Dalla Palestina notizie quasi sempre cattive

a volte bastano due vignette per dire l’essenziale… ma poi è bene approfondire: 4 post e un video

 

Israele, cinquant’anni di occupazione. L’Onu pubblica cinquanta storie di palestinesi la cui vita è stata praticamente cancellata

L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) ha pubblicato un report con all’interno cinquanta storie emblematiche di palestinesi costretti a vivere gli effetti deleteri della cinquantennale occupazione da parte di Israele.
QUI per leggere il report

Nella sua relazione annuale sulla situazione del 2016, pubblicata mercoledì, l’OCHA ha stimato che circa 4.8 milioni di palestinesi sono stati coinvolti nell’occupazione israeliana, e due milioni di essi “necessitano di assistenza e protezione umanitaria”.

“L’occupazione prolungata, senza fine alla vista, coltiva un senso di disperazione e di frustrazione che guida un conflitto continuo” nella regione”, è scritto nel rapporto.

“L’occupazione nega ai palestinesi il controllo degli aspetti fondamentali della vita quotidiana: la loro capacità di muoversi senza ostacoli all’interno del loro paese, di uscire e di tornare, di sviluppare le vocazioni del loro territorio, costruire sulla propria terra, accedere alle risorse naturali o sviluppare la loro economia. Tutto ciò è largamente determinato dall’esercito israeliano”, continua il rapporto.

Il rapporto è arrivato giorni prima del 50 ° anniversario dell’occupazione del regime di Tel Aviv della Cisgiordania e di Gerusalemme Est al-Quds durante la guerra del 1967.

La settimana scorsa, migliaia di palestinesi-israeliani hanno organizzato una manifestazione di protesta a Tel Aviv per esprimere il loro sostegno per uno Stato palestinese indipendente e chiedere la fine dell’occupazione israeliana.
Altrove nella sua relazione, l’OCHA ha dichiarato che il numero di vittime nel conflitto israelo-palestinese è sceso nel 2016 rispetto al 2015.

Tuttavia, i civili palestinesi sono ancora “sottoposti a minacce alla loro vita, alla sicurezza fisica e alla libertà dalla violenza legata al conflitto, dalle politiche e dalle pratiche legate all’occupazione israeliana”, ha aggiunto.
La relazione ha anche sollevato l’allarme per “possibile uso eccessivo di forze e esecuzioni extragiudiziali dalle forze israeliane” nei confronti dei palestinesi.

Le terre occupate hanno visto tensioni da quando le forze israeliane hanno imposto restrizioni all’entrata di adoratori palestinesi nel complesso della moschea di al-Aqsa a Gerusalemme orientale al-Quds nell’agosto 2015. Oltre 300 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane a partire dall’ottobre 2015, quando Le tensioni si intensificarono.

L’OCHA ha inoltre registrato la demolizione o la confisca di 300 strutture donate da organizzazioni di aiuto al popolo palestinese, tre volte più dal 2015.

Migliaia di più i palestinesi sono vulnerabili alle politiche di trasferimento forzate “a causa di un ambiente coercitivo generato dalle politiche e dalle pratiche israeliane, che creano pressioni sui residenti per lasciare le loro comunità”, continua la relazione.

L’OCHA, infine, punta l’attenzione anche sul blocco israeliano della Striscia di Gaza, dicendo che l’assedio lungo, tra gli altri fattori, ha lasciato l’enclave costiera “particolarmente vulnerabile”.

da qui

 

Amnesty international si schiera per il boicottaggio economico di Israele: “Non si può più rimanere a guardare”

Amnesty International ha chiesto alla comunità internazionale di vietare l’importazione di tutte le produzioni provenienti dagli insediamenti illegali israeliani e di porre fine a profitti multimilionari che hanno alimentato violazioni dei diritti umani di massa ai danni dei palestinesi.

In occasione del 50esimo anniversario dell’occupazione israeliana della Cisgiordania, comprese Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza, l’organizzazione per i diritti umani ha lanciato una nuova campagna per chiedere agli stati di proibire l’ingresso nei loro mercati di beni prodotti negli insediamenti e di impedire alle loro aziende di operare negli insediamenti o commerciare beni provenienti dagli insediamenti. La campagna rappresenta la seconda iniziativa contro Israele in questi giorni dopo quella dell’Onu che in un dossier ha raccolto le storie di cinquanta palestinesi le cui vite sono state fortemente danneggiate dall’occupazione di Tel Aviv.

“Per decenni il mondo è rimasto a guardare, mentre Israele distruggeva le case dei palestinesi e depredava le loro terre e risorse naturali a scopo di profitto. Mentre 50 anni di politiche abusive impedivano lo sviluppo dell’economia palestinese, negli insediamenti prosperava una multimilionaria attività imprenditoriale basata sulla sistematica oppressione dei palestinesi”, ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International.

“Cinquant’anni dopo, limitarsi a condannare l’espansione degli insediamenti israeliani non basta più. Gli stati devono prendere misure concrete a livello internazionale per cessare di finanziare gli insediamenti che, loro stessi, violano clamorosamente il diritto internazionale e costituiscono crimini di guerra”, ha aggiunto Shetty.

Ogni anno vengono esportati beni del valore di centinaia di milioni di dollari, prodotti negli insediamenti israeliani edificati sulle terre palestinesi occupate, nonostante il fatto che la vasta maggioranza degli stati abbia ufficialmente condannato gli insediamenti in quanto illegali secondo il diritto internazionale. Nel corso degli anni, le imprese israeliane e internazionali hanno favorito la costruzione e l’espansione degli insediamenti.

La politica israeliana di insediare civili nelle terre palestinesi occupate ha prodotto una miriade di violazioni dei diritti umani: decine di migliaia di abitazioni e proprietà palestinesi sono state demolite, centinaia di migliaia di palestinesi sono stati sottoposti a sgomberi forzati; numerose famiglie sono state allontanate dalle loro case o dai loro terreni per far posto agli insediamenti; almeno 100.000 ettari di terre palestinesi sono stati requisiti a uso esclusivo degli insediamenti.

Israele ha inoltre illegalmente preso il controllo delle risorse naturali palestinesi come l’acqua, i terreni fertili, le cave e i minerali a beneficio delle imprese agricole, manifatturiere e dei materiali da costruzione che producono beni spesso destinati all’esportazione.

Allo stesso tempo, Israele ha imposto restrizioni arbitrarie ai palestinesi, impedendo di avere accesso e fare uso della loro acqua, della loro terra e delle loro risorse, limitando in questo modo il loro sviluppo economico e violando i loro diritti economici e sociali.

In Cisgiordania le infrastrutture degli insediamenti, come ad esempio le strade riservate ai coloni, hanno diviso città e villaggi palestinesi e hanno gravemente limitato la libertà di movimento dei palestinesi. Israele mantiene inoltre in vigore un illegale blocco aereo, navale e terrestre nei confronti della Striscia di Gaza da circa 10 anni, con la conseguenza che due milioni di persone restano intrappolate in un’area grande meno della metà di New York.

“Una delle tragedie di 50 anni di incessanti violazioni collegate all’occupazione è che il mondo si è abituato allo scioccante livello di oppressione e umiliazione che i palestinesi affrontano nella loro vita quotidiana nei territori occupati”, ha osservato Shetty.

“Ma come possono gli stati consentire ancora il sostegno finanziario a una politica sugli insediamenti che è inerentemente crudele, discriminatoria e criminale, una politica che permette ai coloni israeliani di vivere su terre rubate, in case con prati irrigati e piscine, mentre le comunità palestinesi accanto a loro sono private dell’accesso a quantità di acqua potabile e di elettricità sufficienti per le loro necessità primarie?”, ha chiesto Shetty.

Tutti gli stati hanno l’obbligo di assicurare il rispetto del diritto internazionale umanitario e di non riconoscere né favorire in alcun modo la situazione illegale che le politiche israeliane sugli insediamenti hanno creato. In altre parole, gli stati dovrebbero usare la loro influenza per fermare queste violazioni.

“Gli stati che continuano ad aiutare lo sviluppo economico degli insediamenti stanno clamorosamente venendo meno ai loro obblighi internazionali e alle politiche che si sono impegnati a rispettare. Sulla base del diritto internazionale, gli stati devono assicurare che le loro azioni, e quelle dei loro connazionali, non riconoscano né favoriscano situazioni o atti illegali”, ha precisato Shetty.

“Vietando l’importazione dei prodotti degli insediamenti israeliani e adottando leggi e regolamenti per impedire alle loro aziende di operare negli insediamenti, i governi di ogni parte del mondo hanno l’opportunità di cambiare concretamente le vite di milioni di palestinesi che hanno sin qui subito decenni di ingiustizia, discriminazione e negazione della dignità”, ha aggiunto Shetty.

Nel corso degli ultimi decenni, numerose risoluzioni delle Nazioni Unite hanno confermato che gli insediamenti israeliani violano il diritto internazionale. L’ultima, adottata dal Consiglio di sicurezza nel dicembre 2016, chiede a Israele di porre fine a tutte le attività legate agli insediamenti nei Territori palestinesi occupati e a tutti gli stati di distinguere, nelle loro attività commerciali, tra lo stato d’Israele e i territori occupati dal 1967.

Ciò nonostante, negli ultimi mesi Israele ha accelerato l’espansione e il sostegno degli insediamenti, annunciando piani per migliaia di nuove abitazioni in quelli già esistenti e altrettante migliaia in due nuovi insediamenti.

“Israele ha reso abbondantemente chiaro che mantenere ed espandere gli insediamenti è prioritario nei confronti del rispetto del diritto internazionale. Ora il mondo deve rispondere con altrettanta chiarezza che non tollererà ulteriormente il flagrante disprezzo di Israele per il diritto internazionale”, ha proseguito Shetty.

Dall’occupazione del 1967, Israele ha consolidato il suo repressivo controllo militare sui Territori palestinesi occupati attraverso migliaia di decreti molti dei quali criminalizzano attività pacifiche e prevedono limitazioni eccessive ai palestinesi, ostacolando la loro vita quotidiana.

Questi decreti militari sono stati usati per fornire copertura a diffuse violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, come l’ampia appropriazione di proprietà e risorse naturali, la demolizione di case ed esercizi commerciali, l’arresto arbitrario e la detenzione illegale di centinaia di migliaia di palestinesi e le punizioni collettive ai danni di milioni di loro. Nel corso degli anni, le forze israeliane hanno ucciso illegalmente numerosi palestinesi.

“Desta profondo turbamento il fatto che, nei 50 anni di occupazione, vi è stata una pressoché totale impunità per i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e le altre violazioni dei diritti umani che hanno avuto luogo nei Territori palestinesi occupati”, ha rilevato Shetty.

“Il mondo ha assistito al terribile prezzo di 50 anni di gravi violazioni ignorate e di incessante sviluppo degli insediamenti illegali. Ecco perché è fondamentale che gli stati adottino misure concrete per porre fine e fornire un rimedio a queste violazioni”, ha sottolineato Shetty.

“Gli stati dovrebbero partire dall’imposizione di un divieto d’importazione sui prodotti provenienti dagli insediamenti israeliani, stabilire un embargo totale di armi dirette a Israele e ai gruppi armati palestinesi e porre fine a decenni d’impunità, anche attraverso indagini della Corte penale internazionale. I palestinesi non devono essere condannati ad altri 50 anni di oppressione e ingiustizia”, ha concluso Shetty.

da qui

 

 

Quello che ho visto in 30 anni di reporting sulla occupazione israeliana – Gideon Levy

Due settimane fa, di sabato, poche decine di israeliani hanno partecipato all’apertura di una nuova mostra presso la Galleria Ben Ami nel sud di Tel Aviv. L’artista, il cui lavoro era in mostra per la prima volta, era seduta su una sedia. Lei non è in grado di stare in piedi, né può respirare senza aiuto. In realtà, non può muovere qualsiasi parte del suo corpo, tranne il suo volto. Dipinge con la bocca.

L’artista è una ragazza di 15 anni. Era molto eccitata al suo debutto – come lo era suo padre, che era stato a cullarla il giorno e notte per gli ultimi 11 anni. Per una coincidenza straziante, la mostra ha aperto proprio nell’11​​° anniversario della sua tragedia. Un giorno in cui quasi tutta la sua famiglia è stata annientata; solo lei, suo fratello minore e il loro padre sono sopravvissuti al missile intelligente sparato contro di loro con la forza aerea “morale” di Israele. E’ venuta fuori da questo gravemente disabile, costretta su una sedia a rotelle, collegata ad un ventilatore.

Maria Aman aveva quattro anni quando il missile ha colpito l’auto di famiglia, che era stata acquistata proprio quella mattina. Era in piedi sulle ginocchia di sua nonna nel sedile posteriore e danzava, la madre accanto a lei, appena prima che il proiettile colpisse il veicolo e distruggesse le sue possibilità di una vita normale. Il comandante della forza aerea si è dissociato dall’incidente, che ha avuto luogo nel 2006 nella Striscia di Gaza. Le Forze di Difesa israeliane non si sono mai sognate di chiedere scusa, l’identità del pilota non è mai stata rivelata e non ha mai preso la responsabilità, e gli israeliani erano indifferenti per un altro missile che ha spazzato via la maggior parte di una famiglia innocente in più.

Lo sparare il missile che ha ferito così gravemente Aman non è considerato un atto di terrorismo in Israele, e il pilota che ha sparato non è considerato un terrorista – dopo tutto, non intendeva farlo. Non hanno mai inteso farlo sul serio. Da 50 anni Israele non ha mai inteso farlo sul serio; l’occupazione è stata apparentemente costretta su di esso, contro la sua volontà. Cinquanta anni: tutti sono stati ben intenzionati, con buone, morali ed etiche intenzioni, e solo la situazione crudele – o dovremmo dire i palestinesi – hanno costretto tutta la cattiveria su di noi.

La mostra comprende un dipinto di Aman di tre alberi, che evoca i tre sopravvissuti della sua famiglia, insieme con una macchina bruciata. Anche un autoritratto in una sedia a rotelle e un dipinto di sua madre in cielo. La sua famiglia è stata uccisa “per errore”Aman era paralizzata “per errore”. Israele non ha mai inteso fare del male a una ragazza innocente. O ai più di 500 bambini che hanno ucciso nell’estate del 2014 durante l’Operazione Difesa del Bordo, nella Striscia. O alle 250 donne che ha ucciso quella stessa estate, alcune delle quali accanto ai loro figli, a volte insieme a tutta la famiglia. La strada per l’inferno è stata sempre lastricata delle buone intenzioni di Israele, almeno ai suoi propri occhi.

Il giorno dopo la tragedia, ho visitato la casa della famiglia Aman nel campo profughi di Tel al-Hawa di Gaza. Era una delle tante visite che ho fatto per le case delle famiglie devastate lì, durante gli anni in cui Israele ancora consentiva ai giornalisti israeliani di entrare nella Striscia. A quel tempo, Maria era in bilico tra la vita e la morte all’ospedale al Shifa a Gaza City; suo padre, Hamdi, non ha voluto parlare con noi. Zoppicava intorno al cortile coperto di sabbia – anche lui era stato ferito in un attacco missilistico – fissandoci furiosamente. Suo cugino ha parlato con noi.

In tutti gli anni in cui ho coperto l’occupazione, c’ è stato uno solo di una piccola manciata di casi che ricordo in cui la vittima non ha voluto parlare con noi. Trenta anni che ci hanno portato a centinaia di vittime, di solito non molto tempo dopo la loro tragedia, e ci hanno sempre aperto le loro case e i loro cuori, gli ospiti non invitati israeliani di cui non avevano mai sentito parlare. Non è difficile indovinare che cosa accadrebbe nel caso opposto – un giornalista palestinese in visita ad una vittima del terrorismo israeliano, il giorno dopo un attacco. Ma questa è solo una delle differenze.

  • Osando confrontare

Ho cominciato a scrivere dell’occupazione quasi per caso, dopo molti anni durante i quali, come tutti gli israeliani, mi era stato fatto il lavaggio del cervello, convinto della giustezza della nostra causa, certo che eravamo David e Golia, sapendo che gli arabi non amano i loro figli come li amiamo noi (se non del tutto) e che, a differenza di noi, sono nati per uccidere.

Dedi Zucker, allora un parlamentare di Ratz, ha suggerito di andare a vedere un paio di alberi di ulivo che erano stati sradicati nel boschetto di un anziano palestinese, che viveva in Cisgiordania. Siamo andati, abbiamo visto, abbiamo perso. Quello fu l’inizio, graduale e non pianificato, di esattamente tre decenni di copertura dei crimini dell’occupazione. La maggior parte degli israeliani non volevano sentirne parlare e ancora non vogliono sentirne parlare. Agli occhi di molti cittadini, l’atto stesso di coprire questo argomento nei media è una trasgressione.

Trattare i palestinesi come vittime e i crimini perpetrati contro di loro come reati è considerato tradimento. Anche la rappresentazione dei palestinesi come esseri umani è vista come una provocazione in Israele. Quale scalpore è stato generato nel 1998 dalla risposta di Ehud Barak alla semplice domanda di che cosa avrebbe fatto se fosse nato palestinese (è probabile che si sarebbe unito ad una delle organizzazioni di resistenza, ha detto).

Come si può anche confrontare? Ricordo i soldati che mi minacciavano con i fucili spianati a un posto di blocco nella città cisgiordana di Jenin, dopo che ho chiesto loro cosa farebbero se il loro padre stesse morendo e fosse evacuato in un’ambulanza palestinese, mentre i soldati stavano giocando a backgammon in una tenda vicina e trattenuto l’ambulanza per ore. Come oso paragonare? Come oso paragonare i loro padri con il palestinese in ambulanza.

Ma la mia prima visita nei territori occupati è una che vorrei dimenticare. Era l’estate del 1967, ed un ragazzo di 14 anni era andato con i suoi genitori a vedere le aree liberate della patria, poche settimane dopo la fine di una guerra prima della quale anche lui, come tutti, era certo che il paese era sulla sull’orlo della distruzione. Olocausto II. Questo è quello che ci è stato detto, questo è ciò che siamo stati addestrati a pensare. E poi, nel giro di pochi giorni, abbiamo visitato la Tomba dei Patriarchi a Hebron, il Muro del Pianto nella Città Vecchia di Gerusalemme e la Tomba di Rachele a Betlemme (per qualche motivo avevamo un modello di rame della tomba di Rachele in un armadio a casa).

Sono rimasto basito. Non vedevo le persone, al momento, solo fogli bianchi sui balconi, e luoghi che ci hanno detto erano sacri. Stavo partecipando alla vasta orgia religioso-nazionalista di Israele, che è cominciata allora e non è mai finita. Per la mia sbornia ci sono voluti 20 anni perché arrivasse.

La maggioranza degli israeliani non vuole sapere nulla circa l’occupazione. Pochi di loro hanno qualche idea di quello che è. Non sono mai stato lì. Noi non abbiamo idea di ciò che si intende quando si dice “l’occupazione.” Non abbiamo idea di come ci si comporterebbe se fossimo sotto il suo regime. Forse, se gli israeliani avessero avuto più informazioni alcuni di loro sarebbero stati sconvolti.

Solo una minoranza di israeliani sono felici circa l’esistenza dell’occupazione, ma la maggior parte non è turbata da essa, per lo più. Ci sono persone che assicurano che le cose resteranno come sono. Ci sono coloro che proteggono la quiete, la maggioranza indifferente e consente loro di sentirsi bene con se stessi – non turbati da dubbi o scrupoli morali, convinti che il loro esercito – e il paese – sono i più morali del mondo, credendo che il mondo intero è solo per distruggere Israele. Anche quando nel nostro cortile, così vicino a casa nostra, il buio si libra, sotto la cui copertura tutti quegli orrori sono perpetrati giorno e notte – siamo ancora così belli, ai nostri occhi.

Nemmeno un giorno o una notte passa senza crimini commessi a poca distanza dalle abitazioni israeliane. Non c’è un giorno senza di essi, non c’è alcuna cosa come una notte tranquilla. E non abbiamo ancora detto nulla circa l’occupazione in quanto tale, che è criminale, per definizione. Ha subito trasmutazioni nel corso degli anni, è stata meno onerosa e più onerosa, a volte, ma è sempre rimasta un’occupazione. E ha sempre lasciato gli israeliani impassibili.

Per coprire i suoi crimini, l’occupazione ha avuto bisogno di un supporto di propaganda condotta dai media che non tradissero la sua missione onesta, di un sistema educativo che è stato reclutato per i suoi scopi, di un apparato di sicurezza doppio, di politici privi di una coscienza e di una società civile che non ha un indizio. Un nuovo sistema di valori aggiustato dall’occupazione ha dovuto essere sviluppato, in cui il culto della sicurezza consente, giustifica e riabilita tutto, in cui il messianismo viene apprezzato anche dalla popolazione laica, un senso di funzioni di vittimizzazione come cover-up, e una sensazione di “Voi avete scelto noi” non fa male, neanche.

Era anche necessario trovare una lingua politichese, la lingua dell’occupante. Secondo questo politichese, ad esempio, l’arresto senza processo si chiama “detenzione amministrativa” e il governo militare è conosciuto come la “Amministrazione Civile”. Nel linguaggio dell’ occupante, ogni bambino con un paio di forbici è un “terrorista”, ogni individuo arrestato dalle forze di sicurezza è un “assassino”, e ogni persona disperata che cerca di provvedere alla sua famiglia ad ogni costo è “illegalmente” in Israele. Da qui la creazione di un linguaggio e di un modo di vita in cui ogni palestinese è un oggetto sospetto.

Senza tale assistenza, che l’establishment della sicurezza ci ha fornito tramite i mezzi di comunicazione flessibili, la realtà avrebbe potuto dimostrarsi inquietante. Purtroppo, Israele possiede una grande varietà di assistenza. I primi 50 anni hanno visto migliorare il lavaggio del cervello, la negazione, la repressione e l’autoinganno. Grazie ai mezzi di comunicazione, il sistema di istruzione, i politici, i generali e l’immenso esercito di propagandisti spalleggiati da apatia, ignoranza e chiusura degli occhi – Israele è una società in diniego, deliberatamente recisa dalla realtà, probabilmente un caso senza precedenti nel mondo di un rifiuto propositivo di vedere le cose come sono.

  • Interesse perduto

Il sipario è caduto. Negli ultimi 20 anni l’occupazione è scomparsa dall’agenda pubblica israeliana. Le campagne elettorali vanno e vengono senza alcuna discussione del problema più fatidico per il futuro di Israele. Il pubblico ha perso interesse. Il numero di insegnanti di sostegno nelle scuole materne è una questione urgente; l’occupazione non lo è. All’inizio, si trattava di un argomento al tavolo di quasi ogni pasto della vigilia del Sabato. Negli anni ’70 argomenti amari furono intrapresi su quello che avrebbe dovuto essere fatto con “i territori”.

Oggi un numero crescente di israeliani nega l’esistenza stessa di un’occupazione. “Non c’è nessuna occupazione” è l’ultima novità, la progenie della dichiarazione del primo ministro Golda Meir che “Non ci sono palestinesi”, è altrettanto ridicola. Quando si sostiene che non v’è nessuna occupazione, o che non ci sono i palestinesi, si perde effettivamente il contatto con la realtà in un modo che può essere spiegato solo con il ricorso alla terminologia dal regno della patologia e della salute mentale. E questo è dove siamo.

Una situazione di base in bianco e nero di occupante-occupato è presentata agli israeliani come una “realtà complessa”. Il dispotismo militare nel cortile di casa è presentato come parte integrante dell’unica democrazia in Medio Oriente, la conseguenza di una guerra inevitabile di sopravvivenza. E il rifiuto di Israele di porre fine all’occupazione si trasforma nelle mani della macchina della propaganda in una situazione di “nessun partner”. Si tratta di un caso storico raro: l’occupante è la vittima. La giustizia è dalla parte solo dell’occupante, e la guerra in corso si sta combattendo per la sua sicurezza ed esistenza. C’è mai stato niente di simile?

Sopra tutto questo aleggia la menzogna del temporaneo. Israele è riuscito ad ingannare se stesso e il mondo nel pensare che l’occupazione è un fenomeno transitorio: In un altro minuto, ogni cosa si dissolve. Dal suo primo giorno fino al suo primo Giubileo, l’occupazione ha indossato una maschera di transitorietà. Basta lasciare che i palestinesi si comportino bene e l’occupazione scomparirà. La sua fine è apparentemente in attesa dietro l’angolo. Per 50 anni, è stata lì ad aspettare. Non c’è più grande bugia. Israele non ha mai considerato la fine dell’occupazione, neanche per un minuto. La prova: non ha mai smesso di costruire insediamenti. Coloro che costruiscono una baracca attraverso la linea verde non intendono evacuarla. L’occupazione è qui per rimanere.

Che cosa è cambiato nel corso di questi 50 anni? Tutto – e niente. Israele è cambiato, e così i palestinesi. L’occupazione rimane la stessa occupazione, ma è diventata più brutale, come accade con ogni occupazione. Se nel 1996, gli israeliani fossero stati un po’ scioccati alla storia della prima donna palestinese che ha perso il suo neonato, quando i soldati in tre diversi posti di blocco hanno rifiutato di permetterle di arrivare a un ospedale, fino a quando il bambino è morto, a quanto pare per esposizione – i casi successivi difficilmente hanno spostato qualcuno.

“The Twilight Zone” ha riferito storie di altre donne in procinto di una nascita che hanno perso i loro bambini ai posti di blocco, e Israele ha sbadigliato per una mancanza di interesse. Circa 30 anni separano la prima colonna da quella più recente, e non c’è alcuna differenza tra di esse. “Continui a ripetere te stesso”, ci è stato detto, come se non fosse l’occupazione che si ripete. Essa subisce tempestosi periodi mortali, e altre volte che sono calmi. Ci sono mesi in cui scorre il sangue, e altri in cui abbiamo avuto boschetti di alberi che sono stati abbattuti, case che sono state demolite, gli abitanti deportati e le persone detenute senza processo.

Nel frattempo, la terra è piena di insediamenti, con centinaia di migliaia di coloni che vi si sono recati moltiplicando più a lungo il “processo di pace” continuato. Questo è l’unico risultato del “processo”. Ogni parvenza di progresso è sempre stata accompagnata da sempre più coloni, nella migliore tradizione di estorsione e di resa. Gli Accordi di Oslo hanno raddoppiato e triplicato il numero dei coloni. Ehud Barak, l’uomo che quasi quasi ha fatto la pace, era il più grande dei costruttori nei territori. In Israele, ancora oggi, si può essere a favore di due stati e ancora costruire nei territori.

Israele ha ucciso più di 10.000 palestinesi in questi 50 anni, e imprigionato circa 800.000. Questi numeri incomprensibili sono accettati anche come una questione di routine, per sé evidente, inevitabile, e, naturalmente, del tutto unica. La colpa è del tutto di quelli uccisi e imprigionati. Israele crede con tutte le sue forze nell’ IDF, nel servizio di sicurezza Shin Bet e nel sistema di giustizia militare, i quali hanno sempre trovato una scusa per tutto e non hanno mai ammesso nulla, nemmeno dopo che tutte le loro contorte bugie sono state esposte. Anche mettere un dubbio su di esse è insostenibile. Nella maggior parte delle lingue si chiama cecità.

  • Linea Verde cancellata

Al centro della rotatoria all’incrocio del blocco di Etzion, uno dei luoghi più frequentati in Cisgiordania, imballato di veicoli israeliani e palestinesi, sventola la bandiera israeliana. Ci sono di gran lunga più di queste bandiere nazionali visibili in Cisgiordania che in Israele. E molte di più di quelle bandiere volano in Cisgiordania, piuttosto che la bandiera del popolo che costituiscono la maggioranza assoluta di quella zona occupata. Ci sono pochissime indicazioni per le città e i villaggi palestinesi, solo per gli insediamenti; quelli che sono segnalati pubblicamente sono presto cancellati con vernice nera. Eppure, così dominante è l’insicurezza che i coloni credono che cancellando i nomi delle comunità palestinesi, le faranno sparire.

Ciò che è stato cancellato è la Linea Verde. L’unica separazione che esiste in Israele è etnica, non geografica. Israele è uno stato, che si estende dal mare al fiume Giordano, senza confini e con due regimi diversi per due popoli. E’ stato così per gli ultimi 50 anni, e non c’è alcun piano per cambiarlo. I coloni sono Israele e così, anche, lo è l’occupazione: i due non sono più separabili. La filiale della banca nella fantasiosa piazza Kikar Hamedina di Tel Aviv ha una gemella nella zona urbana della colonia cisgiordana di Ma’aleh Adumim. La clinica nel lussuoso quartiere di Rehavia di Gerusalemme ha un’immagine speculare nella colonia di Karnei Shomron. Tutti gli israeliani sono partner in questo. L’idea che là ci sia Israele e ci sono territori occupati – come entità separate – è un altro degli inganni sostenuti su un vento di colore giallo. Esso permette alle persone di amare Israele e odiare l’occupazione. Ma la separazione è tanto falsa quanto è artificiale.

I padri fondatori erano del movimento laburista – nessuno porta più di loro la colpa dell’ occupazione. Moshe Dayan ha più  colpa per l’occupazione di Avigdor Lieberman, Yigal Allon è più responsabile degli insediamenti di Gilad Erdan. Golda Meir, Israel Galili, Shimon Peres e Yitzhak Rabin hanno stabilito più insediamenti di Benjamin Netanyahu, Naftali Bennett e Ayelet Shaked assieme. Il movimento Gush ha acceso la fiamma e i laburisti hanno devotamente fornito il carburante, insieme con l’ inganno e un ombrello protettivo. Il pretesto offerto da Shimon Peres per la costruzione dell’insediamento di Ofra è stato la necessità di un’antenna presso il sito, e tutti hanno fatto finta di credere alla menzogna.

Mai un solo primo ministro israeliano ha visto i palestinesi come esseri umani o come una nazione con uguali diritti, e non c’è mai stato uno che seriamente ha voluto porre fine all’occupazione. Non uno. Il parlare di due stati ha permesso di guadagnare tempo, il processo di pace ha provvisto il mondo con una copertura per rimanere in silenzio e sottoscrivere l’occupazione. Tutti i piani di pace che ora sono a prendere polvere nei cassetti portano una somiglianza straordinaria tra di loro, e tutti hanno condiviso un destino simile: il rifiuto da parte di Israele. Anche in questo, Israele ha così intenzionalmente mantenuto il mentire a se stesso, dicendo che vuole la pace. L’elenco delle bugie dell’ occupazione continua ad allungarsi.

  • Morti che camminano

I genitori in lutto sono invecchiati, i giovani che hanno partecipato alla prima intifada sono la popolazione di mezza età del 2017 e quelli della seconda intifada sono morti che camminano. Alcuni degli eroi presenti in questa colonna sono stati dimenticati, altri no. Immagini affollano la memoria ora, durante il festival del giubileo.

Ecco una fila di giovani amputati sulle loro sedie a rotelle, con una sigaretta vicino alla finestra nel corridoio dell’ospedale Shifa di Gaza City, vittime dello spaventoso bombardamento dei campi di fragole a Beit Lahia, che spazzò via una famiglia. E i bambini sopravvissuti all’attentato in cui il leader di Hamas Salah Shehadeh era stato assassinato – l’IDF inizialmente ha sostenuto che era stato liquidato in una “tettoia disabitata”. Ecco la giovane donna di Gaza nella prima e ultima visita della sua vita pochi anni fa al Ramat Gan Safari, Hayarkon Park di Tel Aviv e alla spiaggia di quella città, alla vigilia della sua morte – è morta di cancro dopo il suo arrivo fatalmente in ritardo per le cure mediche in Israele. E il ragazzo di Betlemme che è stato condannato a sei mesi di carcere – un mese per ogni pietra che ha gettato, anche se non ha colpito nessuno e non ha causato danni.

C’era la visita al detenuto amministrativo in una prigione militare che ha contrabbandato fuori le sue lettere in un fitto inglese shakespeariano. Lo sposo che è stato ucciso il giorno delle nozze; il padre dal campo profughi di Qalandiyah che ha perso due figli nel periodo di 40 giorni, mentre un altro figlio è stato ucciso qualche anno dopo, quando il comandante della Brigata IDF Binyamin gli ha sparato alla schiena mentre fuggiva; la paralitica madre single la cui unica figlia è stata uccisa da un missile che ha colpito la loro casa a Gaza, mentre la teneva tra le braccia. E i bambini della scuola materna Indira Gandhi che hanno visto il loro insegnante ucciso davanti ai loro occhi, con i quali abbiamo parlato dopo il nostro ultimo viaggio a Gaza, più di 10 anni fa; il capo del dipartimento di architettura all’università di Bir Zeit, che è stato torturato dallo Shin Bet; il medico di Tulkarem che fu assassinato.

C’era il padre che mancava di una mano e di entrambe le gambe, nella stanza 602 all’al Shifa, a Gaza City, nel giugno 1994, che stava cercando di alimentare suo figlio morente; Lulu, la ragazza dal campo Shabura fuori Rafah nella Striscia di Gaza, che è morta a 10 anni dopo che i soldati le hanno sparato alla testa; i tre uomini del campo profughi di Deheisheh vicino a Betlemme che hanno perso i loro occhi; il ragazzo amputato dal campo profughi di al-Fawwar a sud di Hebron che è stato arrestato e picchiato; i ragazzi dei coltelli e le ragazze delle forbici che sono stati inutilmente colpiti a morte ai posti di blocco negli ultimi mesi; e il dimostrante di sassaiola descritto in queste pagine la scorsa settimana, che ha sofferto una notte di abusi per mano dei soldati, in cui è stato picchiato, umiliato e aveva avuto chiazze di capelli tagliate. Quello che è successo a Bara Kana’an, il giovane falegname di Beit Rima, vicino a Ramallah, è successo due, tre e quattro decenni fa, per molti palestinesi.

L’IDF, la polizia di frontiera e l’Amministrazione Civile hanno sempre giustificato, sostenuto, hanno trovato scuse, imbiancato e spesso pianificato menzogne nel fornire le loro risposte automatiche. Né hanno mai chiesto scusa, ammesso i propri errori. Raramente hanno espresso rammarico, e certamente mai offerto un risarcimento. Per quanto loro – e la maggior parte degli israeliani – sono interessati, tutto è stato condotto in modo corretto.

  • Opera d’arte

In apertura della mostra di Maria Aman due settimane fa, si poteva vedere di persona quanto correttamente tutto ciò è stato condotto negli ultimi 50 anni. Ecco Aman, paralizzata e su un ventilatore – che ha perso la madre, la nonna, il fratellino e sua zia durante una guida innocente su una strada trafficata di Gaza City, nel bel mezzo della stagione degli omicidi. In un raro esempio, Israele è dipartito dal costume e, dopo una lotta ostinata della famiglia di Aman e degli altri, ha accettato di permetterle di sottoporsi alla riabilitazione in Israele. Ciò che lei mostra sono la vita e la morte come un dipinto. Aman ha una mostra a Tel Aviv. Migliaia di altre vittime, che hanno subito un destino simile a quello di lei, non hanno mai avuto questa possibilità. Maria è diventata un simbolo; i suoi compagni di handicap restano anonimi, il loro destino sconosciuto in Israele.

Le poche decine di israeliani che hanno partecipato all’apertura, alcuni dei quali hanno accompagnato questa ragazza e suo padre  per anni, sono tra i pochi in Israele che sanno che non tutto è stato condotto correttamente tra il 1967 e il 2017. I primi 50 anni di occupazione sono stati una lunga atrocità.

da qui

 

 

“Muori, soffri, puttana” – Gideon Levy

Non è stato meno deprecabile del colpo di grazia di Elor Azaria contro un terrorista impossibilitato a offendere [Azaria è un soldato israeliano che ha ucciso un giovane palestinese a terra già ferito, ndt]. Guardando il video che documenta il fatto ti si rivolta lo stomaco. È disgustoso e fa arrabbiare, ma nessun media in Israele, riflettendo la profonda apatia nella quale siamo sprofondati, vi ha dedicato la minima attenzione.

Quel giorno un gruppo di soldati stava intorno a una ragazza palestinese morente che si contorceva per il dolore, riversa sanguinante sulla strada. I soldati facevano a gara tra di loro per vedere chi l’avrebbe insultata con il linguaggio più spregevole. Questi sono i tuoi soldati, Israele, questo è il loro linguaggio, questi sono i loro valori e principi. A nessuno è venuto nemmeno in mente di prestarle soccorso, nessuno ha pensato di mettere a tacere l’esplosione di odiose oscenità che svolazzavano intorno alla ragazza che stava dissanguandosi fino alla morte. Questo è stato un regalo adeguato alle celebrazioni dell’anniversario [della Guerra del ’67, ndtr] dai paracadutisti di bell’aspetto al Muro del Pianto fino a quest’atto bestiale al checkpoint di Mevo Dotan. Cinquant’anni di occupazione ci hanno portato a questo.

Il video mostra una ragazza palestinese che avanza lentamente verso il checkpoint. Forse qualcuno le ha detto di fermarsi, ma questo nella registrazione non si sente. Non si vede nessun coltello o nemmeno un tentativo di accoltellamento. In seguito si vede la ragazza correre via con due israeliani, forse soldati, che la inseguono alle calcagna. Questo è solo l’inizio. È diventato un’abitudine “neutralizzare” (“aka” in ebraico vuol dire uccidere) giovani maschi e femmine che cercano di ferire i soldati, di solito in un tentativo di procurarsi la morte. Nella maggior parte dei casi queste sono semplicemente esecuzioni. È quasi sempre possibile arrestare gli assalitori senza ucciderli. Ma l’esercito è eroico quando fronteggia giovani donne e ora i suoi soldati sanno solo come uccidere. L’hanno colpita a morte come ci si aspettava da loro.

E allora succede questo: la ragazza giace sulla strada, i soldati armati la circondano come in un rito pagano, vomitando un torrente di insulti. Il video mostra solamente i loro corpi, non i loro visi. Insieme a loro c’è un uomo armato in calzoncini corti, che calza dei sandali, probabilmente un colono. La ragazza si lamenta, si gira , si ripiega su se stessa e geme mentre i soldati dicono: “Spero che tu muoia, figlia di puttana, fanculo, muori, soffri, kahba (kahba in arabo marocchino vuol dire puttana)”. Non si sarebbero comportati così intorno a un cane morente. Durante questi abusi si può sentire qualcuno che chiede “Dov’è il coltello”? , “Non la toccate”, “Sei stupenda”, e, al telefono, “ Dove sei, a casa?”

Poche ore dopo è morta per le ferite riportate. Nour Iqab Enfeat del villaggio di Yabad, vicino a Jenin, in Cisgiordania, aveva 16 anni. Un soldato ha avuto delle lievi ferite. Soltanto dei soldati vigliacchi ammazzano in questo modo una studentessa.

Tuttavia, in questo caso l’esecuzione di routine è stata accompagnata da una cerimonia di “requiem”. Bisogna averla vista per crederci. Non c’era nemmeno un soldato con un briciolo di compassione o di umanità. Bisogna prendere atto dell’enorme odio che provano i soldati dell’esercito di occupazione verso la nazione che tiranneggiano. Bisogna vedere fino a che punto hanno perso la loro umanità. Come si può rallegrarsi di una studentessa agonizzante? Maledire qualcuno che soffre in quell modo non è meno malvagio di spararle.

Questa è la lezione che i soldati delle Forze di Difesa Israeliane hanno imparato dal processo Azaria [il tribunale in primo grado gli ha comminato la pena di 18 mesi, mentre per la destra è un eroe, ndtr]. Invece di sparare lascia che la “terrorista” muoia dissanguata mentre la si insulta. Si sono comportati così non per un desiderio di vendetta a causa del suo tentativo di accoltellare un soldato. L’hanno fatto innanzitutto perché era palestinese. Ovviamente non si sarebbero mai comportati in questo modo se una ragazza colona avesse tentato di ferirli.

Non è stato il gesto di un individuo. Erano in tanti. Non è stato nemmeno un fatto eccezionale. Questi sono i tuoi soldati, Israele. Qualcuno dovrebbe riferire questo al capo di Stato Maggiore Gadi Eizenkot, che, chissà perché, è percepito come uno a cui preme la moralità dell’IDF. Hai cinque figli, Eizenkot. Cosa penseresti se qualcuno si comportasse in questo modo nei confronti di uno di loro? Cosa penserebbe qualsiasi padre o madre in Israele? Il coltello nelle mani di una studentessa disperata giustifica comportamento di qualunque genere? A questo punto non è chiaro che mandare il proprio figlio a prestare servizio nei territori li trasforma in questo?

Se i soldati di quel checkpoint non saranno processati e puniti, risulterà chiara una cosa: il vero codice morale che prevale nell’IDF è la barbarie.

(traduzione di Carlo Tagliacozzo-Zeitun.info)

da qui

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *