Dio ci odia tutti

Ateismo velato e mostruosità senza senso nel mondo enigmatico di Richard Matheson

di Fabrizio (Astrofilosofo) Melodia

«Il tempo aveva perso la sua qualità pluridimensionale. Per Robert Neville esisteva soltanto il presente; un presente basato sulla sopravvivenza quotidiana, scandito dall’assenza di picchi di gioia o abissi di disperazione. Sono a un passo dallo stato vegetale, pensava spesso». («Io sono leggenda», 1954).

Immaginate la situazione che sta vivendo Robert Neville, unico sopravvissuto umano alla catastrofe epidemica che falcidiò rapidamente la Terra, i suoi governi, le sue istituzioni, il tessuto sociale e la famiglia di appartenenza.

Siete rimasti soli, la sola compagnia sono i vostri pensieri.

Tutto intorno a voi, macerie, auto abbandonate, accartocciate, case distrutte, palazzi crollati, tubature scoppiate, igiene e sanità completamente inesistenti.

Soprattutto, l’assurdo e ineludibile urlo del silenzio.

Totale, abbacinante, stordente.

Un silenzio di morte e solitudine, la vostra.

Questo lo scenario di una delle opere maggiori di Richard Burton Matheson, classe 1926, talentuoso e pessimistico cantore dell’umana condizione di miseria, finitudine e mortalità.

Talento precoce, già a otto anni scrive racconti e pubblica alcune poesie su un giornale. Ex militare, ferito in azione durante la seconda guerra mondiale, dopo il congedo studia giornalismo e si laurea all’università del Missouri.

Nel 1951 si trasferisce in California e l’anno successivo si sposa. Nel 1952 entra a far parte del gruppo dei “Fictioners”, un gruppo di giovani scrittori di gialli, dando alla luce alcuni ottimi racconti di genere.

Mentre lavora in fabbrica, sognando di diventare scrittore a tempo pieno, riprende un’idea che aveva avuto da ragazzo, dopo aver visto il film «Dracula», la sviluppa e ne trae «Io sono leggenda».

Sarà un romanzo spartiacque nella vita di Richard Matheson, non immaginando neppure lontanamente l’importanza che questa sua opera avrebbe significato non solo in campo fantascientifico, ma anche per il grande schermo e per la letteratura mainstream.

Robert Neville è l’ultimo umano rimasto nella sua città e probabilmente nel mondo intero. Tutto è ridotto a un cumulo di macerie e le uniche forme di vita sopravvissute sono gli esseri umani tramutati in vampiri assetati di sangue.

Neville quotidianamente deve sopravvivere allo solitudine, alla mancanza di cibo e acqua, all’oscurità, quando le creature, alcune delle quali erano vicini di casa, muovono veri propri assedi alla sua abitazione ormai trasformata in fortezza.

Di giorno, l’ultimo uomo sulla terra si muove ricolmo di rabbia e disperazione, scovando i vampiri dormienti e uccidendoli uno a uno.

Riesce persino a costruirsi un rudimentale laboratorio, studia fino a cavarsi gli occhi per capire cosa è accaduto al genere umano, ricerca disperatamente la causa prima dell’epidemia che ha mutato l’intera umanità, sua moglie compresa.

Tormentato dal ricordo dell’amata moglie che è stato costretto a uccidere poiché tentava di morderlo, Neville incontra un’altra donna, all’apparenza una sopravvissuta come lui.

Alla domanda di lei «Perchè siamo stati puniti così?», il dolente Robert Neville aprirà le braccia in un segno chiaro e inequivocabile: «Non lo so, non c’è spiegazione, è così e basta».

Purtroppo scoprirà ben presto che la sua fiducia nella donna era mal riposta.

Fa parte infatti di una nuova razza, generata dalla mutazione del virus che Robert stesso aveva scoperto durante le notti insonni, alla ricerca della causa.

Ora è davvero l’unico uomo sulla Terra, creatura mitologica e terribile, leggendaria come lo erano i vampiri dei racconti popolari.

«Robert Neville posò lo sguardo sui nuovi abitanti della Terra. Sapeva di non essere uno di loro; sapeva di essere un anatema, un orrore nero da distruggere, come i vampiri. E quell’idea lo colpì come un fulmine, divertendolo perfino nel dolore. Un risolino strozzato gli riempì la gola. Si girò e si appoggiò alla parete mentre ingoiava le pillole. “Il cerchio è completo” pensò mentre il letargo definitivo gli strisciava nelle membra. “Il cerchio è completo. Un nuovo terrore prende forma dalla morte, una nuova superstizione penetra la fortezza inattaccabile dell’infinito.
Io sono leggenda”».

La condizione di diversità, solitudine e impotenza trovano nel successivo romanzo «Tre millimetri al giorno» (1956) una nuova e agghiacciante elaborazione.

Un uomo viene a contatto casualmente con una strana nebbia, mentre sta svolgendo una crociera di piacere con la sua imbarcazione personale.

Ritornato a casa, non passa molto tempo che, nella più totale incredulità di familiari e amici, egli rimpicciolisce di tre millimetri ogni giorno.

La scienza è completamente impotente dinanzi a un tale fenomeno, di cui non si riesce a capire le cause e nemmeno il decorso.

Lentamente l’uomo rimpicciolisce sempre di più, fino a trovarsi a lottare con il proprio gatto o un ragno di casa, per lui diventato un mostro terrificante. La sua casa, un tempo dimora sicura, è diventata per lui assolutamente minacciosa, con le rotture nel parquet di casa, per lui ormai diventate burroni, la difficoltà di nutrirsi con le briciole che trova a terra.

Egli tiene costantemente il conto di quanto sta rimpicciolendo, la sua paura più estrema diventa però una certezza: alla fine continuerà a rimpicciolire, forse all’infinito, fino a scomparire.

A concludere una parabola tragica, arriva il nuovo successo di Matheson «Io sono Helen Driscoll»: vicenda incentrata sui terrificanti poteri della mente, in grado di vedere il futuro mentre gli spettri che vagano oltre il normale campo percettivo umano.

Dopo una seduta di ipnosi, fatta per gioco durante una festa in casa, il protagonista sarà perseguitato da percezioni del futuro che arriveranno a procurargli problemi a non finire, a togliergli quasi il piacere di vivere.

Senza spiegazione – solo un’ipotesi di aver toccato una zona del cervello che era meglio rimanesse sopita – il nostro sventurato viene proiettato in un mondo che mai avrebbe immaginato possibile, a vedere oltre la differenza, a percepire lo spettro di una donna, che egli identificherà essere Helen Driscoll, scomparsa senza spiegazione anni addietro.

Alla fine, l’ascolto dell’apparizione e di una premonizione, salveranno la vita dell’uomo, assicurando i colpevoli alla giustizia.

Richard Matheson dipinge un’umanità tragicamente in balìa di eventi che non riesce a comprendere, divorata da virus inspiegabili, mutazioni incontrollabili, sempre al vaglio di una scienza che mostra le corde in ogni occasione. Matheson assurge dunque al massimo rigore razionalista proprio per la sua capacità di criticare profondamente le basi stesse dell’umano, la sua presunta Ragione, che lo erge dalle bestie.

La Ragione s’infrange sugli scogli della non comprensione, quando ormai tutte le prove sono state ampiamente sperimentate, quando ormai l’umanità è già cenere, caduta ancora vittima della paura dell’altro, dell’ignoto e del diverso.

«La logica è legata a questa condizione: supporre che si diano casi identici, perché senza costanti l’uomo non può sopravvivere» (Friedrich W. Nietzsche).

Ecco dunque come le parole del filosofo fanno da megafono alla descrizione di Neville e delle altre anime dolenti che vagano per il mondo, soli e disperati.

Crollano i fondamenti stessi che reggono la Società, i princìpi di conoscenza e di logica che permettono al mondo civile di poter essere responsabili, di controllare la Natura, di poter legiferare e organizzare la produzione, di poter condurre la propria vita in libertà.

La logica si fonda su premesse fasulle, pone le sue basi sull’illusorietà che sussistano stati identici che si ripetono in continuo, in realtà esso è solo un inganno della mente, che decide di vedere ciò che vuole, per il proprio egoistico appagamento.

«La conoscenza esiste nella misura in cui è utile. Non c’è dubbio, infatti, che tutte le percezioni di senso sono impegnate in giudizi di valore: utile e dannoso, quindi piacevole e spiacevole» (Friedrich W. Nietzsche).

Matheson mette in luce proprio il grande inganno in cui l’essere umano versa, diviso fra l’illusorietà della conoscenza e le convenzioni determinate antropologicamente.

L’umano è determinato dai suoi impulsi primari, ciò che egli ritiene la maggiore espressione in natura della sua superiorità, è messa totalmente non solo in discussione, ma perde ogni significato positivo e propositivo.

Neville studia ogni notte il virus che egli stesso ha ribattezzato “vampyris”, nella speranza, per altro consolatoria, che esso si attenga alle conoscenze che fino a quel momento erano state raggiunte. Purtroppo anche in questo caso, la Natura si smentisce, gli scienziati da tempo hanno appreso che un ceppo virale muta. Una tacita ammissione all’illusorietà della conoscenza, alla necessità di non costringere la visione della natura dentro contenitori determinati, magari costruiti secondo dettami di ricorrenza e statistica che alla fine mostrano solo l’eterna povertà della mente, messa dinanzi a qualcosa che non può vedere, misurare, sperimentare e soggiogare a forza.

«È impossibile che il nostro conoscere possa andare al di là dello stretto necessario per la conservazione della vita. La morfologia ci mostra che i sensi, i nervi, nonché il cervello si sviluppano proporzionalmente alla difficoltà di nutrirsi» (ancora Nietzsche).

La scienza stessa mina le sue basi: la morfologia dimostra come tutta la conoscenza sia resa nulla dalla sua stessa natura, niente e nessuno conduce questo mondo, non c’è di sicuro un senso interno allo svolgimento dei fenomeni, nemmeno dunque un’essenza determinata nelle sue caratteristiche che possa essere da fondamento alla conoscenza.

Tutto è in continuo mutare, niente si salva da questo scorrere: Neville e lo straordinario uomo che si restringe sviluppano capacità sorprendenti di sopravvivenza, proprio in virtù della perdita di qualsiasi punto di riferimento, quando la realtà frana sotto i loro occhi e le persone care all’improvviso vogliono soltanto fare del male, oppure quando anche la tua casa diventa un incubo nella sua maestosa e sconfinata incombenza.

«La ragione è la causa per cui falsifichiamo la testimonianza dei sensi. In quanto mostrano il divenire, il trapassare, il mutamento, i sensi non mentono… Ma Eraclitoavrà eternamente ragione di affermare che l’essereè una vuota finzione. Il mondo “apparente” è l’unico mondo; il “mondo vero” è solo un’aggiunta menzognera» (Friedrich W. Nietzsche).

Dunque Richard Matheson assurge a poeta-filosofo della falsificazione della Ragione, unica divinità ancora a resistere alle bordate della Società Moderna, troppo ancorata a false divinità e convenzioni scientifiche che mostrano la propria vacuità nelle situazioni essenziali.

Mostra dunque non solo la morte di Dio, ma anche quanto del mondo distrutto sia rimasto.

L’uomo che vede Helen Driscoll alla fine accetta la realtà nella sua carica di terrore, riesce a interpretare i segnali di Helen, che lo condurranno non in modo sicuro e univoco all’assassino. Non una detective story, proprio perché manca il principio fondamentale della Ragione, ma un lento rifluire dagli abissi del nulla, un’accettazione dell’apparenza, della percezione caotica e incontrollata che alla fine porta i suoi frutti.

«Il “regno dei cieli” è una condizione del cuore – non qualcosa che giunge “oltre la terra” o “dopo la morte”. […] Il “regno di Dio” non è qualcosa che si attende: non ha un ieri e un dopodomani, non giunge tra “mille anni” – è l’esperienza di un cuore; esiste ovunque e in nessun luogo» (Nietzsche).

La felicità per i personaggi di Matheson non esiste in un altro luogo, nato per consolarli della loro situazione, non esiste un conforto, una spiegazione.

L’uomo trasmuta, diventa leggenda, soppiantato da altre cose che lo sorpassano, rendendolo non solo antiquato ma inutile e dannoso alla vita.

Tutto questo è portato avanti dal fiume della vita, che scorre sempre in continuo, spinto da un’energia creatrice e caotica che va oltre i suoi figli, cieca e vuota, una musica senza paragoni, impossibile da imbrigliare in ritmi e melodie precostituite.

«No. La vita non mi ha disilluso. Di anno in anno la trovo invece più ricca, più desiderabile e più misteriosa – da quel giorno in cui venne a me il grande liberatore, quel pensiero cioè che la vita potrebbe essere un esperimento di chi è volto alla conoscenza – e non un dovere, non una fatalità, non una frode. E la conoscenza stessa: può anche essere per altri qualcosa di diverso, per esempio un giaciglio di riposo o la via a un giaciglio di riposo; oppure uno svago o un ozio; ma per me essa è un mondo di pericoli e di vittorie, in cui anche i sentimenti eroici hanno le loro arene per la danza e per la lotta. “La vita come mezzo della conoscenza” – con questo principio nel cuore si può non soltanto valorosamente, ma perfino gioiosamente vivere e gioiosamente ridere» (Friedrich W. Nietzsche).

Non è un profeta della morte di Dio, ma un’affermazione alla volontà di vivere, oltre il fiume dell’apparenza, senza che questo “oltre” esista da qualche parte: un luogo che è tutti i luoghi, consci del fatto che il Caos sia l’unica e più vera forza motrice, un’energia divoratrice, che pungola in continuo tra sofferenza e piacere.

Alla fine la sua profezia è proprio questa: Dio ci odia tutti.

Siamo noi ad amare la vita, oltre la porta della solitudine e della finitezza.

La porta estrema della vita, il senso stesso del nulla.


Redazione
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3 commenti

  • me lo leggo con calma…

  • Ottimo, come sempre, il pezzo di Fabrizio su Matheson. Ovviamente non si può dire tutto in un breve articolo e dunque “astrofilosofo” si è concentrato sui principali romanzi. Vorrei dunque accennare ai moltissimi racconti – fantascienza e dintorni, ma anche noir – che il «dottor Shock» ci ha regalato.
    I meno giovani ricorderanno l’antologia uraniana «Regola per sopravvivere»: splendido il racconto a scatole cinesi che dà il titolo al volume (altrove pubblicato come «Paradigma di sopravvivenza») ma memorabili anche «Scomparsa graduale», «C…», «Nato d’uomo e di donna» e – per l’epoca – «Su dai canali». Nel 1984 gli Oscar pubblicarono il cofanetto «Shock» quasi conclusivo della sua produzione breve, fantascienza e non.
    Di recente Fanucci ha riedito «Io sono Helen Driscoll» e altri 5 volumi mathesoniani fra i quali – nel 2010 – «The box» che raccoglie 12 opere brevi dove spicca «La macchina del jazz», un piccolo e quasi sconosciuto capolavoro: non è etichettabile ma aiuta ad avvicinarsi ai segreti del jazz, «lingua segreta… un milione di accenti e varianti… rip-bip-dee-doo-doot-doo», frasi brevi scritte con quel «graffio nell’anima» – la frase è di Thelonius Monk (se la memoria non mi inganna) – necessario per capire.
    Ha collaborato ad alcuni film («Duel» di Spielberg a esempio) e programmi tv («Ai confini della realtà»). Mi pare di rammentare testimonianze su un suo scontro con Alfred Hitchcock ma su questo sarà più preciso qualcuno più documentato di me.

  • Noi conosciamo un personaggio che si troverebbe in grande sintonia con tutto ciò che hai scritto, è un filosofo ed è piuttosto pericoloso: http://sotterfugi.wordpress.com/2012/04/18/ivan-odradek-loscuro-filosofo-2012/
    Al di là degli scherzi, complimenti per il post, servono riflessioni di questa portata, oggigiorno.

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