Divagazioni sul libro di Hamid, su Imola, sul v(u)oto

Non sono oggettivo (d’altronde, non essendo un sasso ma una persona come potrei?). Non sono neutrale. Però onesto sì, cerco di esserlo. Così se parlo di «Il volo di Mohammed» (Libertà edizioni: 136 pagine per 17 euri) non è solo perché sono amico da quasi 20 anni dell’autore cioè di Hamid Barole Abdu. Preciso meglio: forse più che “amico” mi considero suo fratello e penso persino.. di essere un po’ lui, come spiego nella post-fazione del libro, visto che ci scambiamo le parti in «Le scimmie verdi».

Ho deciso di recensirlo seguendo i pensieri lungo due viuzze (l’ultimo voto e Imola). Ma forse più che una recensione le mie sono divagazioni sul poetare in questi tempi bui, sulla forza eppur la debolezza dell’arte ma anche sulla necessità di un agire collettivo.

La prima stradina (avrò le scarpe giuste? Ho abbastanza acqua nella borraccia?) è il recente voto che polemicamente scriverò v(u)oto come mi ha insegnato Vincenza Pellegrino. Condivido la fotografia di uno scenario impietoso che oggi (4 aprile 2010) Marco Revelli offre, a mente fredda, su «il manifesto». Mi preparo dunque a tempi cupi. Credo che la poesia ci aiuterà; che la rabbia come l’ironia sia una delle corde al nostro arco; che la voglia di comunicare possa sconfiggere la paura; che la forza dei sogni collettivi potrà vincere contro le merci che bramiamo possedere e dalle quali invece siamo sempre più posseduti.

Proprio oggi per caso rileggevo Derek Walcott; per chi non lo sa è uno scrittore dei Caraibi, premio Nobel per la letteratura nel 1992, che ha insegnato in esilio (a Boston) in una lingua straniera (l’inglese al posto del patois-creolo nativo). Un po’ come Hamid, il quale si trova a scrivere nella lingua del nemico, cioè l’italiano, ma con tutte le complicazioni del caso visto che suo padre era un ascaro. E infatti la dedica del libro è «a mio padre che volle essere fedele all’Italia ingrata» e anzi, più avanti, Hamid la estende «ai migliaia di ascari che non ci sono più, ai pochissimi ancora in vita, insomma a tutti quelli che la storia ha cancellato per sempre». E l’autore chiude la sua dedica in modo insolito e dolce: «desidero che il lettore faccia un minuto di silenzio prima di iniziare a leggere le poesie contenute in questo libro. Grazie».

Nel (mio) minuto di silenzio prima di rileggere le poesie, io ho pensato a come è difficile avere perduto due patrie (o «matrie» come forse sarebbe giusto dire): per Hamid infatti non è più un luogo di speranza né la natia Eritrea, caduta sotto un’orrenda tirannia, né l’Italia dove emigrò giovanissimo e che pure lo aveva aperto a braccia aperte… visto che negli anni ’70 del secolo scorso, quando lui arrivò, in tanti tentavamo di essere concretamente fratelli e sorelle nella lotta contro l’ingiustizia e di avere per soli nemici gli sfruttatori dovunque fossero nati e qualunque fosse l’epidermide o la forma del naso.

Oggi quella spinta (una più grande «matria» oserei dire) si è perduta, assopita, ammalata o chissà cosa. Perciò ci viene imposto di scegliere una patria, una civiltà, un’identità. Una e basta. Io mi rifiuto. Per i motivi che così bene, secondo me, riassume la poesia «Prigione» di Ndjock Ngana Yogo (la trovate su questo blog) ma anche molte poesie di Hamid e quei versi di Walcott – da «Mappa del nuovo mondo» – che oggi mi sono tornati sotto gli occhi. «Come sceglierò / tra quest’Africa e la lingua inglese che amo? / Tradirle entrambe o restituire ciò che danno? / Come guardare a un simile massacro e rimanere freddo? / Come voltare le spalle all’Africa e vivere? / Io sono solo un negro rosso che ama il mare / ho avuto una buona istruzione coloniale / ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese / sono nessuno e sono una nazione».

Ora che ci penso, ignoro quanto Hamid ami l’italiano (fu una bella lingua, ora è ammuffita e coca-colonizzata) ma di certo controlla benissimo le parole, le piega alla freccia che sta per scoccare. Per il resto credo che anche Hamid si trovi in una situazione abbastanza simile a Walcott e tanti altri, tante altre: quante volte bisogna scegliere o essere costretti a scegliere? Ci si può rifiutare? Il suo rifiuto può unirsi al mio o siamo condannati alla solitudine?

La seconda viuzza su cui mi inerpico (i piedi già mi fanno male, il cielo si annuvola) è che da qualche mese io e Hamid viviamo nella stessa città, Imola. Sapete quella città che era rossa perché ci furono Andrea Costa, gli scioperi , poi i partigiani… e che adesso è rimasta rossa solo perché ci corre la Ferrari che ha le bandiere così. Qui a Imola chiamano «marucain» pure chi è romano (io lo sono, dunque parlo per esperienza) e insomma nella maggioranza della popolazione non è che proprio vi sia un gran curiosità per lo straniero. In una città di così belle tradizioni, molto potrebbero fare la sinistra e il sindacato; spiace che siano della frazione Tutankamen-Permaflex… dormiamoci su 30 anni che passerà anche questa.

Dunque in questa Imola-bella-addormentata alcune persone – non tantissime – provano ad agitarsi. Prima un coordinamento antirazzista, poi un comitato «primo marzo». Qui a Imola c’è anche dell’altro (poco ma c’è): a esempio una sezione di Amnesty molto attiva o l’associazione Trama di terre cioè donne native e migranti che lavorano insieme da 12 anni: gran cosa, peccato che i progressisti Tutankamen-Permaflex dormano da 132 mesi almeno e non se ne siano accorti. Anzi molti considerano anche Amnesty una sorta di Zapata-Zapatero-Guzzanti, pazzi estremisti insomma. Pare che essere meno bestie della Bbc (no, non quella roba inglese ma l’italica schifezza Berlusconi-Bossi-Calderoli) sia diventata una stranezza.

Torno al rapporto fra Imola e Hamid. Che è per ora nullo. Nel senso che, salvo partecipare al primo marzo, non ha granché cercato di agire in città, di coordinarsi con i pochi e le poche “resistenti”, nativi o migranti che siano. Per ragioni che lui spiega benissimo (per esempio nel bellissimo poema «Viaggio nel Paese delle meraviglie») e che condivido ritiene che i falsi anti-razzisti siano persino peggiori dei fascio-leghisti e sospetta che i brandelli della sedicente sinistra ne siano pieni.

Eppure l’azione collettiva può «dar voce a chi non ce l’ha», informare gli ignoranti, organizzare la speranza e persino «sturare le orecchie a chi gioca a fare il sordo». Noi ci abbiamo provato in luglio con la campagna «Io non respingo» e lo voglio ri-raccontare.

Decidemmo di preparare un’azione teatral-politica nella piazza principale di Imola, un sabato mattina. Soprattutto per raccontare storie, le piccole storie ignobili di ogni giorno. E’ l’Italia merdosa, cattiva, impaurita e razzista con le orecchie spalancate per sentire ogni idiozia fascio-leghista ma le tiene ben chiuse per il timore di ascoltare parolacce come sfruttamento o ingiustizia. «Hai sentito della “badante sexi” che ha irretito il vecchietto?». Uh, ah, oh, eh, ih. «Le migliaia di badanti sfruttate, molestate o violentate?». Noooooooooooooooo, «è impossibile: altrimenti quotidiani-radio-tv ne parlerebbero, ti pare?». Già. La maggior parte dei giornalisti dà un bell’aiuto a far crescere l’Italia cattiva. Si può dire? Lo dico. Al massimo se i miei colleghi si offenderanno – e ‘sti cazzi – mi cancelleranno dall’Ordine dei giornalisti; come suggeriva Totò in un vecchio film: al vostro “ordine (pubblico)” preferisco il mio (personale) disordine.

Insomma siamo andati in piazza. Uscendo (dalla sede di Trama di terre) tutte/i legati con corde, al collo il cartello «clandestino» o «clandestina». Kashif batteva sul tamburo. Un paio di noi al megafono ripetevano «non respingiamo». Eravamo piuttosto visibili. Vicino alla piazza principale abbiamo costruito una sorta di recinto dove chiudere “le bestie”… ogni tanto qualcuna/o ne usciva per leggere una storia. La gente si fermava, discuteva. Un eroe dei nostri tempi ha insultato una bambina straniera per subito dileguarsi.

E’ servito? Noi pensiamo di sì. Continueremo. Come scrive (anzi: come legge, perché è soprattutto un poeta di strada) Alberto Masala:

«viviamo la responsabilità di amare

E non ci manca amore sconfinato

Anche se nessuno ci conforta

Anche se saremo scoloriti di fatica

Ma continuiamo

Ma continuiamo

Ma continuiamo».

Ci opporremo, disobbediremo. Non sarà per agosto o per settembre ma prima o poi riusciremo a buttar giù questo governo merdoso. Il viaggio nelle orecchie chiuse sarà lungo e difficile, il razzismo infetta in profondità … lo sappiamo; però non ci manca la rabbia, l’amore, l’incoscienza e persino l’allegria. «Ma continuiamo…». Umani sull’unica terra che ci è stata data. E su questa strada ci serve Hamid: il poeta (se «Il volo di Mohammed» vi piace… chiamate Hamid a presentarlo, a leggere in piazza) ma anche una persona fiduciosa nell’azione collettiva.. Ho scritto molte volte e lo ripeto: i poeti, gli intellettuali non devono essere lontani dalla gente e dunque anche dal lavoro collettivo, dalla resistenza di ogni giorno, dai piccoli cambiamenti che preparano le grandi rivoluzioni.

Noi nativi sfiduciati possiamo meditare sui versi finali della poesia «La fossa» dove Hamid fotografa così il nostro autismo. «Nell’illusione di scacciare l’invasore / nel rancore di sentirci rifiutati / ciò che ci resta da gustare / è il sapore amaro della nostra solitudine».

Ma questa solitudine, che riguarda anche chi non è nato qui, può essere sconfitta solo insieme, collettivamente. Quel «raggio di sole / che un giorno / esitante illuminerà i loro volti » – come scrive Hamid in «Per i dannati della terra» va sognato, coltivato, costruito insieme. Ora. Nonostante tutto.

PICCOLA NOTA FINALE

Se volete guardare la mia post-fazione a «Il volo di Mohammed» potete andare su questo blog (in data 10 febbraio 2010) ma se volete leggere le bellissime poesie di Hamid e magari la interessantissima prefazione di Gabriele Proglio non vi resta che acquistare il libro (potete farlo anche su www.libertaedizioni.net).

Redazione
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