vice texano Lyndon Johnson, e da allora tutti i presidenti sono stati eletti dal sud: i texani Johnson e George Bush figlio (George Bush padre è un «bramino» della Nuova Inghilterra reinventatosi texano), i californiani Richard Nixon e Ronald Reagan, il georgiano Jimmy Carter e infine Bill Clinton dell’Arkansas (ragion per cui John Kerry, del Massachusetts, ha un bisogno imperativo di un candidato del sud alla vicepresidenza). Il New South sarebbe il nuovo epicentro economico degli Usa, contrapposto alla Rust Belt (la «cinta arrugginita» degli Stati industriali in declino) del nord, dell’est e del Midwest e costituirebbe il modello sociale che tutti gli altri Stati dovrebbero seguire. Michael Moore ha detto che, 140 anni dopo aver perso la guerra, i sudisti hanno vinto la pace: ed è solo per metà una battuta.

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«Il ‘Nuovo Sud’ non è molto nuovo» mi dice, elegante e brizzolato, il reverendo Joseph Darby, pastore della Chiesa Metodista episcopale africana, vicepresidente della Naacp della S-C. «Non è come negli anni ’60, quando eri segregato per legge, e non potevi salire su un autobus dei bianchi, andare nella scuola dei bianchi. Adesso la segregazione c’è sempre, ma in modo informale, più educato». Mi torna in mente quel che scriveva il sociologo Dick Sennett sulle vite dei bianchi e dei neri che si possono mischiare di giorno nei luoghi di lavoro, ma poi sono rigorosamente separate di notte nella socializzazione. E certo che qui una coppia mista non la vedi neanche col cannocchiale. «Il nuovo sud è come il razzismo, è ripulito, rimesso a nuovo, ma sempre lì è» ribadisce il reverendo.

È un’opinione che mi ripeteranno tutte le persone con cui parlo in S-C. Me lo dice anche Brett Bursey, 55 anni, bel viso aperto e capelli grigi legati dietro a coda di cavallo, uno dei rari attivisti politici di sinistra in questo Stato, un uomo cordiale che ha pagato e paga di persona la sua militanza. La sua compagna, mi dice, è cresciuta a Vicenza perché suo padre insegnava in una scuola americana della base militare Usa. Lui è figlio di un dentista della Marina, è cresciuto nella base dove vengono addestrati i marines a nord di Savannah (Georgia), dove la polizia militare angariava i figli dei civili e dove è iniziato il suo impegno antimilitarista: «La mia fregatura è che io credevo ai valori ‘americani’ che ci insegnavano a scuola, la libertà, la democrazia, l’eguale opportunità, il comportarsi secondo coscienza» mi dice in un ristorante di Columbia. La sua (e la mia) è la generazione delle lotte per i diritti civili, dei movimenti degli anni ’60, solo che lui il rifiuto di andare in Vietnam e il bruciare la cartolina di precetto li ha pagati con due anni di prigione che ha scontato nel carcere di Columbia: «allora era ancora quello costruito attorno al 1840 e in cui il generale Sherman aveva rinchiuso i prigionieri sudisti». Per finanziarsi, negli anni ’80, ha messo su un caffè, un giornale, «ma siamo pessimi capitalisti». Ora Brett è direttore esecutivo del S-C Progressive Network, una coalizione che connette 34 gruppi diversi come le tribù cherokee della S-C, l’Unione per le libertà civili, la lega delle donne votanti, il centro dei disabili, gruppi favorevoli all’aborto, contro gli abusi domestici, associazioni ambientali, pacifiste, di gay e lesbiche, di donne incinte. E quest’anno è stato condannato di nuovo perché aveva rifiutato di andarsene da un luogo pubblico in cui doveva parlare George Bush il giovane: «Quelli del servizio segreto mi hanno arrestato mentre quel presidente diceva che gli altri Paesi ci odiano perché noi siamo troppo liberi. Dà il voltastomaco». Poiché nessuno può essere incriminato perché sta in un luogo pubblico, lo hanno accusato di «minaccia al presidente».

«Qui vige ancora lo spirito di piantagione: questo è l’unico Stato fondato non da esuli religiosi, ma da piantatori inglesi delle Barbados» dice Brett. Lo «spirito di piantagione», cioè i rapporti sociali e di produzione schiavisti, ecco un’altra espressione ricorrente che mi viene ripetuta per descrivere la Carolina del Sud (il nome fu dato in onore del re inglese Carlo I, mentre Charleston, Charles Town, deve il suo a Carlo II). Il paternalismo, il razzismo. «Qui la razza è ancora un blind spot», la zona morta del radar, quella che c’è ma nessuno vede. «Ma basta guardare ai numeri, e vedrai che la situazione dei neri è pazzesca. Secondo i dati della polizia, ogni anno viene arrestato circa il 10% dell’intera popolazione nera della S-C». Questa percentuale è astronomica: vuol dire che in 30 anni, ogni e qualunque nero di questo Stato viene arrestato tre volte (l’arresto non è la condanna). Secondo Brett Bursey, sono più neri a essere finiti in prigione di quelli che sono andati a scuola; e i neri della S-C sono il gruppo di popolazione più detenuto al mondo (ma altri Stati del New South potrebbero contendere questo primato). «Ma va a parlare con Kamau, è un personaggio straordinario, ha passato 11 anni in prigione per un delitto che non aveva commesso, ora è consigliere provinciale e fa lavoro politico, lui ti dirà tutto»: Seguirò il suo consiglio e l’incontro con Kamau è il tema della prossima puntata di quest’inchiesta.

Insomma, c’è qualcosa di crudele nella vezzosa grazia di Charleston (il Guide bleu francese la definisce «la città più romantica degli Stati uniti»): a maggio si terrà qui la versione americana del Festival dei due mondi, si chiama «Spoleto America». Traspira una ferocia dalla levità delle settecentesche magioni dei suoi schiavisti: Charleston era il centro del commercio mondiale dei negrieri.

La nostalgia per la Confederazione, il mito della sua civiltà «aristocratica e cavalleresca» si rivela per i bianchi del sud per quello che è: rimpianto dei bei vecchi tempi quando i neri dicevano «Sì badrone». Come dice il reverendo Darby: «Secondo un mio amico bianco, Charleston è ancora l’unico posto in cui c’è un nero che ti serve il tè chiamandoti Sir o Ma’am» (in realtà negli alberghi adesso i camerieri sono tutti russi, sono più bianchi). A rigore capisci che questo rimpianto lo provino i discendenti dei piantatori: a 15 km da Charleston puoi ammirare la Magnolia Plantation, con un fantastico giardino in riva al fiume e con la foto color seppia del suo ottocentesco padrone, tal John Drayton, che all’ombra dei grandi alberi, circondato dai fiori subtropicali, medita sul cristiano sermone che dovrà tenere, mentre (fuori campo) nelle marcite delle risaie lavorano gli schiavi neri.

Ma è meno comprensibile la bruciante passione che i turisti del nord degli Usa provano per questo sud immaginario. Ti chiedi perché calano a frotte per vedere monumenti in fin dei conti non eccelsi. Poi cerchi di metterti al posto loro, e capisci il grassone che s’immagina Clark Gable Via col vento, mentre l’adiposa anzianotta in scarpe da ginnastica palpita col cuore di Rossella O’Hara.

(1-continua)

(*) Ecco il primo di tre reportages che Marco d’Eramo ha scritto dal South Carolina nel 2004 e che poi sono entrati nel volume “Via dal vento: Viaggio nel profondo sud degli Usa” pubblicato dalla manifestolibri. Era visibile in questi reportages tutto quel che si discute in questi giorni, dopo la strage…

NELLA PRIMA FOTO: Dylann Storm Roof, razzista – lui si definisce «suprematista» – è l’autore (ha confessato, anzi se n’è vantato, secondo le notizie che arrivano dagli Usa) della strage a Charleston, il 17 giugno: 9 afroamericani assassinati nella Emanuel African Methodist Episcopal Church. LE ALTRE DUE FOTO SONO DI MARCO D’ERAMO: la bandiera confederata davanti al Campidoglio della South Carolina e la bandiera confederata con  un  monumento ai soldati “sudisti” davanti al Campidoglio dell’Alabama

Redazione
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Un commento

  • Daniele Barbieri

    Oggi sul quotidiano «il manifesto» un articolo di Sandro Portelli indaga su «Le paure ataviche dei bianchi americani»: un testo pieno di informazioni illuiminanti per capire cosa c’è dietro la strage di Charleston, non certo “il gesto di un pazzo isolato” come qualche faccia tosta (ignorante o complice?) sostiene.

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