Dalla società del benessere alla società del disagio

   Riflessioni su «La miseria del mondo», un’inchiesta sul campo diretta da Pierre Bourdieu e finalmente tradotta in italiano

di Patrizio Paolinelli (*)

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Perché pubblicare oggi in Italia una corposissima inchiesta sul campo che ha per oggetto il disagio sociale nella Francia degli anni ’90 e per di più condotta con metodi criticati dall’accademia? La risposta è semplice: perché continua a parlare di noi, noi europei sempre più impoveriti, spaventati e disorientati man mano che avanzano il neoliberismo, la globalizzazione e l’americanizzazione del pianeta. L’inchiesta a cui ci riferiamo si intitola «La miseria del mondo» (a cura di Antonello Petrillo e Ciro Tarantino, Mimesis, Milano, 2015, 854 pagine per 38 euro). La ricerca è il frutto di tre anni di lavoro d’équipe ed è stata ideata da Pierre Bourdieu, che ha diretto ventuno collaboratori (venti nell’edizione italiana a cui sono stati apportati diversi tagli). Abbiamo dunque a che fare con un testo corale che riporta e analizza le testimonianze di uomini e donne sulla loro vita e le difficoltà ch’essa comporta.

Contrariamente a quel che potrebbe lasciar presagire il titolo del libro l’oggetto di studio di Bourdieu non è la povertà estrema di chi non dispone di risorse per sfamarsi, vestirsi e alloggiare. Ma è la “miseria di posizione”. Categoria che raggruppa una vasta e differenziata platea di attori sociali uniti dal fatto di condurre una vita quotidiana satura di difficoltà e angosce, ma i cui bisogni minimi di esistenza – come il cibo e un tetto sulla testa – sono bene o male garantiti. Si tratta di una moltitudine di persone che appartengono ai ceti popolari e che vivono chiuse nel loro microcosmo: operai, disoccupati, casalinghe, pensionati, stranieri, studenti senza un futuro professionale, lavoratori a basso reddito, precari, stagisti, piccoli artigiani e piccoli commercianti che lottano ogni giorno contro la crisi dei consumi, la grande distribuzione, le tasse da pagare, le politiche dell’Unione Europea. Una popolazione concentrata prevalentemente in quartieri periferici, degradati, o, peggio ancora, a rischio e che si scontra ogni giorno con problemi irrisolvibili. Ad esempio la convivenza con gli immigrati, o con i figli di immigrati nati in Francia ma le cui possibilità di ascesa sociale sono ridottissime finendo così per alimentare le aree del disagio e della marginalità.

In estrema sintesi la povertà fotografata dal concetto di “miseria di posizione” si riferisce al depauperamento delle relazioni sociali, all’impossibilità di uscire dalla propria condizione economica e, conseguentemente, alla mancanza di opportunità per costruire una posizione sociale migliore. Per milioni di europei (la maggioranza?) il piccolo mondo in cui vivono si presenta come una gabbia da cui non c’è verso di evadere. Le conseguenze più immediate sono una vita quotidiana infernale, un alto tasso di microconflittualità, la progressiva lacerazione dei legami di solidarietà.

Legami che nella società del benessere si strutturavano intorno alla famiglia, la scuola, la fabbrica, il partito, il sindacato, la parrocchia, le associazioni di massa. Alcune di queste istituzioni erano sostenute dal Welfare state, mentre altre lottavano per l’allargamento dello stesso Welfare state. Pratiche in via di estinzione nell’attuale società del disagio. E a osservarla oggi, a così tanti anni di distanza dalla sua formulazione, la categoria “miseria di posizione” sembra costituire un tassello della riproduzione nel Vecchio continente del modello sociale statunitense. Una sovrapposizione dagli effetti epocali che pone il problema dell’identità dei popoli europei. In questo l’inchiesta diretta da Bourdieu è stata per così dire profetica perché ha messo in luce sin dai suoi esordi la corrosione dell’identità e della dignità delle persone spinte nel girone dei perdenti. Lo ha fatto dando voce ai soggetti che conducono una vita di privazioni e attraverso le parole di educatori, presidi, giudici di sorveglianza, magistrati, ispettori di polizia, sindacalisti, femministe.

Nonostante la mole «La miseria del mondo» ha avuto oltralpe un grande successo di vendite e ne sono state ricavate persino numerose pièces teatrali. D’altra parte l’inchiesta offre una straordinaria quantità di materiale. Raccoglie infatti numerose interviste che forniscono al lettore un ritratto coinvolgente e approfondito sull’esistenza di un’umanità sofferente e in perenne conflitto: con i vicini di casa, la burocrazia statale, la scuola che non funziona, il quartiere sempre meno socievole, i colleghi di lavoro senza il senso della solidarietà. «La miseria del mondo» regge l’urto del tempo in virtù delle storie degli intervistati andando a costituire una vera e propria miniera di informazioni sui loro bisogni materiali, le loro continue rinunce, la loro estenuante lotta per la sopravvivenza. Al di là delle specifiche differenze tra le singole vicende la paura sembra essere uno dei tratti principali che accomuna i racconti degli intervistati: paura di non farcela a pagare i debiti, paura dello straniero e soprattutto paura del domani. Le stesse paure che attanagliano ancora oggi la vita di tanti cittadini che vivono nelle cosiddette società avanzate.

Se la ricerca diretta di Bourdieu è diventata un punto di riferimento della sociologia critica, grazie alla ricchezza dei documenti raccolti e alla qualità delle riflessioni che contiene, la politica e i mass-media hanno invece una comprensione assai modesta della “miseria di posizione”. Entrambe le istituzioni affrontano in maniera approssimativa un fenomeno devastante che ormai data da lunghissimo tempo, a partire dalla desertificazione industriale iniziata nella seconda metà degli anni’80 e dall’imposizione dei diktat neoliberisti. La politica fornisce risposte parziali ai giovani delle banlieue mostrando così di essere chiusa in se stessa e incapace di risolvere i problemi sociali posti dalle loro proteste, silenziose o gridate che siano. Problemi che sono essenzialmente di integrazione, reddito e vivibilità dei quartieri periferici. I mass-media addirittura contribuiscono a produrre queste stesse proteste come mostra Patrick Champagne in un capitolo del volume dedicato al modo in cui l’informazione tratta il disagio sociale: «Si potrebbe dire quasi che l’enumerazione dei “disagi” che con il trascorrere delle settimane si manifestano nella stampa, offre soprattutto l’elenco dei “disagi dei giornalisti”, ossia di quei disagi la cui rappresentazione pubblica è stata esplicitamente fabbricata per interessare i giornalisti, o di quelli che attirano di per sé l’attenzione dei giornalisti, essendo “fuori del comune” o drammatici o commoventi, e di conseguenza commercialmente redditizi, quindi conformi alla definizione sociale dell’evento degna di occupare “le prime pagine”. E’ il caso ad esempio delle prime manifestazioni dei liceali che nell’ottobre del ’90 protestavano contro la mancanza di professori e la violenza nelle scuole. Gli scioperi degli studenti si moltiplicarono “in gran parte per l’effetto della loro mediatizzazione televisiva”. Una conclusione è che “I dominati sono i meno preparati a controllare la rappresentazione di se stessi”. A costoro non rimane allora che l’auto-ammonimento consolatorio: “C’è di peggio, sai”».

E a proposito di rappresentazione, nel suo “Post-scriptum” al volume Bourdieu esprime un giudizio severissimo sui giornalisti per la loro sottomissione al potere e per la loro superficialità nel trattare i problemi sociali. Passa così a interrogarsi sulle conseguenze pratiche della conoscenza sociologica. Scrive il sociologo francese: «Rendere coscienti i meccanismi che rendono la vita dolorosa, persino invivibile, non significa neutralizzarli; portare alla luce contraddizioni non significa risolverle. Ma, per quanto scettici si possa essere sull’efficacia sociale del messaggio sociologico, non si può considerare inconsistente l’effetto che può esercitare, permettendo a chi soffre di scoprire la possibilità d’imputare la propria sofferenza a cause sociali, e sentirsi così discolpato, e facendo conoscere in modo più ampio l’origine sociale, collettivamente occultata, della disgrazie, in tutte le sue forme, comprese le più intime e segrete». Occorre dunque che il mondo sociale si armi di questo sapere. Occorre che la politica sfrutti «le pur ridotte possibilità di azione che la scienza può aiutare a scoprire» pena l’essere «considerata colpevole di omissione di soccorso nei confronti di una persona in pericolo». A ventidue anni di distanza dalla pubblicazione dell’imponente inchiesta sulla “miseria di posizione” non sembra che le cose siano molto migliorate in Francia. Di sicuro in Italia sono peggiorate. Quest’estate è emerso in tutta la sua drammaticità il fenomeno del caporalato: tre braccianti agricoli morti nei campi per il caldo e la fatica. Si tratta di un fenomeno molto esteso, che nel nostro Paese coinvolge circa 400mila persone disposte a lavorare in condizioni para-schiavistiche per paghe che si aggirano sui 3 euro l’ora. Da noi è andata perduta la consapevolezza che le sofferenze personali hanno radici sociali, mentre la politica tratta il disagio in termini elettorali e la stessa sociologia è diventata perlopiù una disciplina al servizio del potere (accademico, politico, economico, mediatico). Questo non significa che non ci siano chances per una sociologia e una politica impegnate a ricostruire legami sociali a sostegno dell’identità e della dignità delle persone. In tale direzione «La miseria del mondo» costituisce uno strumento utile per uscire dalla trappola della “miseria di posizione”. Una trappola che fa tornare alla mente un brano scritto da Elio Vittorini in «Conversazioni in Sicilia»: «Tutti soffrono ognuno per se stesso, ma non soffrono per il mondo che è offeso e così il mondo continua a essere offeso».

(*) pubblicato il 12 settembre in «via Po», inserto culturale del quotidiano «Conquiste del Lavoro»

 

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