Dossier FS 18 – La Mappa del Futuro 5

5. Lo tsunami postcyberpunk degli anni ‘90
(autore: Giovanni De Matteo)

Negli anni ’90 il panorama si fa più fluido rispetto al decennio precedente. In un articolo apparso su Interzone nel 1991, “Cyberpunk in the Nineties”, Bruce Sterling decreta la fine del cyberpunk e subito si assiste a una nuova esplosione creativa, che ha come protagonisti autori di estrazione diversissima: non solo nuove leve, come si potrebbe facilmente supporre, ma anche veterani e reduci del movimento degli anni ’80.


Una figura di continuità tra il cyberpunk e la new space opera è rappresentata da Kim Stanley Robinson, voce personalissima e talento sfaccettato, capace di pronunciarsi con autorevolezza nei più svariati filoni del genere e sempre con risultati di primissimo rilievo, benché l’editoria italiana non gli abbia mai riconosciuto l’attenzione e la cura che la sua opera avrebbe meritato. Dal triplice esordio nel 1984 (anno di pubblicazione di ben due romanzi, nonché della sua tesi di dottorato in letteratura inglese, dedicata ai romanzi di Dick), Robinson ha spaziato dalla distopia all’hard sci-fi, dall’ucronia al catastrofismo. Icehenge (1984, trad. Gianluigi Zuddas, Nord, 1986) è un mystery di ambientazione spaziale che si svolge in tre diversi periodi, con tre voci narranti a coprire un arco temporale di quasi quattro secoli: politica, archeologia ed esplorazione spaziale danzano intorno al fulcro immobile del romanzo, l’enigma di una Stonehenge extraterrestre scolpita nel ghiaccio presso il polo nord di Plutone. Sempre nel 1984 esce La Costa dei Barbari (The Wild Shore, trad. G.L. Staffilano, Interno Giallo, 1990), primo tassello di un’ambiziosa trilogia conosciuta come delle Tre Californie, in cui Robinson s’impegna nell’affresco di tre versioni alternative del futuro di Orange County. Gli altri due titoli sono Costa delle Palme (The Gold Coast, 1988, trad. Grazia Alineri, ed. Interno Giallo/Mondadori, 1994) e Pacific Edge (1990, rimasto inedito in Italia), e attraverso il trittico Robinson svolge una riflessione sulla costruzione di una società ecosostenibile attraverso la ricerca di un equilibrio tra sviluppo tecnologico e rispetto dell’ambiente. Il primo libro presenta un’America regredita a una nebulosa di comunità rurali a seguito degli effetti devastanti di un olocausto nucleare; il secondo ci conduce in una California ipertecnologica, esposta ai colpi del conflitto tra fabbricanti d’armi e terroristi; il terzo ci mostra infine un’utopia ambientalista, minacciata dalla corruzione che si annida dietro un progetto di speculazione edilizia.
La trilogia di Orange County anticipa temi che verranno sviscerati da Robinson nell’acclamata trilogia di Marte: Il rosso di Marte (Red Mars, 1993, trad. Maurizio Carità, ed. Mondadori, 1995), seguito dagli inediti in Italia Green Mars (1995) e Blue Mars (1996), tratteggia l’epopea della colonizzazione e terraformazione del pianeta rosso e il difficile cammino verso un’utopia assediata delle corporazioni transnazionali, attirate dalle sue risorse minerarie.
Al di là dell’orbita di Marte è situata la Solitaire Station dell’omonimo romanzo breve di Lucius Shepard (Barnacle Bill, the Spacer, 1992, trad. Anna Monaldi, Delos Books, 2006), dove vengono assemblate e lanciate le navi-luce a caccia di pianeti vergini, per garantire un futuro a un’umanità ormai in fuga dalla Terra devastata dall’inquinamento. Qui vive Bill lo scocciatore, un ritardato perseguitato da tutti ma destinato a riscattarsi con un gesto clamoroso che non verrà compreso se non dopo averlo messo seriamente in pericolo di vita. Ancora il tema della diversità viene esplorato dall’inglese Richard Calder nella sua “Dead” Trilogy, inaugurata da Virus Ginoide (Dead Girls, 1992, trad. Fabio Zucchella, Nord, 1996) e proseguita con gli inediti da noi Dead Boys (1994) e Dead Things (1996), che ci proietta nel 2071, dopo che un contagio virale trasmesso per via sessuale ha infettato strati sempre più vasti della popolazione maschile e gli effetti si sono ripercossi sulla loro prole femminile. Le ragazze nate da genitori infetti, all’ingresso nella pubertà, sperimentano la metamorfosi in bambole ginoidi, chiamate Lilim. Mercificazione della natura femminile, espropriazione dell’identità sessuale e conflitto tra finzione e autenticità sono i temi portanti dell’opera di Calder, tra i più apprezzati autori della marea postcyberpunk.
Ne La parabola del seminatore (Parable of the Sower, 1993, trad. Anna Polo, Fanucci, 2006) Octavia E. Butler presenta un mondo di enclave e di forti disparità. Scritto in forma di diario, il romanzo racconta le vicissitudini di una ragazza iperempatica, costretta a farsi carico del dolore sperimentato dalle persone che la circondano, attraverso una California ormai in rovina. E dipinge l’incubo di un particolarismo talmente spinto da degenerare in feudalesimo e schiavitù, un tema caro all’autrice prematuramente scomparsa nel 2006. Sempre a proposito del collasso dell’America, in Angeli di seta (China Mountain Zhang, 1992, trad. Anna Martini, Fanucci, 2002), vincitore dei premi Lambda, James Tiptree Jr e Locus, Maureen F. McHugh racconta la storia di formazione di Rafael Zhang Zhongshan, un “sangue misto” in un mondo dominato dalla Cina e da una morale omofoba. A partire dalla novella Mendicanti in Spagna (Beggars in Spain, 1991, trad. Viviana Viviani, Delos Books, 2005), vincitrice dei premi Hugo e Nebula, anche Nancy Kress si confronta in un trittico di romanzi con il tema della difficoltà d’integrazione, in questo caso tra un’elite di mutanti dalle superiori facoltà psichiche, che non hanno bisogno di dormire e pertanto vengono definiti Insonni, e il resto dell’umanità, che per gli Insonni più sprezzanti si compone solo di Mendicanti.
In anni ancora pervasi dall’euforia cyberpunk, Vernor Vinge conia il concetto di Singolarità Tecnologica (un punto di non ritorno nel progresso, oltre il quale la velocità delle innovazioni vanifica qualsiasi tentativo di estrapolazione) nell’articolo “The Coming Technological Singularity: How to Survive in the Post-Human Era” (1993) e propone con Universo Incostante (A Fire Upon the Deep, 1992, trad. Gianluigi Zuddas, Nord, 2003) un’epopea fantascientifica che abbraccia uno scenario futuro da capogiro, in cui razze aliene interagiscono con derive evolutive dell’umanità e il “vecchio uomo” è solo un ricordo perso tra le nebbie della confusione pre-Singolarità. Riesumando le intuizioni di Delany, con altrettanto vigore di quanto prima di lui aveva fatto Sterling, Vinge dipinge un affresco visionario, un capolavoro di speculazione e trasfigurazione che apre un nuovo promettente filone a cui attingeranno a piene mani gli orfani del cyberpunk: il cosiddetto postumanismo (per una trattazione più esaustiva rimando al mio articolo “Il Postumanesimo, sulla frontiera della fantascienza”, pubblicato in tre parti su Delos SF n. 108 nel 2008: http://www.fantascienza.com/magazine/speciali/11249/il-postumanesimo-sulla-frontiera-della-fantascien/ – http://www.fantascienza.com/magazine/speciali/11250/il-postumanesimo-sulla-frontiera-della-fantascien/ – http://www.fantascienza.com/magazine/speciali/11251/il-postumanesimo-sulla-frontiera-della-fantascien/).
Vinge farà una nuova incursione nell’universo incostante con A Deepness in the Sky (Quando la luce tornerà, 1999, sempre per i tipi Nord), ambientato 12.000 anni nel passato del primo romanzo. Entrambi sono stati insigniti del Premio Hugo. Nel 2011 è uscito il seguito diretto di Universo Incostante, Children of the Sky (in Italia ancora inedito).
Un passo indietro… Cosa fanno i padri del cyberpunk, adesso che il cyberpunk è morto? Nel 1991, per cominciare, esce La macchina della realtà (The Difference Engine, trad. Delio Zinoni, Mondadori, 2001), romanzo scritto a quattro mani da William Gibson e Bruce Sterling. Ambientata in una Londra vittoriana alternativa che risente dei benefici di una rivoluzione informatica anticipata, è considerata l’opera che ha definitivamente contribuito all’affermazione dello steampunk, oggi tornato tanto di moda. Gibson si cimenta poi in una nuova serie, nota come la trilogia del Ponte, incentrata su temi di attualità come la globalizzazione, l’ambientalismo, la società dell’informazione, e formata da Luce virtuale (Virtual Light, 1993, trad. Delio Zinoni, Mondadori, 2008), Aidoru (Idoru, 1996, trad. Delio Zinoni, Mondadori, 2002) e American Acropolis (All Tomorrow’s Parties, 2000, trad. Daniele Brolli, Mondadori, 2002). Dopo alti e bassi sul fronte dei romanzi, Sterling confeziona nel 1999 quella che forse è la sua antologia migliore fino ad oggi: Un futuro all’antica (A Good Old-fashioned Future, 1999, trad. Giorgia Gatta, ultima ed.: Mondadori, 2007), sette racconti in presa diretta dal fronte del cambiamento che attraversa il decennio.
A proposito di steampunk, La Trilogia Steampunk di Paul Di Filippo (The Steampunk Trilogy, 1995, trad. Salvatore Proietti, ultima ed.: Delos Books, 2011) è una scanzonata sintesi dell’esperienza radicale del cyberpunk con le suggestioni della storia alternativa e le tentazioni del pastiche. Elementi che in questo trittico di romanzi brevi diventano gli ingranaggi di una bomba a orologeria. Di Filippo riprende miti di Cthulhu e convinzioni pre-evoluzioniste in odore di oscurantismo e si diverte a rimescolarli con schegge di poesia pre e post-beatnik. Il risultato è un tour de force inventivo in un’epoca vittoriana immaginaria, dove le locomotive viaggiano grazie al vapore sprigionato da noccioli di uranio e sull’impero britannico vigila una regina anfibia e ninfomane.
Scrittore come Di Filippo molto raffinato sotto il profilo letterario e interessato alla science fiction anche come spazio per una possibile sperimentazione stilistica, e come Robinson ingiustamente trascurato dall’editoria italiana, negli anni il nordirlandese Ian McDonald è approdato sui nostri scaffali solo con una manciata di racconti e una minima parte dei suoi romanzi, per l’esattezza tre: Necroville (1994, trad. Bernardo Cicchetti, Fanucci, 1996), toccante intreccio di storie in un mondo pervaso dalla nanotecnologia, che ha reso possibili miracoli come la resurrezione dei morti, ma l’incubo è sempre in agguato; Forbici vince carta vince pietra (Scissors Cut Paper Wrap Stone, 1994, trad. Antonio Caronia, Einaudi, 1997), un pellegrinaggio cyberpunk in un Giappone del futuro intriso di meraviglie tecnologiche; I confini dell’evoluzione (Evolution’s Shore, 1995, trad. Anna Polo, Fanucci, 2003), su un’inedita contaminazione aliena dell’ecosistema terrestre.
Nel 1995 esce l’antologia personale di uno schivo programmatore australiano che fa dell’estrapolazione scientifica il suo asso nella manica. Axiomatic (trad. Riccardo Valla, Mondadori, Urania, 2003) raccoglie diciotto dei migliori racconti del più brillante esponente contemporaneo dell’hard sci-fi. Greg Egan ha la capacità unica di prendere una teoria matematica, una scoperta scientifica, una possibilità tecnologica e riuscire a svilupparla fino alle sue più estreme conseguenze, e in questi racconti la forza delle idee colpisce duro, meravigliando il lettore per la lucidità della loro esplorazione. Paradossalmente, se da un lato Egan appare solitamente – ma con le dovute eccezioni – poco interessato alla psicologia umana, è anche vero che riesce a dare il meglio di sé quando prende in esame intelletti superiori, come l’intelligenza artificiale di Singleton (2002, trad. Fabio Feminò, in Lo scudo di Marte, Mondadori, Urania Millemondi, 2006), storia di Helen, la prima IA costruita su un processore quantistico, forse l’unica entità dell’universo svincolata dalla natura probabilistica della realtà e per questo provvista di libero arbitrio. Un bel paradosso per i suoi “genitori”, impegnati in una durissima lotta per difenderla dai pericoli del mondo.
I romanzi di Egan tendono a esplorare un’umanità sempre più remota nel futuro, alle prese con interrogativi che investono i segreti dell’universo, della vita e della coscienza: Permutation City (1994, trad. Giancarlo Carlotti, Shake, 1998), Teranesia (1999, trad. Roldano Romanelli, Fanucci, 2001), Distress (1995, trad. Riccardo Valla, Urania, 2002), Diaspora (1997, trad. Riccardo Valla, Urania, 2003), La scala di Schild (Schild’s Ladder, 2002, trad. Riccardo Valla, Urania, 2004). In Oceanic, romanzo breve del 1998 vincitore dei premi Hugo e Locus (trad. Viviana Viviani, Delos Books, 2006), Egan ci porta su Covenant, un pianeta colonizzato da un’umanità avanzatissima e adesso divisa su base etnica tra i Terricoli stanziati sulla terraferma e gli Acqualiberi che invece scorrazzano sui suoi immensi oceani, come pure su base religiosa tra Chiesa Profonda e Chiesa Transizionale. In questo scenario si consuma la ricerca della verità da parte di Martin: una verità sulle origini della sua specie, ma anche sulle basi del culto più potente di Covenant. Ecopoiesi, esobiologia e misticismo sono le direttrici lungo le quali Egan svolge una delle sue opere più ambiziose, uno sconvolgente trattato sulla necessità umana del sovrannaturale che si risolve nella rivelazione di una “trascendenza biochimica”.
Restiamo in ambito marino con un’altra trilogia, purtroppo come quelle di Robinson e di Calder giunta incompleta sulle nostre spiagge. Nella serie dei Rifters, composta da Stelle di mare (Starfish, 1999, trad. Elisa Villa, Fanucci, 2001) e dagli inediti in Italia Maelstrom (2001) e βehemoth (2004), il biologo marino canadese Peter Watts ci porta a scoprire i suoi uomini futuri modificati dalla tecnologia per adattarsi alla vita subacquea, in un saggio sull’adattamento, la solitudine, il dolore e l’alienazione.
L’ingegneria genetica fornisce a Michael Marshall Smith lo spunto per Ricambi (Spares, 1996, trad. Gianni Pannofino, Garzanti, 2004), che prende le mosse da un tema d’attualità come la clonazione per sviluppare un noir crudo e visionario. In un mondo da incubo, dove le Fattorie sono serbatoi di organi di ricambio per i potenti e i MegaMall commerciali solcano mastodontici i cieli del mondo, ecco Jack Randall vestire i panni del fuggitivo. Era un tossico, Randall, e ora è un idealista. È stato anche uno sbirro, corrotto per dirla tutta, nonché soldato in una guerra impossibile combattuta contro le truppe invisibili di un mondo parallelo: il Gap, un’intersezione di stati d’animo elementari e istinti primari, la sovrapposizione di “tutti i luoghi in cui non si è, di tutti i panorami che nessuno vede”. Un posto per niente adatto agli uomini, che lui non è ancora riuscito a mettersi alle spalle
Sulla stessa falsariga si muove Concerto per archi e canguro (Gun, with Occasional Music, 1994, trad. Gianni Pannofino, Tropea, 2002), romanzo d’esordio di Jonathan Lethem, che fonde in un mix distopico postmoderno la fantascienza di Philip K. Dick e l’hard-boiled di Chandler e Hammett. Il suo protagonista è un investigatore privato alle prese con un’indagine scomoda nei bassifondi della Bay Area, tra canguri-sicari intellettualmente arricchiti che prestano servizio per la mala, stupefacenti che donano l’oblio e forme di controllo sociale basate sul karma.
Una consonanza con il romanzo di Smith la si trova anche in Noir (1998, trad. Anna Martini, Fanucci, 2000) di K.W. Jeter: nichilismo e perversioni vanno in onda per le strade del Gloss, avveniristica megalopoli transcontinentale che circonda il Pacifico. Il potere è saldamente nelle mani di pochi gruppi economico-finanziari che offrono servizi per tutte le tasche e se qualcuno muore prima di aver saldato i propri debiti, viene riportato in vita artificialmente e costretto a ripagarsi la libertà (leggi: il diritto alla pace eterna). La lotta per la sopravvivenza è spietata, ma una minaccia ancora peggiore sembra emergere all’improvviso dal Cuneo, regione segnata da una tragica guerra e da anni abbandonata a se stessa…
Se credete che questo mondo sia brutto, dovreste provare K.W. Jeter.
Una società di sole donne è quella delineata dall’inglese Nicola Griffith per il pianeta Jeep, che fa da sfondo alla storia di Ammonite (1992, trad. Riccardo Gramantieri, Perseo, 2007), premio Lambda e premio James Tiptree Jr. Un’antropologa deve sottoporsi a un doloroso processo di immunizzazione biologica per indagare i misteri del pianeta colonizzato da una spedizione che, a causa di un virus sconosciuto, ha visto sopravvivere solo le donne dell’equipaggio originario. Per certi aspetti, richiama Ammonite la novella Il linguaggio segreto di Ruth Nestvold (Looking Through Lace, 2003, trad. Stefano Bertone, Delos Books, 2006), delicato racconto di una xenolinguista che approda sul pianeta Kailazh per studiare l’enigma di una civiltà aliena dalle relazioni rigidamente codificate tra i sessi, al punto da sviluppare una lingua riservata alle sole donne.
Concludiamo la panoramica degli anni ‘90 con uno dei numi tutelari, figura di riferimento e vera maestra, del genere. Ursula K. Le Guin, con il romanzo La salvezza di Aka (The Telling, 2000, trad. Piero Anselmi, Mondadori, 2002), segna uno dei vertici della letteratura distopica di questi anni, contrapponendo due diversi sistemi di terrore: sulla Terra quello dei fondamentalisti religiosi emersi dall’Era della Purificazione e su Aka quello dello Stato Azienda che ha abolito la religione e ogni forma d’arte nel nome del consumismo. La cancellazione della storia e l’abolizione della memoria sono i tratti che accomunano queste società senza passato. E per sconfiggere le rispettive distopie i protagonisti non potranno che ricorrere a una sintesi, in grado di valorizzare le differenze e le peculiarità in contrapposizione all’omologazione, e piegare la padronanza della tecnologia alla guida di una sapienza antica (per approfondire, si rimanda all’articolo “Distopia, andata e ritorno” di Salvatore Proietti, su Delos SF n. 93, 2004: http://www.fantascienza.com/magazine/speciali/6759/distopia-andata-e-ritorno/ ).
Una sintesi di innovazione e riscoperta critica delle origini del genere sarà anche la chiave per capire l’evoluzione della science fiction nel decennio successivo.

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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