E’ morto Alberto Melandri

testo ripreso da www.estense.com

Ferrara in lutto per la scomparsa di Alberto Melandri

Cordoglio per la perdita del coordinatore del Cies e Cittadini del mondo: “Persona giusta e gentile, paladino dell’intercultura”

«Come può la luce fermarsi davanti ad un confine? Questa passa, trapassa». Lo sa bene Alberto Melandri e chi ha avuto modo di incontrarlo sulla propria strada fino a lunedì, quando un terribile male l’ha portato via all’età di 69 anni dalla città a cui aveva dedicato tutte le sue energie.

Stimato insegnante, coordinatore del Cies (Centro informazione e educazione allo sviluppo), rappresentante dell’associazione Cittadini del mondo, infaticabile organizzatore del convegno nazionale ‘Franco Argento’, convinto sostenitore della multiculturalità e volontario del gruppo di cittadini Pontegradella in transizione, Melandri rappresentava tutte queste anime.

Nonostante la malattia che lo affliggeva da tempo, tutti lo ricordano come una persona solare, sempre sorridente, a testa alta. Le sue condizioni sono peggiorate drasticamente negli ultimi giorni fino alla tragedia che ha colpito in primis i figli Lisa, Pietro e Giulia.

Il lutto ha colpito profondamente lo staff del Cies che perde un «instancabile difensore dei diritti dei migranti e un formidabile educatore e animatore culturale». A piangere la scomparsa è anche la Rete CambiaVento che ricorda Alberto per la «sua squisita passione politica; un uomo di grande spessore culturale».

Messaggi di cordoglio sono giunti da Adam Atik, presente di Cittadini del Mondo – «una persona pura, giusta, dai sani principi, a cui devo tanti bei momenti. Dal bellissimo Festival delle letterature migranti, agli anni di interminabile militanza politica per fare ciò che è giusto. Sempre. Ha un posto speciale nel mio cuore, anche per aver fatto partire il dopo scuola per aiutare il maggior numero di ragazzi di minoranze etniche» – e di Leonardo Fiorentini (SI): «Ci ha lasciato una persona gentile e profonda. Un motivo in più per cominciare a ricostruire dal basso la città che vogliamo».

In lutto anche Pontegradella in Transizione: «È un momento molto doloroso e triste. Ma il suo lascito è così grande che ci riempie il cuore di amore, per le cose che ci ha fatto conoscere e amare e per chi rimane. Lui era il nostro fratello maggiore, il nostro insegnante letterato, il nonno della contro favola e della poesia sulla ciclabile, il paladino dell’intercultura, il sorriso la tenacia e l’ottimismo sempre e comunque. Alberto ci mancherà tanto tanto…. Ci stringiamo con tutto l’affetto attorno alla sua famiglia. Ciao fratellone».

Il funerale si svolgerà sabato alle 9.30 presso la camera mortuaria dell’Hospice di Bentivoglio. Sarà possibile dargli l’ultimo saluto alle 10.50 presso il tempio della cremazione della Certosa a Ferrara, ma più avanti verrà organizzata una festa in suo ricordo, che sia nel suo stile. E allora c’è da immaginare gentilezza,

LA “BOTTEGA” SI AGGIUNGE AL DOLORE E AL CORDOGLIO: ALCUNE/I DI NOI AVEVAMO INCONTRATO ALBERTO (CHE AVEVA SCRITTO QUI PIU’ VOLTE) E SEMPRE DALLA PARTE GIUSTA.

 

Redazione
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2 commenti

  • Michele Licheri

    IN MEMORIA DI ALBERTO

    Posti tra la nascita e la morte
    significhiamo il nostro vivere nel “fare”:
    da che parte stare? Quale l’opzione
    di fronte all’ingiustizia?
    Errare, errare, viaggiare e navigare a volte non per scelta;
    credere di lasciarsi alle spalle il male
    e le fiamme, i tuoni della guerra;
    e andare via per sabbie e mare via lontano;
    niente da perdere oramai, solo la vita o altro?!
    A chi resta il compito di edificare la bellezza;
    e in pegno la memoria e il sogno; la visione solidale.

    Non sempre dipartono i migliori;
    ma, stavolta l’assenza pesa:
    l’Alberto era persona di valore!
    Così si dice, così è.
    E così lievita il silenzio;
    come un pane, un amaro pane.

    A noi il mistero:
    tutto il non detto
    sarà detto altrove.

    Ciao Melandri:
    ti sia lieve il volo.

  • sergio falcone

    Requiem per un’amica

    Rainer Maria RILKE

    *

    Parigi, 31/10 – 3/11 1908

    Ho morti, e li ho lasciati andare
    e stupivo a vederli così in pace,
    così presto accasati nella morte, così giusti,
    così diversi dalla loro fama. Solo tu torni
    indietro; mi sfiori, ti aggiri, vuoi
    cozzare in qualcosa che risuoni di te
    e ti riveli. Oh, non prendermi quel che
    lentamente imparo. Io ho ragione; sei in errore
    se hai, commossa, nostalgia di
    cose. Noi trasformiamo queste;
    non sono qui, le riflettiamo in noi
    dal nostro essere appena le riconosciamo.
    Ti credevo assai più avanti. Mi sconcerta
    che erri e ritorni proprio tu, che più
    di ogni altra donna hai trasformato.
    Che ci spaventassimo quando moristi, no, che
    la tua forte morte c’interrompesse oscuramente
    strappando via il prima dal poi –
    ciò riguarda noi; trovare un nesso in ciò
    sarà il lavoro che facciamo sempre.
    Ma che ti spaventassi tu e ancora adesso
    abbia spavento quando spavento più non vale;
    che perda un pezzo della tua eternità
    ed entri dentro qui, amica, qui,
    dove nulla ancora è; che distratta,
    per la prima volta distratta nel gran tutto e mezza persa,
    non afferrassi il sorgere delle nature infinite
    come afferravi qui ciascuna cosa;
    che dall’orbita che già ti aveva accolto
    la muta gravità di una qualche inquietudine
    ti attragga giù verso il tempo contato –
    questo mi desta spesso a notte come un ladro che effrange.
    E potessi io dire che sol ti degni,
    che vieni per generosità, per esuberanza,
    in quanto sei così sicura, così in te stessa,
    che gironzoli come un fanciullo impavido
    di luoghi dove si fa del male –
    ma no: tu implori. Questo mi va fin
    dentro le ossa e stride come una sega.
    Un rimprovero che muovessi da fantasma,
    muovessi rancorosa a me quando di notte mi ritiro
    nei miei polmoni, nelle mie budella,
    nell’ultima più angusta cavità del cuore –
    un tale rimprovero non sarebbe crudele
    com’è questo implorare. Cosa implori?
    Di’, devo mettermi in viaggio? Hai abbandonato
    in qualche posto una cosa che si affligge
    e che ti vuole seguire? Devo raggiungere un paese
    che non vedesti benché ti fosse affine
    quanto l’altra metà dei tuoi sensi?
    Navigherò i suoi fiumi, scenderò
    a terra e chiederò di costumanze antiche,
    parlerò con le donne all’uscio
    e le starò a guardare mentre chiamano i figli.
    Terrò a mente come si avvolgon lì
    del paesaggio fuori nell’antico lavoro
    dei pascoli e dei campi; pretenderò
    d’esser condotto innanzi al loro re,
    e indurrò i sacerdoti con la corruzione
    a pormi innanzi al simulacro più potente
    e ad andar via chiudendo le porte del tempio.
    Ma allora, quando avrò saputo molto,
    contemplerò semplicemente gli animali, che
    un che delle movenze loro scivoli di qua
    nelle mie giunture; avrò un’esistenza breve
    nelle loro pupille che mi terranno
    e lentamente lasceranno, placide, senza giudicare.
    Mi farò elencare dai giardinieri
    molti fiori, così che nei frantumi
    dei bei nomi propri riporti
    un resto qui di quei cento profumi.
    E frutti comprerò, frutti dove la terra
    si ritrova ancora, fino al cielo.
    Ché la capivi tu, la pienezza dei frutti.
    Li posavi su piatti innanzi a te
    e controbilanciavi con colori il loro peso.
    E come frutti vedevi anche le donne
    e così vedevi i bimbi, dall’interno
    spinti nelle forme del loro esistere.
    E vedevi te stessa infine come un frutto,
    ti cavavi fuori dai tuoi vestiti, ti portavi
    allo specchio, ti lasciavi andar dentro fino al tuo
    sguardo escluso; e questo rimaneva grande innanzi
    e non diceva no: «son io», ma: «questo è».
    Così privo di curiosità era infine il tuo sguardo
    e così senza possesso, di così vera povertà,
    che non desiderava più nemmeno te: santo.
    Così voglio serbarti, come t’introducevi
    nello specchio, profondamente dentro
    e via da tutto. Perché vieni diversa?
    Perché ti smentisci? Perché vuoi darmi
    a intendere che in quelle perle d’ambra
    attorno al collo tuo restava un po’ della gravezza
    di quel peso che non è mai nell’aldilà
    d’immagini pacificate; perché mi mostri
    nel tuo contegno un cattivo presagio;
    cosa ti muove a esporre i contorni
    del tuo corpo come le linee di una mano,
    così che io non possa più vederli senza fato?
    Vieni qui al lume della candela. Non ho paura
    di contemplare i morti. Se vengono,
    hanno diritto a soffermarsi
    nei nostri occhi quanto le altre cose.
    Vieni qui; staremo un poco in quiete.
    Osserva questa rosa sul mio scrittoio;
    la luce attorno a lei non è precisamente timida
    come sopra te? Nemmeno lei potrebbe essere qui.
    Nel giardino là fuori, non mischiata con me,
    avrebbe dovuto rimanere o svanire –
    be’, resiste così: cosa conta per lei la mia coscienza?

    Non spaventarti se adesso comprendo, ah,
    ecco che sale in me: non posso altrimenti,
    devo comprendere, anche a costo di morirne.
    Comprendere che sei qui. Comprendo.
    Proprio come a tentoni un cieco comprende una cosa,
    io sento la tua sorte e non so darle nome.
    Lamentiamo insieme che uno ti abbia
    presa dal tuo specchio. Puoi ancora piangere?
    Non puoi. L’afflusso potente delle tue lacrime
    l’hai trasformato nel tuo maturo contemplare,
    e stavi per convertire così
    ogni tuo umore in una forte esistenza
    che cresce e circola, in equilibrio e alla cieca.
    Allora ti strappò un caso, il tuo ultimo caso
    ti strappò indietro dal tuo progresso estremo
    giù in un mondo dove gli umori vogliono.
    Non ti strappò interamente; strappò solo un pezzo
    dapprima, ma allorché attorno a quel pezzo la realtà
    aumentò di giorno in giorno sino a renderlo pesante,
    tu avesti bisogno di te intera: allora reagisti
    e ti staccasti a frammenti dalla legge
    con fatica, perché avevi bisogno di te. Allora
    ti sgombrasti e dissotterrasti dal caldo humus notturno
    del tuo cuore i semi ancora verdi
    da cui sarebbe germogliata la tua morte: la tua,
    tua propria morte, corrispondente alla tua propria vita.
    E li mangiasti, i chicchi della morte tua,
    come tutti gli altri, mangiasti i suoi chicchi,
    e ti restò un sapore di dolcezza
    che non supponevi, ti vennero labbra dolci –
    tu, ch’eri dolce già dentro nei sensi.
    Oh, lamentiamo. Sai come il tuo sangue
    tornò esitante e controvoglia da una circolazione
    senza pari allorché lo richiamasti?
    Come ricominciò confuso il piccol circolo
    del corpo; come entrò pieno di sospetto
    e di stupore nella placenta
    e fu improvvisamente stanco di quel lungo ritorno.
    Tu lo spronasti, lo spingesti avanti,
    lo tirasti a strattoni al focolare
    come si tira un branco di animali al sacrificio;
    e in più volevi che ne fosse lieto.
    E ci riuscisti infine: fu lieto
    e accorse e si concesse. A te sembrò,
    poich’eri abituata alle altre proporzioni,
    che sarebbe stato soltanto per un poco; ma
    ora eri nel tempo, e il tempo è lungo.
    E il tempo passa, e il tempo aumenta, e il tempo
    è come la recidiva di una lunga malattia.
    Quanto fu breve la tua vita se la compari
    a quelle ore in cui sedevi e
    tacendo piegavi giù le tante forze del tuo
    tanto futuro verso quel nuovo germe di bambino
    che di nuovo era destino. Oh, lavoro penoso.
    Oh, lavoro oltre ogni forza. Lo svolgevi
    giorno per giorno, ti trascinavi ad esso
    e traevi la bella trama dal telaio
    e impiegavi tutti i tuoi fili ad altro scopo.
    E alla fine ti restò il coraggio di festeggiare.
    Perché una volta a capo, volesti una ricompensa,
    come i fanciulli quando han bevuto
    l’infuso dolceamaro che forse ristabilisce.
    Così ti premiasti – ché da ogni altro
    eri troppo lontana, e ancora adesso; nessuno avrebbe
    potuto immaginare quale premio ti andasse bene.
    Tu lo sapevi. Sedevi ritta nel letto del parto,
    e innanzi a te stava uno specchio che ti restituiva
    interamente tutto. Ora, questo tutto eri tu
    e interamente innanzi, e dentro lì era solo inganno,
    il bell’inganno di ogni donna cui piace
    mettersi gioielli e pettinarsi e rifarsi i capelli.
    Così moristi come un tempo morivano le donne,
    moristi all’antica nella casa calda
    la morte delle puerpere che vogliono
    richiudersi e non lo posson più,
    poiché quel buio che anche dettero alla luce
    ritorna ancora e preme ed entra.

    O non si sarebbe tuttavia dovuto trovare
    delle prefiche? Femmine che piangono
    per denaro e che si possono pagare
    perché urlino la notte, quando si fa silenzio.
    Usanze, sì! – non abbiamo abbastanza
    usanze. Tutto va e finisce in chiacchiera.
    Così devi venire tu, morta, e qui con me
    recuperare lamenti antichi. Odi che sto lamentando?
    Vorrei gettare la mia voce come
    un panno sui cocci della morte tua
    e tirarla con violenza finché va in brandelli,
    e tutto quanto dico dovrebbe così
    andare e congelare avvolto negli stracci di questa voce –
    si restasse al lamento. Ma adesso accuso:
    non quell’uno che ti ritrasse da te
    (non arrivo a distinguerlo, è come tutti),
    ma tutti accuso nella sua persona: il maschio.
    Se in qualche parte affiora dal profondo
    un tratto di me bambino che ancora non conosco,
    forse il tratto più essenziale e puro della mia infanzia –
    non voglio saperlo. Un angelo voglio
    farne senza neanche guardare,
    e lo voglio lanciare nella prima fila
    di angeli clamanti che ricordano Dio.
    Ché questo soffrire dura già da troppo,
    e nessuno ne è capace; è troppo gravoso per noi,
    il soffrire arruffato del falso amore che,
    poggiando su prescrizione come su abitudine,
    dice di essere un diritto e prolifera dal torto.
    Dov’è un maschio che ha diritto al possesso?
    Chi può possedere ciò che non tiene se stesso,
    ciò che di tempo in tempo solo si prende felicemente
    al volo e si ributta lì come un bimbo la palla?
    Quanto poco l’ammiraglio può fissare
    una nike alla prua della nave
    quando la levità segreta del suo nume
    la leva via di colpo nel chiaro vento marino,
    altrettanto poco può uno di noi chiamare
    la donna che non ci scorge più e
    prosegue su una striscia sottile della sua
    esistenza come per un miracolo, senza infortuni –
    a meno che non si abbia vocazione e gusto della colpa.
    Ché questo è colpa, se c’è una qualche colpa:
    non arricchire la libertà della persona amata
    di tutta la libertà che uno procura in sé.
    Noi abbiamo, quando amiamo, appunto solo questo:
    lasciar l’un l’altro a sé; ché il tenerci
    ci risulta facile e non è neanche da imparare.

    Ci sei ancora? In che angolo sei?
    Hai saputo così tanto di tutto ciò
    e così tanto hai potuto, allorché te ne andasti
    aperta a tutto come un giorno che spunta.
    Le donne soffrono: amare significa esser soli,
    e gli artisti intuiscono talvolta nel lavoro
    che devono trasformare quando amano.
    Cominciasti entrambi; entrambi sono in ciò
    che una gloria ora ti toglie sfigurandolo.
    Ah, eri lungi da ogni gloria. Eri
    inappariscente; avevi sommessamente raccolto in te
    la tua bellezza come si tira dentro
    una bandiera al grigio mattino di un giorno feriale,
    e volevi null’altro che un lungo lavoro –
    che non è compiuto, tuttavia non compiuto.
    Se ci sei ancora, se in questo buio
    c’è ancora un posto dove il tuo spirito
    delicato vibri alle piatte onde sonore
    che una voce, solitaria nella notte,
    suscita nella corrente di un’alta stanza –
    allora ascoltami: aiutami. Vedi, noi scivoliamo così,
    senza sapere quando, dal nostro progresso giù
    in qualcosa che non supponiamo; lì dentro
    c’impigliamo come in sogno
    e lì dentro moriamo senza destarci.
    Nessuno è più avanti. A chiunque ha sollevato
    il proprio sangue in un’opera che diviene lunga
    può capitare di non più tenerlo alto
    e ch’esso segua il peso suo, senza valore.
    Da qualche parte infatti c’è un’antica ostilità
    tra la vita e il gran lavoro.
    A che la riconosca e dica: aiutami.
    Non tornare. Se lo sopporti, sii
    morta tra i morti. I morti hanno molto da fare.
    Ma aiutami lo stesso senza dover distrarti,
    come mi aiuta a volte quello ch’è più lontano: in me.

    *

    Requiem für eine Freundin
    (Geschrieben 31. 10. – 3. 11. 1908 in Paris.)

    Ich habe Tote, und ich ließ sie hin
    und war erstaunt, sie so getrost zu sehn,
    so rasch zuhaus im Totsein, so gerecht,
    so anders als ihr Ruf. Nur du, du kehrst
    zurück; du streifst mich, du gehst um, du willst
    an etwas stoßen, daß es klingt von dir
    und dich verrät. O nimm mir nicht, was ich
    langsam erlern. Ich habe recht; du irrst
    wenn du gerührt zu irgend einem Ding
    ein Heimweh hast. Wir wandeln dieses um;
    es ist nicht hier, wir spiegeln es herein
    aus unserm Sein, sobald wir es erkennen.
    Ich glaubte dich viel weiter. Mich verwirrts,
    daß du gerade irrst und kommst, die mehr
    verwandelt hat als irgend eine Frau.
    Daß wir erschraken, da du starbst, nein, daß
    dein starker Tod uns dunkel unterbrach,
    das Bisdahin abreißend vom Seither:
    das geht uns an; das einzuordnen wird
    die Arbeit sein, die wir mit allem tun.
    Doch daß du selbst erschrakst und auch noch jetzt
    den Schrecken hast, wo Schrecken nicht mehr gilt;
    daß du von deiner Ewigkeit ein Stück
    verlierst und hier hereintrittst, Freundin, hier,
    wo alles noch nicht ist; daß du zerstreut,
    zum ersten Mal im All zerstreut und halb,
    den Aufgang der unendlichen Naturen
    nicht so ergriffst wie hier ein jedes Ding;
    daß aus dem Kreislauf, der dich schon empfing,
    die stumme Schwerkraft irgend einer Unruh
    dich niederzieht zur abgezählten Zeit – :
    dies weckt mich nachts oft wie ein Dieb, der einbricht.
    Und dürft ich sagen, daß du nur geruhst,
    daß du aus Großmut kommst, aus Überfülle,
    weil du so sicher bist, so in dir selbst,
    daß du herumgehst wie ein Kind, nicht bange
    vor Örtern, wo man einem etwas tut – :
    doch nein: du bittest. Dieses geht mir so
    bis ins Gebein und querrt wie eine Säge.
    Ein Vorwurf, den du trügest als Gespenst,
    nachtrügest mir, wenn ich mich nachts zurückzieh
    in meine Lunge, in die Eingeweide,
    in meines Herzens letzte ärmste Kammer,
    ein solcher Vorwurf wäre nicht so grausam,
    wie dieses Bitten ist. Was bittest du?
    Sag, soll ich reisen? Hast du irgendwo
    ein Ding zurückgelassen, das sich quält
    und das dir nachwill? Soll ich in ein Land,
    das du nicht sahst, obwohl es dir verwandt
    war wie die andre Hälfte deiner Sinne?
    Ich will auf seinen Flüssen fahren, will
    an Land gehn und nach alten Sitten fragen,
    will mit den Frauen in den Türen sprechen
    und zusehn, wenn sie ihre Kinder rufen.
    Ich will mir merken, wie sie dort die Landschaft
    umnehmen draußen bei der alten Arbeit
    der Wiesen und der Felder; will begehren,
    vor ihren König hingeführt zu sein,
    und will die Priester durch Bestechung reizen,
    daß sie mich legen vor das stärkste Standbild
    und fortgehn und die Tempeltore schließen.
    Dann aber will ich, wenn ich vieles weiß,
    einfach die Tiere anschaun, daß ein Etwas
    von ihrer Wendung mir in die Gelenke
    herübergleitet; will ein kurzes Dasein
    in ihren Augen haben, die mich halten
    und langsam lassen, ruhig, ohne Urteil.
    Ich will mir von den Gärtnern viele Blumen
    hersagen lassen, daß ich in den Scherben
    der schönen Eigennamen einen Rest
    herüberbringe von den hundert Düften.
    Und Früchte will ich kaufen, Früchte, drin
    das Land noch einmal ist, bis an den Himmel.
    Denn Das verstandest du: die vollen Früchte.
    Die legtest du auf Schalen vor dich hin
    und wogst mit Farben ihre Schwere auf.
    Und so wie Früchte sahst du auch die Fraun
    und sahst die Kinder so, von innen her
    getrieben in die Formen ihres Daseins.
    Und sahst dich selbst zuletzt wie eine Frucht,
    nahmst dich heraus aus deinen Kleidern, trugst
    dich vor den Spiegel, ließest dich hinein
    bis auf dein Schauen; das blieb groß davor
    und sagte nicht: das bin ich; nein: dies ist.
    So ohne Neugier war zuletzt dein Schaun
    und so besitzlos, von so wahrer Armut,
    daß es dich selbst nicht mehr begehrte: heilig.
    So will ich dich behalten, wie du dich
    hinstelltest in den Spiegel, tief hinein
    und fort von allem. Warum kommst du anders?
    Was widerrufst du dich? Was willst du mir
    einreden, daß in jenen Bernsteinkugeln
    um deinen Hals noch etwas Schwere war
    von jener Schwere, wie sie nie im Jenseits
    beruhigter Bilder ist; was zeigst du mir
    in deiner Haltung eine böse Ahnung;
    was heißt dich die Konturen deines Leibes
    auslegen wie die Linien einer Hand,
    daß ich sie nicht mehr sehn kann ohne Schicksal?
    Komm her ins Kerzenlicht. Ich bin nicht bang,
    die Toten anzuschauen. Wenn sie kommen,
    so haben sie ein Recht, in unserm Blick
    sich aufzuhalten, wie die andern Dinge.
    Komm her; wir wollen eine Weile still sein.
    Sieh diese Rose an auf meinem Schreibtisch;
    ist nicht das Licht um sie genau so zaghaft
    wie über dir: sie dürfte auch nicht hier sein.
    Im Garten draußen, unvermischt mit mir,
    hätte sie bleiben müssen oder hingehn, –
    nun währt sie so: was ist ihr mein Bewußtsein?

    Erschrick nicht, wenn ich jetzt begreife, ach,
    da steigt es in mir auf: ich kann nicht anders,
    ich muß begreifen, und wenn ich dran stürbe.
    Begreifen, daß du hier bist. Ich begreife.
    Ganz wie ein Blinder rings ein Ding begreift,
    fühl ich dein Los und weiß ihm keinen Namen.
    Laß uns zusammen klagen, daß dich einer
    aus deinem Spiegel nahm. Kannst du noch weinen?
    Du kannst nicht. Deiner Tränen Kraft und Andrang
    hast du verwandelt in dein reifes Anschaun
    und warst dabei, jeglichen Saft in dir
    so umzusetzen in ein starkes Dasein,
    das steigt und kreist im Gleichgewicht und blindlings.
    Da riß ein Zufall dich, dein letzter Zufall
    riß dich zurück aus deinem fernsten Fortschritt
    in eine Welt zurück, wo Säfte wollen.
    Riß dich nicht ganz; riß nur ein Stück zuerst,
    doch als um dieses Stück von Tag zu Tag
    die Wirklichkeit so zunahm, daß es schwer ward,
    da brauchtest du dich ganz: da gingst du hin
    und brachst in Brocken dich aus dem Gesetz
    mühsam heraus, weil du dich brauchtest. Da
    trugst du dich ab und grubst aus deines Herzens
    nachtwarmem Erdreich die noch grünen Samen,
    daraus dein Tod aufkeimen sollte: deiner,
    dein eigner Tod zu deinem eignen Leben.
    Und aßest sie, die Körner deines Todes,
    wie alle andern, aßest seine Körner,
    und hattest Nachgeschmack in dir von Süße,
    die du nicht meintest, hattest süße Lippen,
    du: die schon innen in den Sinnen süß war.
    O laß uns klagen. Weißt du, wie dein Blut
    aus einem Kreisen ohnegleichen zögernd
    und ungern wiederkam, da du es abriefst?
    Wie es verwirrt des Leibes kleinen Kreislauf
    noch einmal aufnahm; wie es voller Mißtraun
    und Staunen eintrat in den Mutterkuchen
    und von dem weiten Rückweg plötzlich müd war.
    Du triebst es an, du stießest es nach vorn,
    du zerrtest es zur Feuerstelle, wie
    man eine Herde Tiere zerrt zum Opfer;
    und wolltest noch, es sollte dabei froh sein.
    Und du erzwangst es schließlich: es war froh
    und lief herbei und gab sich hin. Dir schien,
    weil du gewohnt warst an die andern Maße,
    es wäre nur für eine Weile; aber
    nun warst du in der Zeit, und Zeit ist lang.
    Und Zeit geht hin, und Zeit nimmt zu, und Zeit
    ist wie ein Rückfall einer langen Krankheit.
    Wie war dein Leben kurz, wenn du´s vergleichst
    mit jenen Stunden, da du saßest und
    die vielen Kräfte deiner vielen Zukunft
    schweigend herabbogst zu dem neuen Kindkeim,
    der wieder Schicksal war. O wehe Arbeit.
    O Arbeit über alle Kraft. Du tatest
    sie Tag für Tag, du schlepptest dich zu ihr
    und zogst den schönen Einschlag aus dem Webstuhl
    und brauchtest alle deine Fäden anders.
    Und endlich hattest du noch Mut zum Fest.
    Denn da´s getan war, wolltest du belohnt sein,
    wie Kinder, wenn sie bittersüßen Tee
    getrunken haben, der vielleicht gesund macht.
    So lohntest du dich: denn von jedem andern
    warst du zu weit, auch jetzt noch; keiner hätte
    ausdenken können, welcher Lohn dir wohltut.
    Du wußtest es. Du saßest auf im Kindbett,
    und vor dir stand ein Spiegel, der dir alles
    ganz wiedergab. Nun war das alles Du
    und ganz davor, und drinnen war nur Täuschung,
    die schöne Täuschung jeder Frau, die gern
    Schmuck umnimmt und das Haar kämmt und verändert.
    So starbst du, wie die Frauen früher starben,
    altmodisch starbst du in dem warmen Hause
    den Tod der Wöchnerinnen, welche wieder
    sich schließen wollen und es nicht mehr können,
    weil jenes Dunkel, das sie mitgebaren,
    noch einmal wiederkommt und drängt und eintritt.

    Ob man nicht dennoch hätte Klagefrauen
    auftreiben müssen? Weiber, welche weinen
    für Geld, und die man so bezahlen kann,
    daß sie die Nacht durch heulen, wenn es still wird.
    Gebräuche her! wir haben nicht genug
    Gebräuche. Alles geht und wird verredet.
    So mußt du kommen, tot, und hier mit mir
    Klagen nachholen. Hörst du, daß ich klage?
    Ich möchte meine Stimme wie ein Tuch
    hinwerfen über deines Todes Scherben
    und zerrn an ihr, bis sie in Fetzen geht,
    und alles, was ich sage, müßte so
    zerlumpt in dieser Stimme gehn und frieren;
    blieb es beim Klagen. Doch jetzt klag ich an:
    den Einen nicht, der dich aus dir zurückzog,
    (ich find ihn nicht heraus, er ist wie alle)
    doch alle klag ich in ihm an: den Mann.
    Wenn irgendwo ein Kindgewesensein
    tief in mir aufsteigt, das ich noch nicht kenne,
    vielleicht das reinste Kindsein meiner Kindheit:
    ich wills nicht wissen. Einen Engel will
    ich daraus bilden ohne hinzusehn
    und will ihn werfen in die erste Reihe schreiender
    Engel, welche Gott erinnern.
    Denn dieses Leiden dauert schon zu lang,
    und keiner kanns; es ist zu schwer für uns,
    das wirre Leiden von der falschen Liebe,
    die, bauend auf Verjährung wie Gewohnheit,
    ein Recht sich nennt und wuchert aus dem Unrecht.
    Wo ist ein Mann, der Recht hat auf Besitz?
    Wer kann besitzen, was sich selbst nicht hält,
    was sich von Zeit zu Zeit nur selig auffängt
    und wieder hinwirft wie ein Kind den Ball.
    Sowenig wie der Feldherr eine Nike
    festhalten kann am Vorderbug des Schiffes,
    wenn das geheime Leichtsein ihrer Gottheit
    sie plötzlich weghebt in den hellen Meerwind:
    so wenig kann einer von uns die Frau
    anrufen, die uns nicht mehr sieht und die
    auf einem schmalen Streifen ihres Daseins
    wie durch ein Wunder fortgeht, ohne Unfall:
    er hätte denn Beruf und Lust zur Schuld.
    Denn das ist Schuld, wenn irgendeines Schuld ist:
    die Freiheit eines Lieben nicht vermehren
    um alle Freiheit, die man in sich aufbringt.
    Wir haben, wo wir lieben, ja nur dies:
    einander lassen; denn daß wir uns halten,
    das fällt uns leicht und ist nicht erst zu lernen.

    Bist du noch da? In welcher Ecke bist du? —
    Du hast so viel gewußt von alledem
    und hast so viel gekonnt, da du so hingingst
    für alles offen, wie ein Tag, der anbricht.
    Die Frauen leiden: lieben heißt allein sein,
    und Künstler ahnen manchmal in der Arbeit,
    daß sie verwandeln müssen, wo sie lieben.
    Beides begannst du; beides ist in Dem,
    was jetzt ein Ruhm entstellt, der es dir fortnimmt.
    Ach du warst weit von jedem Ruhm. Du warst
    unscheinbar; hattest leise deine Schönheit
    hineingenommen, wie man eine Fahne
    einzieht am grauen Morgen eines Werktags,
    und wolltest nichts, als eine lange Arbeit, –
    die nicht getan ist: dennoch nicht getan.
    Wenn du noch da bist, wenn in diesem Dunkel
    noch eine Stelle ist, an der dein Geist
    empfindlich mitschwingt auf den flachen Schallwelln,
    die eine Stimme, einsam in der Nacht,
    aufregt in eines hohen Zimmers Strömung:
    So hör mich: Hilf mir. Sieh, wir gleiten so,
    nicht wissend wann, zurück aus unserm Fortschritt
    in irgendwas, was wir nicht meinen; drin
    wir uns verfangen wie in einem Traum
    und drin wir sterben, ohne zu erwachen.
    Keiner ist weiter. Jedem, der sein Blut
    hinaufhob in ein Werk, das lange wird,
    kann es geschehen, daß ers nicht mehr hochhält
    und daß es geht nach seiner Schwere, wertlos.
    Denn irgendwo ist eine alte Feindschaft
    zwischen dem Leben und der großen Arbeit.
    Daß ich sie einseh und sie sage: hilf mir.
    Komm nicht zurück. Wenn du´s erträgst, so sei
    tot bei den Toten. Tote sind beschäftigt.
    Doch hilf mir so, daß es dich nicht zerstreut,
    wie mir das Fernste manchmal hilft: in mir.

    ***

    Note

    – Il testo è tratto da Rainer Maria Rilke, Requiem per un’amica, cura e traduzione di Dario Borso, con una litografia di Luciano Ragozzino, edizione stampata a mano in tiratura limitata per i tipi de Il ragazzo innocuo, Milano, 2007.

    – La traduzione è condotta sul Vol. I dei WERKE, kommentierte Ausgabe in vier Bänden, hrsg. von M. Engel und U. Fülleborn, Insel Verlag, Frankfurt am Main/Leipzig, 1996, pp. 414 – 421.

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