David Lifodi: Brasile, le dighe affogano le comunità locali

La costruzione delle grandi centrali idroelettriche è divenuta ormai pratica comune in tutto il sud del mondo, una manna per le multinazionali del settore edilizio ed energetico ed una catastrofe per le popolazioni che hanno la sfortuna di trovarsi accanto a queste grandi opere, o per meglio dire giganteschi mostri in divenire proprio nei territori dove hanno sempre abitato. L’America Latina è una zona del mondo dove la concessione degli appalti per l’edificazione delle dighe ha conosciuto un aumento esponenziale negli ultimi anni, compresi territori incontaminati quali la Patagonia o l’Ecuador, solo per citare alcuni degli esempi più eclatanti.

Uno dei casi più preoccupanti riguarda però la centrale idroelettrica di Belo Monte sul fiume Xingu. Siamo in Brasile, stato del Pará, e contadini, popoli indigeni e ribeirinhos (gli abitanti che vivono lungo il corso dei fiumi) rischiano fortemente di dover abbandonare le loro terre, lasciare i raccolti a cui hanno lavorato con fatica, rinunciare ai piccoli progetti di pesca artigianale per far posto a questa grande costruzione. “In questo progetto tutto è megalomane”, ha scritto tempo fa il teologo della Liberazione Leonardo Boff, dall’inondazione di un’ampia porzione della foresta alla trasposizione del fiume con la costruzione di due canali di cinquecento metri di larghezza e trenta chilometri di larghezza che lasceranno cento chilometri di letto a secco. Un terzo di Altamira, la città più vicina alla centrale, sarà sommersa e oltre ventimila persone costrette ad andarsene. Belo Monte è incluso nella Pac (il Programma di Accelerazione della Crescita) su cui l’uscente governo Lula ha puntato molto durante il suo mandato: consiste nell’avviare programmi faraonici in accordo con le grandi imprese del ramo edilizio senza però porre minimamente attenzione alle conseguenze che questi potrebbero avere a livello umano e naturale. Beneficeranno della Pac anche le transnazionali dell’agrobusiness, i grandi proprietari che si dedicano alla monocoltura della soia (nonostante le ripetute denunce del Movimento Sem Terra) e le multinazionali specializzate in estrazione mineraria. La diga di Belo Monte, se sarà costruita,  non rappresenterà solo una delle tante violazioni dei diritti umani, civili e sociali delle comunità indigene e contadine compiute per legittimare la forza economica di un paese come il Brasile, desideroso di entrare nel club del primo mondo seguendo la logica della potenza dapprima regionale che aspira a diventare mondiale (una sorta di sub-imperialismo), quanto l’intreccio tra banche, grandi imprese e partecipate del settore energetico, tutte pronte a sedersi al lauto banchetto della spartizione dei formidabili ricavi economici, i cosiddetti dividendi.

Vediamo questi meccanismi. Il Banco Nacional de Desenvolvimento Econômico e Social (familiarmente conosciuto con l’acronimo Bndes) finanzierà per l’80% la costruzione dell’usina (centrale idroelettrica in lingua portoghese) di Belo Monte. La partecipazione diretta della banca all’edificazione della diga sarà però limitata ad un 25%. Al resto contribuiranno i tre principali fondi pensione del paese, Previ (detenuto dal Banco do Brasil), Petros (gestito da quell’impero petrolifero che è Petrobrás) e Funcef (appartenente alla Caixa Econômica Federal). A sua volta, Previ finanzierà il 10% del megaprogetto per mezzo di una partecipata del settore energetico, Neoenergia, holding che controlla le municipalizzate di settore negli stati del Pernambuco e del Rio Grande do Norte. Non mancano nemmeno le imprese specializzate in ingegneria, una delle quale, la Sociedade de Propósito Específico, costituita appositamente per costruire la centrale idroelettrica di Belo Monte e coinvolgere altre due società distributrici di energia, Eletronorte ed Eletrobrás. Molte di queste imprese dicono anche di essere attente ai princìpi di responsabilità ambientale. In realtà si tratta soltanto di operazioni di green-washing: il parere contrario dell’Ibama (l’ente che si occupa delle questioni ambientali) emesso nel Dicembre 2009 è stato occultato e mancano le licenze di impatto ambientale per la costruzione della diga. Non solo. Altri dubbi provengono sia dal versante relativo alle perforazioni nel terreno per la costruzione della centrale sia per i metodi poco chiari con cui è stata organizzata l’asta per concedere l’appalto dei lavori, vinto dalle varie imprese sopraelencate. Il Movimento do Atingidos por Barragens (Mab, storica organizzazione sociale brasiliana che riunisce appunto gli atingidos por barragens, cioè coloro che sono stati danneggiati dalla costruzione delle dighe) ha presentato un rapporto in cui viene evidenziato lo sfruttamento intensivo del territorio brasiliano, dal disco verde concesso alle imprese minerarie che hanno inquinato laghi e fiumi al disboscamento dell’Amazzonia passando per la crescente presenza dei garimpeiros (cercatori d’oro) nelle aree biologicamente protette. E’ in questo contesto che Dom Erwin Kräutler, sacerdote che ha speso e spende tuttora l’intera vita per i diritti dei popoli della foresta amazzonica, ha parlato apertamente di un rischio genocidio per le comunità indigene. Un vero dialogo con gli indios non c’è mai stato, anzi, Eletronorte ha tentato di giocare la carta della divisione delle stesse comunità offrendo benzina e beni di consumo a campesinos, ribeirinhos e gli stessi indigeni allo scopo di sottrarre loro la terra senza dire nemmeno una parola sugli sgomberi forzati che dovranno subire in caso di realizzazione dell’opera. “Viviamo di caccia e pesca, del Rio Xingu e delle nostre terre, non diremo mai si a Belo Monte”, hanno ribattuto le comunità ribelli.

Scrive ancora Leonardo Boff: “Questo progetto si caratterizza per la mancanza di rispetto per le decine di etnie indigene che là vivono da migliaia di anni e che non sono state ascoltate (secondo quanto stabiliscono la Costituzione Federale, ma anche la Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Indigeni e la Convenzione sulla Diversità Biologica, di cui il Brasile è firmatario), per il disprezzo della foresta amazzonica la cui vocazione non è produrre energia elettrica, ma beni e servizi naturali di grande valore economico, per il disprezzo verso la coscienza ecologica che chiede estrema attenzione per le foreste”.

Attualmente i lavori per la centrale idroelettrica proseguono a rilento per le continue interruzioni dovute alla mancata presentazione delle licenze di impatto ambientale. I movimenti sociali della regione del Rio Xingu hanno scritto una lettera all’Osa, l’Organizzazione degli Stati Latinoamericani (spesso non esente da ambiguità e famosa per il suo immobilismo) chiedendo la sospensione immediata dei lavori ed hanno chiamato in causa anche la Commissione Interamericana per i Diritti Umani. Nel frattempo il 1 Gennaio si è insediata al Planalto (la casa presidenziale) Dilma Rousseff, pupilla di Lula che probabilmente non cambierà la sua politica di crescita ed espansione economica. In attesa di nuovi sviluppi resta il fatto che questa centrale idroelettrica, come le numerose altre in America Latina e altrove, va bloccata e non c’è dubbio che  le forti realtà sociali brasiliane faranno di tutto per fermarla.

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