De Cataldo, De Rosa, Herron, Knox, Manzini, Recami e Sironi

7 recensioni (giallo-noir) di Valerio Calzolaio

Giancarlo De Cataldo

«L’agente del caos»

Einaudi

324 pagine, 19 euro

Roma, Londra e Usa, prevalentemente. Oggi e prima. Un affermato scrittore italiano è alla ricerca di motivazioni e trama per il nuovo libro, pressato dall’editore, incerto su tutto. Viene contattato dall’avvocato americano Alwyn Flint, che ha sfogliato l’edizione inglese del precedente romanzo «Blue Moon», una buona combinazione di finzione letteraria ed elementi veritieri. Il protagonista era realmente esistito, Jay Dark, un’avventurosa vita di spia, considerato un trafficante dalla DEA, almeno undici lingue parlate in modo fluente, oltre venti identità assunte in svariati contesti geopolitici, arrestato in Italia e detenuto per 4 anni, poi scomparso, forse morto, potendo lasciare così libero sfogo al fertile contributo di personaggi immaginari (un poliziotto e un giudice, soprattutto) e a intrecci storici (come il caso Moro). L’avvocato spiega di curare gli interessi della Fondazione Fire of Chaos, istituita anni prima da Dark. Dopo qualche preliminare, lo invita a scrivere una nuova biografia, con meno invenzioni possibile e ispirata alla più grande carenza del romanzo: “il caos. Manca il caos”. Si vedono e ne discutono in italiano, Flint spiega che lui c’era e gli fornisce via via notizie e interpretazioni, superando ricorrenti incertezze e abbandoni dello scrittore, inviando pure video e altri materiali. Il nome di Dark sarebbe stato Jaroslav Jaro Darenski, nato verso il 1940, cresciuto a Williamsburg e Manhattan, padre straniero sconosciuto, madre sempre ubriaca, secco e pallido, poco socievole, ben presto ladro per mestiere e lettore di dizionari e volumi in altre lingue per passione, arrestato e internato, fino all’incontro col dottor Kirk, il teorico del caos, che ne intuisce e verifica i funzionali “doni” (enormi capacità d’apprendimento, insensibilità alle droghe) e lo “manovra” per almeno un decennio. Poi si gestisce da solo.

Nuovo bel romanzo per lo scrittore giudice Giancarlo De Cataldo (Taranto, 1956), molto ben influenzato dalle recenti attività di sceneggiatura e regia. Visionari e visioni travolgono tanto la realtà quanto la finzione, attraverso una narrazione che corre su più binari dello stesso binomio. Il principale è la prima persona, lui anonimo famoso scrittore contemporaneo, con frequenti acuminate dubbiose riflessioni di fronte alla scrittura civile e al mercato editoriale. Poi ci sono i dialoganti incontri (innaffiati da whisky e rhum) con quello strano avvocato che fa impertinenti domande personali (e una certa autobiografia irrompe nelle risposte narrate) e sembra essere stato in qualche modo accorto testimone di ogni episodio, conoscendo pure i migliori ristoranti e vini italiani. La ricostruzione dei passaggi cruciali nell’esistenza di Dark diventa così (per la maggior parte dei capitoli, evidentemente suggeriti dall’avvocato e rielaborati dallo scrittore) biografia in terza persona al passato, i fatti dall’esterno, il romanzo della sua (vera) vita, alternando movimenti ed eventi storici (il progetto clandestino CIA Mk-ultra, la rivolta di Watts contro il potere bianco, la Wholly Communion di poeti e artisti beat), foto versi video rintracciabili sul web o inventati di sana pianta (plausibile comunque che altri tirassero le fila), personaggi reali in situazioni verosimili (a esempio Timothy Leary, Andy Warhol, Ronald Laing). Jaro diventa Jay, principale agente del caos nel mondo anglosassone degli anni sessanta, settanta e ottanta, imperniando attività e complotti intorno alle droghe psichedeliche, Lsd in primis (oltre all’autoprodotta pillola Kaos). In mezzo il 1968, l’anno del caos, ça va sans dire. Come previsto lo scrittore è invaghito di Leonard Cohen, il già nazista Kirk di Carmina Burana, Händel, Mozart, Flint dell’opera lirica. Buona musica non manca mai.

 

Mick Herron

«Un covo di bastardi»

traduzione di Alfredo Colitto

Feltrinelli

336 pagine, 16 euro

Londra. 2010. La Casa nella palude non è in una palude, e non è nemmeno una casa. Non ha un campanello, né buca per (impossibili) lettere. Solo una porta, tre piani, quartiere Finsbury, vicino alla stazione Barbican della metropolitana. Forse non era allora ancora abbastanza noto, sono uffici dove distaccano i Brocchi, agenti dell’ente inglese per la sicurezza e il controspionaggio (il noto MI5, colloquialmente “Cinque”) che si siano dotati di una grave macchia nel lavoro (crimini o danni di droga, ubriachezza, lussuria, tradimento, incapacità), falliti o fregati, riuniti a non fare praticamente niente, in attesa di inevitabili definitive dimissioni. Risultando pur sempre un ramo dei Servizi di King’s Cross, sembra un sistema efficiente per liberarsi delle persone senza doverle licenziare, aggirando problemi e minacce di cause in tribunale, lontano dai purosangue sul campo. Non costituiscono una squadra e da lì non si torna indietro. In quel periodo erano una decina, l’esperto Jackson Lamb in cima alla gerarchia, non più giovane, guance cascanti e stomaco debordante, unti capelli biondicci pettinati all’indietro sulla fronte alta, un bastardo rude, grasso e pigro, ma insospettabilmente agile. Incarica di controllare la spazzatura di un ex giornalista famoso il fresco River Cartwright, biondo e prestante, inguaiato otto mesi prima da un’esercitazione falsata. Dovrebbe trattarsi solo di una commissione banale ed episodica, si rivela un guazzabuglio di piani e di manovre, doppi e tripli giochi; c’è di mezzo anche il rapimento di un 19enne pakistano, terroristi veri e presunti (con la destra in primo piano) minacciano di decapitarlo. Morti a gogò, tutti mettono in gioco la vita.

Mick Herron (Newcastle upon Tyne) ha pubblicato quattro polizieschi fra il 2003 e il 2009 prima di iniziare l’ottima apprezzata serie Jackson Lamb, giunta nel 2018 al sesto romanzo. Il celebrato «Slow Horses» è il primo e la conoscenza italiana dell’autore inglese comincia alla grande. I “bastardi” del nostro titolo riprendono nella forma e nella sostanza un protagonista collettivo relegato in un “covo”, poliziotti reietti, parigini o napoletani o londinesi che siano (chiunque abbia avuto l’idea iniziale, probabilmente indipendente). Si parte da qui, forse da una seconda chance per alcuni di loro. E il tema non è datato: al centro ci sono vari imprenditori della paura, chi (avendone mezzi e poteri) investe sulla xenofobia e sulle emozioni contingenti di individui e gruppi sociali per determinare esiti politici, in un senso e nell’altro. Accurati i quadri offerti sul funzionamento (pure pratico e gergale) sia dei servizi segreti che delle multiformi destre inglesi (PJ forse si muove un po’ come Salvini). Già nel 2010 per essere credibili nel mondo del web occorreva dimenticare grammatica, sintassi, umorismo, buone maniere e critica letteraria. Una protagonista è la grande Londra, compresa la città sotterranea, estesa quasi quanto quella in superficie, senza comparire su nessuna mappa turistica: passaggi e tunnel progettati per proteggere il complesso sistema di governo nelle crisi. E poi i singoli agenti si procurano sempre un fondo fuga: qualche centinaio di sterline, un passaporto, la chiave di una cassetta di sicurezza. L’informatico manda death metal a tutto volume.

 

Corrado De Rosa

«L’uomo che dorme»

Rizzoli

276 pagine, 17 euro

Salerno. Febbraio-marzo 2012. Antonio Tonino Costanza, lineamenti irregolari e gambe tozze, vorrebbe affrontare in solitudine anche la notte di San Valentino (come gli ultimi sei mesi) al riparo da tutti. La sua vita di quarantenne è un rimbalzo (in Vespa PX 200) tra l’ospedale e il carcere. Fa lo psichiatra, consulente del Tribunale per i crimini violenti, e ormai si sente comodo nella ragnatela dell’indolenza, niente (altre) storie da sentire, niente (altra) gente da vedere. Sara lo aveva lasciato tre anni prima, non erano sposati, avevano un figlio, Luca, giunto ormai ai dieci anni. Quella sera l’amico Elvezio lo chiama e lo convince a vedersi nel Caffè Scorretto, Antonio incrocia la giornalista Laura Santamaria, vispa e formosa. Comunque si stufa presto e, facendo finta di ricevere una chiamata, se ne torna a casa. Nei giorni successivi legge sul giornale della morte (la stessa notte) di una prostituta 66enne, Milena Franco, in arte Sonia, strangolata con il laccio della vestaglia, una forbice nella vagina e un’altra infilata in bocca. Non se ne interesserebbe proprio se, dopo una settimana, non lo chiamasse Laura, alla ricerca di qualche significativa frase sulla personalità dell’assassino, certamente un folle. Dal colloquio un pezzo da quotidiano viene fuori; cominciano pure a frequentarsi, chiacchierando allegramente di tutto un po’, il 28 finiscono a letto, senza impegno. Sara comunica ad Antonio che ha un nuovo compagno stabile, vegetariano laico; il rapporto con Laura si complica. Però è sempre più coinvolto nell’indagine, il primo marzo viene uccisa un’altra prostituta, serve la sua acuta esperienza per individuare il colpevole.

Lo psichiatra forense Corrado De Rosa (Napoli, 1975) vive da tempo (per stabili ragioni professionali) sulla A3 Salerno-Reggio Calabria e ha pubblicato vari saggi di ricerca psicosociale, con particolare attenzione a mafia e camorra. L’esordio letterario nella fiction non riguarda la criminalità organizzata, piuttosto disturbi maschili individuali violenti. Il titolo fa riferimento a quelle ricerche scientifiche che li collocano più frequentemente durante il sonno, i rei potrebbero essere uomini che dormono. La narrazione è in terza varia, ricorrente sul buon protagonista (tendenzialmente seriale), sfaccettata su vari comprimari (quasi mai interessanti) della storia. L’autore coglie l’occasione per raccontare episodi e casi evidentemente tratti da esperienze personali, in particolare la vicenda di Federico, in trattamento sanitario obbligatorio, e della sua famiglia; oppure le biografie arrotolate di Vincenzo Amerigo Troisi (“uno dei motivi per cui valeva la pena fare lo psichiatra”) e del pessimo imputabile Vito Senatore (“l’hai mai visto un esordio psicotico a cinquantasei anni?”). Il fatto è che alla storia gialla o nera non ci si appassiona mai; l’esistenza dei crimini in controluce vale solo come pretesto per un racconto di genere quasi autoreferenziale, a tratti simpatico e divertente, amaro e scanzonato. I vini sono quelli giusti, a denominazione di origine controllata (a chilometro zero, più o meno), Aglianico e Fiano. In giro si ascolta di tutto, in Vespa i Velvet Underground, Radiohead, Eno, Dylan. Alberto, front-man dei Rag Doll, appare un tipo improbabile: chiodo borchiato, guanti neri a mezzo dito, orecchini appariscenti, chioma bionda, se possibile maglietta dei Metallica, armeggi con boa e pitoni. Il pubblico s’infiamma, pure Laura (in apparenza).

 

Joseph Knox

«La lunga notte del detective Waits»

traduzione di Alfredo Colitto

Einaudi

420 pagine per 19,50 euro

Manchester. Novembre, ora, un anno e dieci anni prima. Il segretario di Stato per la giustizia David Rossiter, alto e affascinante, sui 45, già avvocato e marito di ereditiera, parlamentare tory, convoca Aidan Waits alla Beetham Tower, deve recuperare la più giovane delle sue due belle figlie, la 17enne Isabelle, capelli biondi (spenti) e occhi azzurri (intelligenti), rimasta invischiata prima con un tentato suicidio poi con il trafficante Zain Carver, nella cui residenza ormai vive da un mese. Waits va subito in uno dei locali cavernosi di Zain e incontra la 22enne “fattorino” Catherine, c’erano state altre scomparse di donne. Waits è un poliziotto (quasi) finito e si è appena infiltrato nell’organizzazione dello spaccio, era stato sorpreso a rubare droga, continua a farsi di anfetamina alla grande. Il libraio Joseph Knobb ha scelto lo pseudonimo Knox per esordire nelle contorsioni notturne delle “sirene” noir con atmosfere hard-boiled (alla Chandler). Inizio faticoso, poi decolla.

Paola Sironi

«Donne che odiano i fiori»

Todaro

184 pagine, 15 euro

Milano. Ottobre-novembre. Alla Mobile della Questura di Milano funziona bene la squadra del reparto Problem solving (o “Desbrujà rugne” che dir si voglia) ideato per dirimere inchieste con problemi di organizzazione “tra” le forze dell’ordine. Il coordinatore è un veterano, l’imponente commissario Elia Mastrosimone, calvo coi baffi neri, centrocampista e cannoniere. La bionda ossigenata sensuale valtellinese Caterina Cederna è la fantasista. Il buon toscano Vilnev Villeneuve Rosaspina con giovani ciuffi castani, da spericolato pilota, è l’ala sinistra. Infine c’è l’ultima arrivata, lei, ispettore Annalisa Lisetta Consolati, milanese purosangue, capelli chiari e fini, terzino destro e protagonista. Ha chiesto il trasferimento quando Patrizio, il padre vedovo, si è ammalato di parafrenia senile, per avere orari regolari e giovedì mattina libero. Lo accompagna dallo psichiatra e lo accudisce sempre, insieme all’amata saggia partner Minerva (nonostante le antipatiche sorelle gemelle), restauratrice, lineamenti perfetti e capelli corvini. Annalisa non cucina, fa ovunque il lavoro sporco ma è soddisfatta. Ora hanno il caso di una 49enne solitaria, Loretta Manarrelli, titolare di un vivaio di piante, probabile suicida sotto un treno proprio quando stava per essere interrogata circa la strana morte del suo amico Damiano Brancher sul Mottarone (Verbania), stritolato da un anaconda. Procure distanti, scarso coordinamento, devono intervenire loro. Ed è l’occasione, al funerale, per reincontrare una brava professoressa delle superiori, Nice Carnera, ora in pensione.

L’analista funzionale (informatica) Paola Sironi (Milano, 1966) inizia una nuova serie nella bella collana (impostata e a lungo diretta dalla grande Tecla Dozio) ove ci aveva già ben raccontato dei vari Malesani. Narrazione in terza persona fissa sulle peripezie pubbliche e private di Annalisa, con brevissimi intermezzi in corsivo (ancora in terza) per Damiano, Loretta, Nice, e soprattutto per papà Patrizio. Lui ormai vive quasi solo il proprio mondo di “continuatore di film”: attinge alla memoria di dettagliate precise storie da grande o piccolo schermo, per aggiungervi avvenimenti inventati, con bizzarra creatività e protagonismo demiurgico. Ci riesce alla grande con «Una giornata particolare» di Scola. Essendo molte le inconsuete incognite del caso anche l’inconscio paterno potrà essere utile: da dove arriva l’anaconda verde, visto che è una specie di cui è vietata la detenzione e la vendita? E perché si è suicidata la donna che considerava l’assassinato come il miglior unico amico e aveva sul tavolo della cucina un foglietto scarabocchiato con “quelle che odiano i fiori” (che è pure il titolo del romanzo)? Scavando appena un poco ci si imbatte in donne sfruttate, nella tratta e nella schiavitù delle prostitute nigeriane, un tunnel (quasi sempre) senza via d’uscita, né in Europa né in patria. Anche in questo intreccio noir (e giallo insieme) ci sono dunque perlopiù donne, tutte a loro modo interessanti e vivaci. Invece, i due maschi coinvolti sono pessimi, uno fottitore e schiattato, uno vecchio e cattivo.

 

Francesco Recami

«La clinica Riposo & Pace. Commedia near n.2»

Sellerio

212 pagine, 14 euro

Il borghetto. Ieri. C’era una volta l’elegante seicentesca Villa Riposo & Pace sulle amene colline preappenniniche, in mezzo a cipressi e olivi, dove si portavano parenti a morire in fretta. Fungeva da costosissima casa di riposo per anziani non autosufficienti, consistente di tre bei corpi separati per tutte le esigenze. Onerosa inopinabile caparra; costi altissimi pur con permanenze tendenzialmente brevi; sperimentata garanzia di efficienza e riservatezza sotto la guida del Professore; ristorante stellato a chilometro zero e resort di lusso con piscina per parenti e conoscenti dei ricoverati. Poi venne il momento di un grave guaio: vi fu condotto dalla nipote cinquantenne Mikaela accompagnata dall’elegante marito Roberto l’85enne Alfio Pallini, grande e grosso, un metro e novanta per 120 chili, braccia e dita da fabbro, in permanente contatto con l’amico e alter ego Ulrich. Soffriva di sindrome degenerativa su base circolatoria, demenza senile in stato avanzato (delirio, mania di persecuzione, marcata aggressività), era già in terapia con farmaci antipsicotici atipici come la quetiapina. Venne messo nella stanza numero 9 al secondo piano, quella dei “moribundi in pocha semana” (secondo l’inserviente di colore), due letti, il vicino era appena morto, subito sostituito da un altro, Valerio. Alfio faceva sempre attenzione a fingere di dormire, ascoltando tutto; a farsi imboccare le pasticche, gettandole invece di nascosto appena rimasto solo (o conservandole alla bisogna); a gestire con furbizia quiz cognitivi, per therapy, musicoterapia e pure suor Andrea. Forse cercheranno di ucciderlo in vari (scientifici) modi. E il rompicoglioni dovrà adottare vari (fantasiosi) piani d’azione e di fuga.

Il meticoloso divertente scrittore toscano Francesco Recami (Firenze, 1956), noto soprattutto per romanzi e racconti dedicati ai condomini di una casa di ringhiera a Milano, continua la nuova serie toscana (per ora) di favole (incubi) noir, in terza quasi fissa sul resistente maschio. Pare proprio di esserci già stati in un posto così, nella clinica del titolo, di aver ascoltato anche noi quelle conversazioni fra geriatri e medici, fra colleghe infermiere o colleghi guardiani, fra chi vi lavora e i parenti di chi ne usufruisce. Il dolore, la fatica, il residuo pensiero nelle malattie dei vecchi; il mercato applicato alla salute e ai farmaci; la cinica (inevitabile?) commedia nell’evoluzione delle relazioni affettive; i confini della legalità nel trattamento dei corpi e della medicina. La formula è ancora di ironica drammaturgia: la stanza fatidica è al centro praticamente di tutte le 26 scene, distinte in quattro atti: esposizione, complicazione, peripezie e climax, catastrofe. I dialoghi sono tanti, gergali, tipici di ospedali italiani, non solo quel gergo ma anche i cento cocktail di medicine, più o meno “utili” a seconda degli obiettivi. Non solo umani: i gatti sono tantissimi, Aristide soffre proprio di diabete, costano enormemente i croccantini senza carboidrati e l’insulina non la passano per gli animali. Niente alcol in corsia. Uno dei vicini di letto canta di continuo «Un ragazzo di strada» dei Corvi, un tic: «Io sono quel che sono… la gente ride di me… Vivo ai margini della città… una ragazza come te… Sono un poco di buono… lasciami in pace perché…». Ottima ossessiva terapia musicale.

 

Antonio Manzini

«L’anello mancante. Cinque indagini di Rocco Schiavone»

Sellerio

248 pagine, 14 euro

Aosta. 2012-2013. Sono finora usciti sei romanzi di Antonio Manzini con protagonista il vicequestore Rocco Schiavone, trasferito in punizione ad Aosta. Gli affezionati lettori sanno che si tratta di un’unica epopea psicologica esistenziale, molto segnata dalla morte a Roma della moglie di Rocco, il 7 luglio 2007. Le vicende gialle sono l’occasione (ogni volta diversa) per seguire evoluzione e introspezione del vicequestore. Per un certo periodo, nelle belle raccolte a tema degli scrittori Sellerio, i racconti di Manzini riguardavano le esperienze collinari e trasteverine del nostro eroe, prima delle Clarks sulla neve. Poi l’autore si è messo alla prova, ed è riuscito efficacemente a narrare curiosi episodi montanari, sganciati dal flusso narrativo unitario della serie. Esce così una deliziosa antologia con le cinque storie aostane di Schiavone, la prima è «L’anello mancante» e dà il titolo all’intero testo di piacevolissima lettura (e rilettura).

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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