Danila Bellapé – Placebo d’amore

Ho sonno ma la fatica nelle ossa mi impedisce di dormire.
Sono le ore piccole del ventuno di marzo.
E’ primavera già da qualche ora e anche se questa notte tenta ancora di nevicare, so che l’inverno ha i giorni contati. Più del previsto, ma contati.

In mattinata mi hanno portato  una viola raccolta in giardino. Era striminzita e non sapeva di niente, come tutto in questa bella stagione per modo di dire dove perfino il sole ha dato buca al suo stesso equinozio.
Appassiva solo a guardarla, e non c’è stata acqua santa abbastanza da farle rialzare il capo, una volta strappata alla terra.
Ripenso  a quand’ero bambino.
Le viole allora avevano un colore sfacciato e odoravano forte, quasi di stalla dicevo io, non avevano un pallore da nascita per abitudine. Mazzolini legati stretti con il filo verde da ricamo spiccavano nei vasetti, sopra i centrini inamidati dei comò e fra le cornici d’argento; abbellivano e profumavano le stanze per settimane intere.
Profumo di violetta dicevano, come fosse stato delicato, mentre io continuavo ad arricciare il naso. Non mi stupivo però dell’impassibile sorriso sulla foto dei nonni, benedicendo io per loro la scoperta e le tecniche del vetro.
Ma da un po’ di tempo a questa parte è come se la Terra s’ingravidasse solamente per consuetudine e per noia, sempre nelle stesse date.
Sembra che non le importi  di attendere le migliori condizioni, adattandosi ai suoi stessi mutamenti, quasi sfidasse di proposito la sorte e così esponesse al rischio di enormi difficoltà i propri figli, che destinati ad una luce di tepore potrebbero invece nascere  in tempi di freddo e miseria.
Corpi deboli, come il mio.

Però per me era tutto normale.
Mia madre mi sorrideva, mi accudiva, mi lavava e mi nutriva a cucchiaini come faceva con gli altri due fratelli più piccoli di me. Non c’era differenza.
Non ce ne fu nemmeno quando compresi che una differenza c’era eccome, quando loro cominciarono ad arrangiarsi con le posate e io no, dal momento che i sorrisi si moltiplicarono.
Sentivo discorsi soffocati che mi davano una spiegazione di frodo  sul perché, mia madre sussurrare che ero nato prematuro, mio padre piegato in due   prometteva al crocefisso di faticare anche per me fino alla fine dei suoi giorni purché finissero prima dei miei, e il dottore  ribadire che purtroppo avrei sempre avuto un fisico da niente.
Ma le cose intorno a me giravano lo stesso, o me le portavano o mi portavano da loro, e io imparavo tutto. 
Anche a non fare promesse, decisi con il tempo: a mio padre si crepò il cuore nel giorno della mia prima laurea.
Mormorai un grazie al suo cadavere, a denti stretti e lacrime arrabbiate, per quella scommessa che si era giocato come ai dadi.
Non so se fu il destino, storto solo a metà, o tutti i baci che ricevetti in fronte, ma almeno la mia testa sembrava funzionare alla grande.

Sento un brivido rizzarmi i capelli, ma non è di freddo.
Le finestre sono ben chiuse e io, del mio giaciglio, non ho spostato nemmeno un lembo di coperta.
Sono i ricordi che mi rincorrono, così veloci da sorpassarmi e farmi credere ancora una volta di essere sempre vissuto senza un futuro da raggiungere. Inutilmente.
E’ paura, che mi invade le viscere e si scarica in una cascata di vergognosa impotenza fra le mie gambe.
Suono il campanello e Flora compare immediatamente, stroppicciandosi appena un po’ gli occhi.
“Scusa” le dico “è stato un incidente”.
“Non fa niente” mi risponde, ”forse è colpa mia. Le prugne sarà meglio che le mangi io…ne ho bisogno e posso anche correre!” esclama poi, sorridendo come se fosse pieno giorno.
Flora è davvero speciale, sembra nata senza il vizio della differenza.
O meglio, delle differenze ne fa un uso tutto suo, compensando ogni suo difetto con una mia virtù, e viceversa.

Ma era stato quando morì mia madre la prima volta in cui toccai il senso della parola disperazione.
Poco m’importava di essere riuscito in tante cose nella vita, ben oltre la sfida primaria di sopravvivere alla fragilità del mio corpo: non c’era nulla di razionalizzabile nel separarsi dall’amore.
Non c’erano conti matematici a dimostrarmelo, né letteratura che potesse   lenire.
Se solo ne fossi stato capace mi sarei strappato il cuore dal petto, se solo avessi potuto avrei strappato ognuno di questi maledetti fili e tubi.
Se ne fossi stato in grado sarei morto anch’io. Finalmente.
Chi meglio di me, in fondo, sapeva che ero nato giusto giusto per morire?
Eppure neanche volendolo morivo.
Sembrava tutto normale, come lo era sempre stato: intorno a me, ancora, si  sarebbe mossa la macchina di persone e cose che era stata messa in moto per farmi vivere la vita.
Le infermiere avrebbero accudito il mio corpo mentre il mio cervello lavorava, produceva, creava, insegnava.

Flora è Flora. E non è poco.
Il giorno in cui capitò qui, come un ingranaggio di ricambio, ultimo tentativo di ripristinare la macchina dei soccorsi che io sabotavo continuamente, era  prima dell’ora ora di pranzo.
Si intrattenne per un po’ in cucina con chi l’aveva preceduta, poi si presentò nella mia stanza con una mela. Io me ne stavo girato dall’altra parte incurante, se non sprezzante, della sua presenza.
Si era seduta accanto al letto, aveva preso silenziosamente a morsi la mela, l’aveva masticata e sputata delicatamente su un piattino.
“Vuoi questa o preferisci l’omogeneizzato industriale?” mi chiese sbattendo ritmicamente il cucchiaino sul bordo del piatto.
Era come se non fosse per niente affar suo tutto il tempo che sarebbe trascorso da lì alla mia decisione, alla mia fame, al mio sostentamento, e perfino alla mia morte, e lo ingannava al suono di una qualche musichetta allegra che aveva per la testa.
La odiai, e la rabbia per quella che io stavo considerando una mancanza di rispetto al mio dolore, fu così tanta ed inaspettata che le risposi una cosa che mai mi sarei sognato di rispondere, o anche solo di pensare.
“Quella!”, grugnii.
Fui così sorpreso dal mio stesso tono che mi misi immediatamente in allerta, aspettandomi che a sua volta lei mi si rivolgesse ancora, cocciuta o adirata, o mi ficcasse tutto il cucchiaio in gola. Speravo solo che se ne andasse, magari sbattendosi dietro la porta assordandomi con un fragore definitivo di legni e vetri.
Invece no.
Posò il piattino e disse “Bene, bene. Abbiamo la favella. Di là c’è pollo arrosto con le patatine, vado a prendertelo e te lo taglio fino fino”.
Insisteva a darmi del tu, notai, ma non mi domandavo se mi infastidisse o cosa; intanto lo notavo come un evento inusuale.
Stavo reagendo, e ragionando. Di fatto era questo da annotare.

Mia madre era l’amore.
Non mi perdonava le sciocchezze, mi dava spesso torto, istigandomi alla ragione.
Se così non fosse stato io non le sarei sopravvissuto e non avrei imparato, fra tutte le altre cose, che il dolore per la separazione altro non è che l’ultima, straziante conferma di un sentimento ricevuto e dato. Mi crebbe alla stessa identica maniera degli altri suoi figli, come se anche questo mi spettasse, perché un “fisico da niente” non era un alibi, per lei, di rammollirmi lo spirito e di sottrarmi all’altra faccia dell’amore, rendendolo immateriale, incompiuto e quindi irripetibile.
Flora le somiglia, per come mi tratta. Non mi è riuscito di mandarla via, anche se ci ho provato, Dio solo sa quanto.
Nonostante fossimo pressapoco coetanei, non era certamente per questo motivo che lei fin da subito non ritenne di dover mantenere le distanze.
Semplicemente per lei le distanze sono come le differenze: non esistono, e se esistono vanno colmate. A forza, se serve, quando è importante.
Dopo l’episodio della mela ce ne sono stati altri e diversi, scontri e contrasti. Reagivo e ragionavo.
Ma torno sempre a quello e mi chiedo se, davvero, sarei stato in grado di prendere in bocca quel cucchiaino se non per tentare di morire una buona volta, di schifo.
Eppure mi piace, Flora.
Mi piace come mescola il caffè del dopopranzo, prima il mio e dopo il suo, lentamente, perdendosi un po’ nell’accompagnare con gli occhi il vortice scuro nella sua tazzina, e finendola sempre come si ridestasse appagata da un bel sogno, ciucciandomi con sincera noncuranza il cucchiaino in faccia mentre mi racconta di questo o quello. O mi ascolta.
Io glielo devo dire.
Tanto non c’è pericolo che possa essere frainteso, non è di sesso che si parla. Io l’ho sempre valutato dal di fuori, una condizione fisica e una questione umana che però non mi riguardano, e lei non ne vuole più sapere da quella volta antica, questo l’ho capito fra le righe.
Molti anni fa rimase incinta per sbaglio, ma proprio quando aveva imparato ad amare il figlio che portava in grembo, questi se n’era tragicamente andato.
Aveva perso il bambino, la possibilità di diventare ancora madre e la probabilità di ricevere un secondo perdono dai suoi genitori, qualunque cosa avesse commesso. Così lasciò tutto e tutti.
Me lo raccontò così, senza troppo ricamarci sopra.
Mi sembrò quasi un regalo quella breve confidenza. Come a dire “Siamo pari. Non ti lamentare troppo, tu”, e liquidò l’argomento con un gesto della mano, agitata nell’aria a scacciare un pensiero molesto come una mosca.
Credo abbia deciso di essere diversa, anche lei, di non aver voluto approfittare di un corpo apparentemente sano per farci qualche cosa d’altro, giusto per divertimento.
Si cura quel che basta, senza strafare, senza esagerare nemmeno nell’attirare l’attenzione al contrario. Piuttosto d’essere compatita, una come Flora partirebbe per la guerra.
Suppongo che nessuno come una donna, per il solo fatto di sapersi incapace generarlo con il ventre, possa temere il futuro. Ma è disposta ad aggredire il presente, dissanguandosi per una causa che ritiene giusta.
L’amore?
Flora l’amore lo pronuncia senza pronunciarlo mai, come si fa con certe malattie o con la felicità, per il timore di evocarle o di farsela scappare.
E’ un rischio, ma glielo devo proprio dire, che non mi schiferebbe un cucchiaino usato come un bacio.
Domani, domani glielo dico.
No. E’ già oggi. Oggi a pranzo glielo dico.
Le dirò cara Flora di primavera sì domani oggi glielo dico ho sonno domani Flora il cucchiaino mia madre l’amore ho sonno domani …

Danila Bellapé

 

 

clelia pierangela pieri – xdonnaselva@yahoo.it
luigi di costanzo       – onig1@libero.it

Clelia

3 commenti

  • Marco Pacifici

    Come faccio,io che di queste “cose”,se cosi mi vergogno a chiamare l’amore che mi ha generato,lasciare un commento? posso solo cercare di capire….Marco.

  • ginodicostanzo

    Un atto di generosità indagare con la letteratura certe condizioni umane. Anche ben scritto, complimenti vivissimi.

  • Un racconto che è regalo, più che semplice narrazione.

    Grazie, Danila.
    clelia

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