Donne, migrazioni, guerre, capitale

Silvia Federici a colloquio con George Souvlis e Ankica Čakardić (*)

 

Quest’intervista all’autrice di Calibano e la strega e Il punto zero della rivoluzione (1) viene pubblicata in inglese da Salvage (qui il link) ed è stata condotta da George Souvlis (PhD candidate in History, European University Institute, Firenze) e Ankica Čakardic (Dipartimento di Filosofia, Università di Zagabria)

1. Streghe, casalinghe e capitale

Vuoi parlarci innanzitutto delle esperienze formative (in ambito accademico e politico) che ti hanno maggiormente influenzato?

La prima esperienza formativa della mia vita è stata la seconda guerra mondiale. Sono cresciuta nell’immediato dopoguerra, quando la memoria di un conflitto durato anni, in aggiunta a quella degli anni del fascismo, era ancora molto viva in Italia. In giovanissima età ero già consapevole del fatto d’esser nata in un mondo profondamente diviso, e sanguinario; ero consapevole del fatto che lo stato, lungi dal proteggerci, potrebbe esserci nemico; del fatto che la vita è estremamente precaria e, come dirà poi la canzone di Joan Baez, «there but for fortune go you and I». In questa situazione era difficile non essere politicizzata. Perfino da ragazzina non potevo non sentirmi antifascista, ascoltando tutte le storie che ci raccontavano i miei genitori, e le tirate di mio padre contro il regime fascista. Oltretutto sono cresciuta in una città comunista, dove il primo maggio i lavoratori appuntavano il garofano rosso alla giacca, e ci si svegliava al suono di Bella Ciao; e dove la lotta tra comunisti e fascisti proseguiva, con i fascisti a tentare periodicamente di far saltare per aria il monumento al partigiano e i comunisti ad assaltare per rappresaglia la sede del MSI – Movimento Sociale Italiano – che tutti sapevano essere la continuazione del partito fascista ormai messo al bando.

Compiuti i 18 anni mi vedevo già come una militante coinvolta in lotte che all’epoca erano ancora fondamentalmente quella degli operai in fabbrica e quella antifascista.

Venire negli Stati Uniti è stato poi un momento di svolta importantissimo, anch’esso politicamente formativo. Sono arrivata nell’estate del ’67. Quello dell’Università di Buffalo, dove ho studiato nei tre anni successivi, era un campus estremamente attivo: trovandosi al confine con il Canada era luogo di passaggio per i militanti del movimento contro la guerra che cercavano di sfuggire al reclutamento. All’epoca ci si mobilitava a sostegno dei «Nove di Buffalo» – arrestati mentre cercavano di attraversare il confine – e di Martin Sostre, attivista portoricano molto rispettato all’interno delle comunità nera, che era stato incastrato dai ‘federali’. Ben presto inizio a partecipare alle proteste contro la guerra e studentesche in genere. Inzio a collaborare con Telos e con una rivista underground chiamata The Town Crier. Negli Stati Uniti ho imparato a conoscere il retaggio della schiavitù, del razzismo, dell’imperialismo. Ed è stato negli USA che ho fatto la conoscenza della ‘nuova sinistra’ italiana, l’operaismo e i gruppi extraparlamentari formatisi sulla scia del ’68 in Francia e dell’Autunno Caldo italiano. Sono stata fortemente ispirata dalla lettura che di Marx fa Tronti, per cui prima viene la classe operaia e dopo il capitale, vale a dire il capitale non si evolve secondo una sua logica autonoma, bensì in risposta alla lotta operaia, che è il primo motore del cambiamento sociale. Questa per me è stata una grande lezione: mi ha insegnato a guardare sempre alla lotta, alle contraddizioni sociali come chiavi per comprendere la realtà. L’operaismo mi è servito anche a svolgere una critica del materialismo storico e della politica praticati dai partiti comunisti. Ma ovviamente fu molto importante far la conoscenza del nuovo pensiero politico italiano proprio negli Stati Uniti, dove non avrei mai potuto dimenticare la storia del colonialismo e della schiavitù, la storia dei non-salariati. Questa storia – insieme, ovviamente, alle esperienze di vita fatte in un’Italia del dopoguerra ancora patriarcale – ha modellato il mio approccio al femminismo, che è stato un altro momento davvero rivoluzionario della mia vita. Non parlerò di questo, perché i miei scritti dicono già abbastanza. Parlerò invece di ciò che significò per me, nei primi anni Ottanta, poter trascorrere tutto un periodo ad insegnare in Nigeria: il mio primo incontro con l’Africa sub-sahariana. A quel punto avevo già letto parecchio riguardo al colonialismo, nonché riguardo alle politiche di sviluppo e sottosviluppo, ma la Nigeria è stato per me un altro momento di trasformazione politica, non perché abbia modificato la mia concezione dei rapporti sociali, ma perchè mi ha svelato tutta una realtà che era immensamente diversa da quella conosciuta attraverso i libri. In Nigeria ho imparato a conoscere le relazioni comunitarie, ho capito la persistente importanza della distribuzione della terra, mi sono resa conto che il petrolio è una maledizione per i paesi in cui viene scoperto, ho visto la grande creatività della gente africana. La mia attività di insegnamento dovette concludersi con l’escalation della ‘crisi del debito’ e la repressione politica. Ad ogni buon conto, tornata negli Stati Uniti, ho iniziato a trascorrere sempre più tempo in Messico, e più di recente in altri paesi dell’America Latina, anche a causa della pubblicazione di Calibano e la strega in Messico, Argentina, Ecuador e adesso in Brasile. Cito l’America Latina perché nonostante le difficoltà che le persone – e le donne in particolare – si trovano ad affrontare, a causa delle politiche dell’estrattivismo e della violenza sempre ricorrente (che venga da eserciti, paramilitari, narcotrafficanti, dalla DEA con la sua ‘Guerra alla Droga’), le lotte popolari per mantenere la propria autonomia – o per ricrearla in situazioni di esproprio assoluto – le forme di riproduzione ed auto-governo collettivo messe in atto, rappresentano non un ‘modello’, bensì una fonte di ispirazione che influenza positivamente il mio pensiero e la mia azione politica.

 

Hai avuto a che fare, durante gli anni Settanta, con il gruppo di Lotta Femminista, o comunque con Leopoldina Fortunati, Mariarosa Dalla Costa, Selma James e le altre? Ci puoi illustrare il rapporto tra Lotta Femminista e l’operaismo italiano? A tuo modo di vedere, perché era particolarmente importante per quel gruppo assumere una posizione critica nei confronti del ruolo dello Stato e dei sindacati?

Non ho mai fatto parte di Lotta Femminista. Ero già negli Stati Uniti quando il gruppo si è formato, e le donne italiane con cui ho collaborato nella campagna sul salario per il lavoro domestico avevano rotto con Lotta Femminista, e proprio sulla questione del Salario Alle Casalinghe. Di conseguenza non sono in grado di parlare della relazione tra LF e l’operaismo. Ne hanno parlato sia Mariarosa Dalla Costa che Leopolda Fortunati, perciò rinvio a loro. Quanto a me, ho già detto del mio debito nei confronti dell’operaismo, che ha influenzato il mio approccio al salario per il lavoro domestico. Posso aggiungere che Operai e Capitale di Mario Tronti, oltre ad ascrivere un ruolo centrale alla lotta di classe nel dar forma alle dinamiche del capitale, introdusse il concetto di ‘fabbrica sociale’. Tronti in realtà non usa proprio questo termine, ma sostiene che a un certo punto dello sviluppo capitalistico la fabbrica inizia a rimodellare la società a propria immagine, per le sue esigenze di produttività. Tronti pensava, in particolare, a come la pubblica istruzione fosse stata ristrutturata onde preparare i giovani proletari al lavoro industriale. C’era perciò un’assonanza con la nostra analisi della comunità, del nucleo domestico, della famiglia come centri per la produzione della forza-lavoro, come costruzioni capitalistiche, anziché come eredità di rapporti sociali pre-capitalisti (che era invece all’epoca la concezione dominante anche all’interno del movimento femminista).

 

Ci sembra plausibile tracciare una linea di continuità tra alcune delle tue posizioni e quelle di Paddy Quick, Maria Mies o Wally Secombe. Tutte voi sostenete che nell’analisi materialista dell’oppressione delle donne in ambito capitalistico vadano presi in considerazione svariati aspetti: la divisione sessuale del lavoro, la riproduzione sociale, il controllo del corpo delle donne e della capacità riproduttiva, nonché l’influenza dinamica dei diversi assetti familiari. Tu collochi esplicitamente il tuo lavoro all’interno dell’eredità teorica del dibattito sul lavoro domestico, attingendo alla tesi di Dalla Costa e James per cui lo sfruttamento delle donne nell’ambito della divisione sessuale capitalistica del lavoro ed il lavoro non retribuito svolgono una funzione centrale nel processo di accumulazione. Quali consideri le specifiche «leggi di movimento» capitalistiche, differenti da quelle feudali, e come concepisci il processo storico che ha dato luogo a imperativi sociali distintamente capitalisti?

Anche se tutte le autrici di cui parlate vedono nel processo di riproduzione il fondamento della posizione della donna nella società capitalistica, tra di noi ci sono differenze significative.

Una differenza (ad esempio tra l’analisi svolta nell’ambito della campagna sul salario per il lavoro domestico e l’analisi svolta da Maria Mies) è che noi abbiamo sempre definito il lavoro domestico come una costruzione capitalistica, e in particolare come lavoro il cui scopo sociale è la riproduzione della forza-lavoro. Ho spesso sottolineato che in realtà il lavoro domestico/ riproduttivo ha un doppio carattere: riproduce la nostra vita e allo stesso tempo deve riprodurre la forza-lavoro, ragion per cui è sottoposto a vincoli specifici. Negli scritti di Mies non sempre si trova questa distinzione. Nella sua analisi vi è una certa continuità tra lavoro domestico e riproduzione orientata alla sussistenza nei paesi cosiddetti “sottosviluppati”. Questo è in parte corretto. Esiste tuttavia una differenza tra il lavoro riproduttivo/domestico in condizioni in cui le donne hanno accesso alla terra o ad altre forme di riproduzione, come ad esempio in parecchie comunità indigene, da un lato; e il lavoro domestico non remunerato e dipendente da un salario (per lo più maschile), dall’altro. Ad ogni buon conto, concordo largamente con il pensiero di Mies e trovo importante che abbia saputo ampliare il concetto di ‘riproduzione’ includendovi il lavoro agricolo svolto in buona parte del cosiddetto Terzo Mondo.

La distinzione tra sistema feudale e sistema capitalistico è incentrata sulla radicale espropriazione a cui i lavoratori sono soggetti in ambito capitalista, e sulla loro separazione dai mezzi di riproduzione. Questo è il motore dello sviluppo capitalistico e dell’intenso sfruttamento del lavoro. Come ho sottolineato in Calibano e la strega, il capitalismo è il primo sistema di sfruttamento che vede nel lavoro, anziché nella terra, la principale forma di ricchezza. Per questo motivo si è sviluppata una nuova politica rispetto alla disciplina del corpo, e specialmente il corpo delle donne, e si è affinata la gestione della riproduzione, a cominciare dalla procreazione. Il capitalismo deve controllare il lavoro riproduttivo in quanto aspetto centrale del processo di accumulazione, così che possa funzionare come riproduzione della forza-lavoro, cioè della nostra capacità di lavorare, anziché (ad esempio) come riproduzione della nostra lotta.

 

In Calibano e la strega si fa riferimento al saggio di Robert Brenner Le radici agrarie del capitalismo europeo (2): qual è la tua opinione riguardo alla scuola del ‘Political Marxism’ e alle loro argomentazioni in merito alla “Grande Transizione”?

In questo momento non ricordo tutti quanti i ragionamenti svolti da Brenner e dal ‘Political Marxism’. Concordo con loro riguardo all’enfasi posta sulla trasformazione dei rapporti di produzione agrari in Europa quale passaggio cruciale per lo sviluppo del capitalismo, sebbene la formazione di un mercato agrario e terriero sia stata resa possibile anche dal fiume d’argento arrivato in Europa in seguito alla conquista di vaste regioni del Sud America. A questa scuola muovo però la stessa critica che rivolgo all’approccio di Marx: ignorano il ruolo che la ristrutturazione del lavoro riproduttivo ha giocato nel ‘decollo’ del capitalismo. Vedono correttamente nella separazione dei contadini dalla terra una condizione essenziale per l’esistenza di rapporti capitalistici, ma hanno ignorato la separazione della produzione dalla riproduzione, la svalutazione del lavoro riproduttivo, confinato ad una sfera economica apparentemente non-economica, e la conseguente svalutazione della posizione delle donne, che con il passaggio al capitalismo sono destinate a diventare i principali soggetti di tale lavoro. Come Marx, Brenner e la scuola del ‘Political Marxism’ ignorano la caccia alle streghe dei secoli XVI e XVII nella loro analisi dell’impatto dello sviluppo capitalistico sui rapporti sociali agrari, e credo si tratti di un errore assai rilevante.

 

La campagna per il «salario alle casalinghe» ha fatto compiere un salto epistemologico in avanti tanto alla teoria femminista che a quella marxista, puntando il dito sulla dialettica di mercato e nucleo domestico. Ritieni possibile accumulare surplus o stabilizzare il mercato senza l’appropriazione del lavoro domestico non retribuito delle donne? Quali sono le differenze e le somiglianze tra il dibattito sul «salario alle casalinghe»/lavoro domestico da un lato, e la teoria femminista “unitaria” (nella linea di pensero di Lise Vogel, Sue Ferguson, Cinzia Arruzza, etc.) dall’altro, in merito all’interpretazione del rapporto tra capitalismo e patriarcato?

[Riguardo alla prima domanda:] No, non credo sia possibile, perché il lavoro non retribuito delle donne, che continua tuttora, è la condizione per la svalutazione della forza-lavoro. Senza questo lavoro, la classe capitalista avrebbe dovuto fare un investimento importante su tutte le infrastrutture necessarie a riprodurre la forza-lavoro, e il tasso di accumulazione ne avrebbe risentito seriamente. C’è poi un aspetto politico della svalutazione e conseguente naturalizzazione del lavoro riproduttivo. Essa ha costituito la base materiale per una gerarchia del lavoro che divide le donne dagli uomini, consentendo al capitale di controllare in modo più efficace lo sfruttamento del lavoro femminile proprio attraverso il matrimonio e la relazione coniugale, ivi compresa l’ideologia dell’amore romantico, e per pacificare gli uomini dando loro una serva su cui esercitare potere.

Non ho letto Ferguson e Arruzza; per quanto riguarda Lise Vogel, alcune delle idee principali alla base della sua teoria provengono dagli scritti di Dalla Costa e James, che avevano già fornito una teoria unitaria spiegando il rimodellarsi del patriarcato nel capitalismo a partire dalla definizione della funzione sociale delle donne come ri/produzione non retribuita della forza-lavoro. Dove Dalla Costa e me stessa siamo distanti da Vogel è nella visione del socialismo come sistema liberatorio. Marx e la tradizione marxista-socialista hanno una visione ottimistica dello sviluppo capitalistico, che creerebbe le condizioni necessarie per una società senza sfruttamento.

In questo momento mi trovo in Messico, dopo aver viaggiato negli ultimi mesi attraverso diversi paesi dell’America Latina, e dovunque mi sono trovata davanti comunità minacciate di distruzione per mano delle società minerarie e delle aziende di agribusiness che sono oggi i settori trainanti dello sviluppo capitalistico. Parlando del mio lavoro, e del mio punto di vista, posso dire che ho imparato da Marx e che continuo a utilizzare il suo lavoro, ma che oggi rispetto a Vogel mi interessa meno costruire una ‘teoria unitaria’; a meno che i marxisti di oggi non siano pronti ad abbandonare quel pregiudizio sviluppista che finora è stato parte essenziale della loro teoria e della loro politica. Dalle zone rurali alle favelas urbane – in un mondo in cui la favelizzazione è un fenomeno in crescita – lo sviluppo capitalistico è morte… e la sfida di oggi è quella di costruire un’alternativa.

 

2. Dal pensiero della guerra fredda al femminismo integrato (passando per l’America Latina)

In un libro che hai curato, Enduring Western Civilization, fai tua la tesi per cui il Canone Occidentale si sarebbe formato di pari passo all’esclusione dell’ “altro” inteso in senso sessuale, di genere, etnico, religioso e “razziale”. Un processo strettamente collegato alla formazione delle categorie analitiche occidentalizzate attraverso le quali noi percepiamo il mondo, che ha influenzato anche le scienze sociali ed i concetti che esse utilizzano al fine di comprendere la realtà sociale. Vivek Chibber – con l’obiettivo di decostruire proprio quella Teoria Postcoloniale che ha articolato critiche radicali del Canone Occidentale – nel suo ultimo libro Postcolonial Theory and the Specter of Capital avanza una energica difesa di quegli approcci teorici che enfatizzano categorie universali come ‘capitalismo’ e ‘classe’. Chibber, in altre parole, argomenta in favore di una permanente rilevanza del marxismo, contro alcuni dei suoi critici più radicali. Cosa pensi di questa linea argomentativa e di tutta la questione dell’uso di categorie universali per svolgere la critica del capitalismo ? Si può trovare un equilibrio tra critica dell’Occidente e utilizzo di un repertorio di concetti che nascono proprio in Occidente, oppure le due cose si escludono a vicenda?

Non mi va di commentare testi che non ho letto o non consulto da tempo. Pertanto mi limito a qualche considerazione in merito al concetto di “Occidente” e all’ipotizzata necessità di categorie universali. Come ho, insieme ad altri, mostrato in Enduring Western Civilization, i concetti di Occidente e Occidentale sono prodotti della Guerra Fredda: in seguito alla rivoluzione bolscevica, ‘occidentale’ è divenuto sinonimo di capitalista, tecnologicamente sviluppato, innovativo eccetera, laddove il comunismo è stato “razzializzato”, raffigurato come ‘asiatico’, visto come arretrato e incapace di sviluppo. Per questo motivo io non utilizzo mai il termine ‘occidentale’, che cela oltretutto i rapporti di classe, occultando le relazioni sociali antagonistiche all’interno di Europa e Stati Uniti – il cosiddetto Occidente – e analogamente i rapporti di classe / antagonistici all’interno dell’Africa e dell’America Latina. Occidente e Occidentale sono termini politici, indifendibili nel loro contenuto, che servono a rappresentare una politica globale formata da mondi diametralmente opposti, all’interno dei quali non esistono divisioni né gerarchie, e dove s’immagina prevalga l’interesse comune.

Per quanto riguarda le categorie universali, posso dire che evidentemente abbiamo bisogno di un certo livello di astrazione nelle nostre analisi, ma non possiamo comprendere il capitalismo e la storia dell’economia globale se non lo guardiamo dal punto di vista di soggetti differenti. In una società che è il risultato di secoli di costruzione di gerarchie attraverso esperienze estremamente diverse fra loro, l’idea di un punto di vista universale è fallimentare. Il capitalismo non può essere compreso nella sua totalità se non lo si affronta dal punto di vista degli schiavi, dei colonizzati, così come dal punto di vista dei lavoratori dell’industria, dal punto di vista delle donne proletarie, così come degli uomini proletari, e direi anche dal punto di vista dei bambini e, naturalmente, da un punto di vista ecologico.

 

Cosa pensi dell’attuale situazione dei profughi e della nuova ondata del nazionalismo e dell’ideologia nazionale cui stiamo assistendo in Europa e in altre parti del mondo? Come possiamo combattere contro queste tendenze?

È impossibile esprimere in poche parole il dolore e l’indignazione che sento nel vedere ciò che i governi e tante persone in Europa stanno facendo ai profughi delle guerre che gli stessi governi hanno finanziato. È spaventoso vedere che anno dopo anno, quasi ogni settimana, barche che trasportano i profughi fanno naufragio nel Mediterraneo e centinaia e centinaia di persone perdono la vita, tanto che il Mediterraneo è oggi un grande cimitero; e questo sta accadendo davanti agli occhi di tutti, non dentro invisibili campi di concentramento; per non parlare dei “centri di accoglienza”, che sono carceri in cui chi è privo di documenti viene gettato e trattenuto, per periodi indefiniti e in condizioni miserevoli.

Ovviamente è una sciagura che la risposta a tutto ciò di tanti, anche tra i lavoratori, non sia la solidarietà, ma il rifiuto, la persecuzione, le posture nazionalistiche. È particolarmente preoccupante in quanto si tratta spesso di una guerra tra poveri, dacché spesso quanti vogliono innalzare barriere sono le stesse persone che lottano per sopravvivere, immaginando di potersi difendere non attraverso la solidarietà con i profughi, ma attraverso una politica di esclusione. Vorrei aggiungere però che abbiamo bisogno di saperne di più, in merito al neonazista che aggredisce i profughi: ad esempio in Germania ci sono prove di complicità da parte di autorità e polizia, al punto che possiamo pensare all’impennata neonazista come a uno strumento di controllo dei profughi, che possono tornare utili come forza lavoro a basso costo, ma solo nella misura in cui accettano di restare in fondo alla scala sociale.

 

Di recente ci sono stati sviluppi politici interessanti nel mondo occidentale, come la candidatura di Bernie Sanders per il Partito Democratico, l’elezione di Jeremy Corbyn a leader del partito laburista, la vittoria di Syriza nelle elezioni in Grecia e l’ascesa di Podemos in Spagna. C’è qualche speranza che questi sviluppi portino a una significativa trasformazione sociale? La sinistra di oggi deve organizzarsi intorno alla strategia di “occupare” le funzioni sociali dello Stato, ovvero auto-organizzarsi in chiave spontaneista (ad esempio nella lotta per i beni comuni), al di fuori della politica dei partiti?

Non è facile rispondere a questa domanda. Abbiamo di recente saputo – e la cosa ha sorpreso parecchio i più – che gli zapatisti intendono partecipare alle elezioni presidenziali del 2018 attraverso la candidatura di una donna indigena. Non è che abbiano cambiato il loro orientamento politico: ma a quanto pare sono talmente assediati che in questo modo cercano di spezzare l’accerchiamento e di rendere consapevoli settori più ampi della popolazione in merito al massiccio, violento attacco che stanno sperimentando nel periodo successivo alla morte di Galeano. Detto questo, è evidente che i governi di sinistra e tutta la politica del progressismo, in Europa come in America Latina, sono in crisi. Pochi si sono mobilitati in Brasile per esigere la reintegrazione di Dilma Rousseff, nonostante molti condannassero il suo impeachment vedendovi una mossa fraudolenta, quasi un colpo di stato. Il bilancio dei governi progressisti ci dice che nel migliore dei casi hanno alleviato alcune delle forme più estreme di povertà, ma non hanno aggredito il nodo della produzione, non hanno attuato la riforma reclamata dai movimenti sociali che li hanno portati al potere, non hanno frenato la violenza dell’esercito e della polizia. Forse un discorso diverso si può fare per il chavismo, in quanto maggiormente rispettoso delle forze popolari: anch’esso però si è basato sull’estrattivismo, che ha reso il paese dipendente dagli alti e bassi del mercato globale. E che dire di Bernie Sanders, che passa mesi e mesi a spiegare perché i suoi seguaci non debbono votare per Clinton, e finisce col dire che non c’è alternativa al votarla? Una vera lezione di cinismo.

Io non definisco la politica dei beni comuni “spontaneista”. Ci sono al mondo assetti comunitaristi con centinaia di anni di storia alle spalle. E non c’è chissà quanto spontaneismo nella difesa dei beni comuni in diverse parti del mondo, allorché si tratta di affrontare la violenza di paramilitari ed eserciti, nonché delle guardie giurate delle aziende. Chiaramente non bisogna essere dogmatici, in merito. A livello locale è spesso possibile esercitare una certa influenza sui governi. Vediamo però che i centri in cui vengono prese le decisioni diventano sempre più lontani, sempre più fuori dalla portata della gente. Assistiamo altresì alla formazione di una struttura di potere internazionale che si sostituisce costantemente al potere dello stato nazionale, come è nel caso dell’UE.

Con la costante interferenza del FMI e della Banca Mondiale nella politica statuale, con particolare, ma non esclusivo, riferimento al ‘terzo mondo’, vediamo un proliferare di “accordi di libero scambio” – come il TTP(3) o il TTIP (fortunatamente non ancora firmato) – volti a stabilire il dominio diretto del capitale sull’economia globale, in modo che nessuna decisione a livello economico possa esser presa senza l’approvazione delle grandi imprese, e la sovranità nazionale venga del tutto meno. In tali condizioni come si potrebbe essere ottimisti riguardo a eventuali governi di sinistra o radicali?

 

Un’ondata di cambiamento ha attraversato l’America Latina all’inizio del XXI secolo, spazzando via i bipartitismi neoliberisti, in nome della rifondazione dello stato sulla base di un’ampia partecipazione e di costituzioni democraticamente elaborate. Aspetto cruciale di queste nuove realtà politiche progressiste sono i nuovi movimenti sociali, che esigono tanto i diritti socio-politici che quelli economici. E tuttavia tra i due aspetti della rivendicazione popolare sono emerse contraddizioni, il più delle volte a motivo del modello di sviluppo seguito dai nuovi governi. Più precisamente, la maggior parte dei leader degli stati in oggetto, in particolare Correa in Ecuador e Morales in Bolivia, hanno espresso preoccupazione per la “Pachamama” (Madre Terra) e adottato il linguaggio del “Socialismo del XXI secolo” promosso dal presidente venezuelano Chávez e dal suo successore, Nicolas Maduro; in pratica però le rivendicazioni espresse dai movimenti sono state disattese, ad esempio attraverso la privatizzazione delle risorse naturali. Credi che queste tensioni possano essere risolte in modo tale da promuovere gli interessi delle classi lavoratrici in America Latina?

In Ecuador sono stata lo scorso aprile e ha avuto parecchi incontri con gruppi ecologisti e di donne, che mi hanno parlato con voce unanime: perché, si chiedono, la sinistra in Europa e negli Stati Uniti parla di Correa come un radicale, quando la sua politica è pienamente in linea con il neoliberismo? Perché mai, dato che, più di ogni precedente governo, quello di Correa è partito all’attacco della terra delle popolazioni indigene e mostra quotidianamente nelle sue scelte politiche il più completo disprezzo per le donne? Dopo esser stato portato al potere dal movimento delle popolazioni indigene, Correa ha introdotto nella costituzione del paese il principio che anche la natura ha i suoi diritti, e a tutta prima sembrava deciso a non sfruttare oltremodo le sue risorse petrolifere; ma da allora ha cambiato idea, ora sta promuovendo gli investimenti esteri e le perforazioni nel parco del Yasuni. Non sorprende perciò che si sia più volte scontrato con le stesse popolazioni indigene che una volta lo sostenevano, e che il suo governo sia ampiamente criticato per lo sprezzo mostrato nei confronti dei movimenti dal basso, l’autoritarismo e il sostegno al potere delle corporations. Anche Evo Morales parla di Pachamama quando è in viaggio all’estero, ma persegue una analoga politica estrattivista, che oltre a distruggere terre, foreste, fiumi, sta creando una forma di colonialismo interno. Questo non vuol dire che non ci sono gruppi di lavoratori che possono sostenere la sua politica, dacché estrattivismo significa salario per alcuni, sebbene al prezzo della distruzione dei mezzi di sostentamento di molti, così come in diverse comunità ci sono giovani lavoratori che approvano il fracking.

Devo dire che vi è un ampio divario tra come questi governi vengono visti da teorici radicali latino-americani come Luis Tapia, Raul Zibechi, Raquel Gutierrez, Silvia Rivera Cusicanqui e molti altri, da un lato; e l’immagine che tanti, a sinistra, se ne fanno negli Stati Uniti e in Europa, dall’altro.

 

Cosa ci dici in merito alle elezioni USA? Cosa pensi delle posizioni politiche di Hilary Clinton riguardo le donne? Lei ama presentarsi come “femminista” e appassionata paladina dei diritti delle donne..

Le elezioni USA sono un triste spettacolo, le cui pericolose conseguenze sono già evidenti, se è vero che decine di gruppi di suprematisti bianchi sono emersi in superficie sentendosi legittimati dai pronunciamenti di Trump.

È demoralizzante vedere settori della classe operaia statunitense andar dietro a uno come Trump. Ma ovviamente Clinton – con i suoi legami con Wall Street, la CIA, la macchina bellica – non è un’alternativa. E può recitare la parte della femminista solo perché dopo gli anni ’70 il femminismo è stato istituzionalizzato, in modo che le donne potessero essere integrate nell’economia globale come manodopera a basso costo.

Traduzione di Angelo Foscari
NOTE
(1) Edizioni originali: Caliban and the Witch: Women, the Body and Primitive Accumulation (2004), e Revolution at Point Zero: Housework, Reproduction, and Feminist Struggle (2012).
(2) In Il dibattito Brenner. Agricoltura e sviluppo economico nell’Europa preindustriale, Einaudi, 1997 (traduzione italiana di M. Zernitz).
(3) L’intervista si è svolta immediatamente prima delle elezioni USA, e dunque precede di un paio di mesi il ritiro degli USA dal TTP [N.d.R.]

(*) testo ripreso da www.sinistrainrete. In italiano «Calibano e la strega» e «Il punto zero della rivoluzione» sono pubblicati rispettivamente da Mimesis e da Ombre Corte; qui sopra ho aggiunto le copertine. [db]

 

 


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