E’ ok essere differenti

di Melissa Bollow Tempel, insegnante: nell’originale “It’s Okay to be Neither” (dicembre 2011). La traduzione e l’ adattamento sono di Maria G. Di Rienzo.

Allie arrivò in classe (prima elementare) indossando una felpa con cappuccio.

Le chiesi di abbassare il cappuccio e lei rifiutò. Pensai che volesse solo fare la difficile e lasciai perdere. Dopo la ricreazione ci mettemmo in fila per andare nel laboratorio artistico e notai che non si era ancora tolta il cappuccio. Quando arrivammo all’aula dissi: “Allie, non sto scherzando. La regola è niente cappelli o cappucci a scuola.” Lei mi guardò con le lacrime agli occhi e capii che c’era qualcosa che non andava. I suoi compagni entrarono nel laboratorio e io portai Allie con me verso il magazzino, di modo che gli altri non udissero il nostro dialogo. Addolcii il tono della voce e le chiesi se voleva dirmi qual era il problema.

“La mia coda di cavallo” singhiozzò lei. “Posso vedere?” chiesi. Allie annuì e abbassò il cappuccio. Le sue treccine si erano sciolte durante la notte e la mattina non c’era stato tempo di rifarle, così i capelli le erano stati legati in un’alta coda di cavallo, al modo in cui sono pettinate molte altre bambine della nostra classe. Ma Allie si sentiva profondamente a disagio: con il suo permesso, tolsi l’elastico e rifeci le treccine.

“Come ti sembra?” chiesi io. Lei sorrise: “Bene” e corse via per unirsi ai suoi amici.

Allison, che preferisce essere chiamata Allie, è biologicamente una femmina e si sente più a suo agio in felpe, magliette, jeans e scarpe da ginnastica. I suoi genitori non hanno problemi al riguardo; sua madre le pettina i capelli in treccine perché Allie pensa di assomigliare di più, a questo modo, al giovane attore Trey Smith di “Karate Kid”.

Il primo giorno di scuola, i bambini che non erano stati nella stessa classe con Allie all’asilo si riferivano a lei come a “lui”. Io, non sapendo che risposta la bambina desiderasse ai continui fraintendimenti sul suo genere, chiamai casa sua. Sua madre fece in modo che la bimba partecipasse alla conversazione: “Allie, c’è la signora Melissa al telefono. Vuol sapere se desideri che corregga i tuoi compagni di classe quando dicono che sei un maschio, o se preferisci che non dica niente”.

“Ummm…” mormorò lei timidamente “dica loro che sono una femmina”.

Il giorno dopo, quando corressi i suoi compagni e dissi loro che Allie era una bambina, loro le fecero un mucchio di domande a cui non era preparata: “Perché sembri un maschio?”, “Se sei una femmina, perché hai addosso sempre vestiti da maschio?” e qualcuno le disse persino che non avrebbe dovuto indossarli, quei vestiti, se davvero era una femmina.

Era ormai evidente che avrei dovuto affrontare la questione “genere” direttamente, sia per rendere l’ambiente della classe più confortevole per Allie, sia per smentire gli stereotipi che i miei alunni avevano già assorbito alla loro tenera età.

Qualche anno fa non pensavo che il genere fosse qualcosa da trattare alle elementari. Ricordo l’insofferenza mia e di altre/i colleghe/i quando sentimmo di un’insegnante dell’asilo che teneva seminari sul genere. Pensavamo che le sue lezioni fossero una perdita di tempo e ridevamo di lei. Le mie idee sui seminari sul genere cambiarono quando diventai madre. Quando compravo abitini e biancheria per la mia prima figlia ero disgustata dal fatto che praticamente ogni indumento fosse rosa e vezzoso. Non c’era davvero modo di sbagliarsi fra la sezione “infanti femmine” e quella “infanti maschi” del negozio! Mi rifiutavo di infilare la mia bambina nella scatola che la società aveva creato per lei. “E se il rosa non le piace?” pensavo: “E se le piacciono le tigri e i dinosauri?”.

Mano a mano che le mie figlie crescevano parlai loro degli stereotipi di genere e permisi loro di indossare i vestiti che preferivano (anche quelli “da maschio”, che anzi spesso incoraggiavo per la praticità). Quando la più piccola andò all’asilo, alla fine della prima settimana la sua insegnante mi raccontò che mia figlia aveva avuto un’accesa discussione con un bambino mentre giocavano a travestirsi: “Ha insistito sul fatto che i maschi possono indossare gonne o abiti lunghi, se vogliono”. Io gongolai d’orgoglio.

Sfortunatamente, non capii quanto era importante lavorare sul genere con i miei alunni sino a che non ebbi in classe Allie, che esprimeva una “variazione di genere”, e cioè un comportamento che non si conformava alle norme dominanti.

Perché avevo aspettato così tanto? Avrei dovuto cogliere il suggerimento da quell’insegnante della scuola materna anni prima. Comunque, mentre riflettevo a come introdurre la questione, capii che le lezioni che andavo creando non riguardavano solo Allie. Lei mi aveva aperto la mente, ma tutti i bimbi nella mia classe avevano bisogno di imparare a pensare criticamente agli stereotipi di genere e alla non-conformità.

Cominciai con una lezione sui giocattoli, perché si tratta di un argomento semplice e perché ero sicura che i miei studenti avevano le idee chiare al proposito. La classe sedette sul tappeto e io lessi “La bambola di William”,la storia di un bambino che, contro la volontà di suo padre, desidera una bambola più di qualsiasi altra cosa. Dopo aver letto la storia affissi due grandi fogli di carta sul muro, scrivendo su uno “ragazzi” e sull’altro “ragazze”. Cominciai: “mi direste quali sono alcuni giocattoli per ragazzi?”.

Le risposte fioccarono con facilità: “Il lego”, “I pattini”, “Lo skateboard”, “Le biciclette” e così via.

“Benissimo. Ora ditemi qualche giocattolo per ragazze.” E con la stessa facilità vennero “La Barbie”, “Le bambole”, “Lo smalto per unghie”, “I cosmetici”.

Infine, lessi le due liste alla classe. “Qui vedo che il Lego è per i maschi. Le femmine possono giocare con il Lego?”

“Certo”, replicò la maggioranza dei miei alunni senza esitazione.

“E forse a qualche ragazza in classe nostra piace giocare con i pattini?”.

“A me, a me!” irruppero alcune delle bambine.

Continuai con tutti gli oggetti della lista “da ragazzi”, mettendo un segno su quelli che la mia classe dichiarava accettabili per le ragazze.

Poi passai alla lista dei giocattoli “da ragazze”. Poiché avevamo appena letto “La bambola di William”, tutti i bambini erano a loro agio con l’idea di un maschio che giocasse con le bambole. “Giocare con le bambole, per un ragazzo che da grande voglia diventare papà è una buona pratica.”, aggiunsi io. Quando arrivammo allo smalto per unghie e ai cosmetici i bambini non erano più sicuri. “Ci sono alcuni gruppi rock molto famosi in cui gli uomini della band usano un bel po’ di trucco” li informai. Alcuni spalancarono la bocca per la sorpresa. Poi Isabela alzò la mano: “A volte mio zio mette lo smalto nero sulle unghie”.

Gli altri ci pensarono su. “Anche mio cugino si pittura le unghie” disse un altro scolaro. Presto, tutti furono in grado di condividere esempi di persone che andavano oltre i limiti imposti dalla socializzazione prevalente sul genere. L’ingegnere della nostra scuola, la signora Joan, guida una motocicletta. A Jeremy, nella nostra classe, piace la danza. Potevo quasi vedere gli ingranaggi che giravano nelle loro teste, mentre le rigide linee del genere cominciavano ad ammorbidirsi.

Sapevo che ampliare le idee dei bambini su cos’era accettabile per maschi e femmine era un importante primo passo, ma per far sì che Allie fosse a suo agio e fosse fiera di se stessa dovevo compierne altri. Per esempio, noi insegnanti usiamo spesso il genere per dividere la classe in gruppi o squadre. Sembra semplice e ovvio. Molti di noi lo fanno quando i bambini sono in fila per andare al bagno. Durante una conversazione con la madre di Allie, lei mi disse che a sua figlia non piaceva usare i bagni pubblici, perché molte volte veniva accusata di essere nel bagno sbagliato.

Da allora, quando andiamo ai bagni, io tengo la mia classe unita sino all’arrivo e poi lascio che si separino per entrare. Allie di solito diceva che non aveva bisogno di andarci. Ma da quando le offro il bagno dietro l’angolo, un gabinetto singolo che non è ne’ per femmine ne’ per maschi, ci va più spesso. All’uscita i bambini tendono a rimettersi in fila come maschi e femmine, ma io ho trovato un modo nuovo per allinearli diversamente ogni giorno: “Di qua quelli che preferiscono i ghiaccioli, di qua quelli che preferiscono il gelato.” Oppure, di qua gli amanti del calcio, di qua chi preferisce la pallacanestro. Di qua lo skateboard, di qua la bicicletta, di qua chi ama i cani e di qua chi preferisce i gatti, e così via.

Nello stesso periodo, la madre di un altro bambino mi disse che suo figlio era stato preso in giro perché sul suo cestino da pranzo aveva un adesivo di “Hello Kitty” e io pianificai altre lezioni per combattere contro gli stereotipi di genere. Per approfondire la nostra discussione scelsi un’altra storia da leggere, ma prima di cominciare dissi ai miei alunni: “Mi piacerebbe sapere a quanti di voi piace ballare”. La maggioranza della classe alzò le mani. “E a quanti di voi è stato detto che non potevate fare la tal cosa perché era “solo per femmine” o “solo per maschi”?

Molte mani si alzarono.

Allora lessi “Oliver Button è una femminuccia”, la storia di uno scolaro che viene tormentato dai bulli perché preferisce la danza agli sport. I bambini dissero che non era giusto e si schierarono tutti dalla parte di Oliver. Il giorno dopo leggemmo “E’ okay essere diversi” di Todd Parr. I libri di Parr sono davvero popolari fra i bambini delle elementari, perché hanno sempre elementi di umorismo e semplici illustrazioni piene di colori. Così leggemmo: “E’ ok portare occhiali. E’ ok venire da un posto differente. E’ ok essere di un altro colore”. Mentre leggevamo facevo domande del tipo: “Chi di voi viene da un altro posto?”. Alcuni alzarono orgogliosamente le mani. “Fantastico” replicai “Anche la mia mamma viene da un posto diverso. Un tempo viveva a Hong Kong”.

Quindi, guidai la conversazione sul genere. Gli alunni composero una lista di cose che per loro erano “okay”, anche se molte sfidavano le convenzioni sociali. Monica ci disse, e nessuno si scompose, che: “E’ ok per una ragazza sposare un’altra ragazza”. E Jordan ci disse: “Mio padre porta una borsa a tracolla e questo è ok”. Verso la fine della discussione spiegai che le persone prendono molte decisioni diverse rispetto al genere: “Qualche volta, mentre cresciamo, possiamo non voler scegliere nessuna delle cose che ci vengono proposte, e questo è okay, non siamo obbligati a farlo”. Volevo che cominciassero a capire che le nostre lezioni non riguardavano solo l’espandere le scatole di genere in cui siamo stati infilati, ma anche il metterle in discussione o l’eliminarle. Successivamente, chiesi ai bambini di scegliere un’attività che essi associavano alle femmine e una che associavano ai maschi e di disegnarle. Monica dipinse due spose in splendidi abiti da cerimonia. Miguel disegnò un uomo con una borsa a tracolla. Io incollai le due immagini sul bollettino dell’atrio scolastico, circondandole con le parole: “E’ ok essere differenti”.

Sebbene le cose andassero meglio per Allie, in classe, la bimba continuava ad affrontare parecchie difficoltà. Al termine dell’anno scolastico, sua madre mi raccontò una storia davvero deprimente. Disse che per il compleanno della piccola, sua nonna le aveva regalato degli abiti attillati a colori sgargianti e che poi li aveva chiesti indietro quando aveva saputo che ad Allie non piacevano. “Lo sa o no di essere una femmina?” aveva urlato e poi aveva annunciato che non le avrebbe mai più regalato vestiti. Mi rattristò molto udire questa storia. Immaginavo la bambina nel suo giorno speciale aprire eccitata i pacchetti di fronte ai familiari e agli amici, solo per scoprire – una volta di più – che i regali erano cose con cui non sarebbe mai stata a suo agio.

Sono solo all’inizio della mia esplorazione empatica delle sfide che i bambini che esprimono “variazioni di genere” si trovano di fronte. So che qualcuno non ritiene appropriato discutere tali cose in una classe scolastica. Ma il mio lavoro al riguardo non è rispondere alla domanda “Perché?” ne’ alla domanda “Come mai?”. Il mio lavoro non è giudicare, è insegnare, e non posso insegnare se gli studenti nella mia classe sono distratti o a disagio. Il mio lavoro concerne anche il preparare gli studenti a essere parte della nostra società, pronti a interagire, giocare o lavorare con ogni tipo di persone. Credo che insegnare qualcosa sugli stereotipi di genere sia un’istanza di giustizia sociale, allo stesso modo in cui lo è affrontare il razzismo, o il discorso sui diritti dei migranti, o la protezione dell’ambiente.

Più tardi, quello stesso anno, aprii la mia casella della posta scolastica e ci trovai questo biglietto: “Andrew dice che vuole una bambola bebè e che non gli importa se dicono che è solo per bambine. Grazie, signora Melissa”.

 

 

Redazione
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Un commento

  • Marco Pacifici

    ..forse che la PANSESSUALITA’ possa esser il primo fondamentale … passo verso la Rivoluzione Culturale?

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