Eldridge Cleaver, un mito del ’68… da rivedere

Con un dossier sulle Pantere Nere

due articoli di Gianni Sartori e una scheda storica di Ron Jacobs

Con il senno di poi (quello che notoriamente riempie le fosse) ritengo indispensabili alcune precisazioni sul “caso” di Eldridge Cleaver, scomparso nel 1998. Se all’epoca molti ammiratori delle Pantere Nere non erano a conoscenza delle teorizzazioni (poi messe in pratica) di questo personaggio, tacerne oggi i risvolti ambigui – e peggio – sarebbe imperdonabile.

Per quelli della mia generazione, Cleaver era uno dei rivoluzionari citati (a questo punto direi a sproposito) nella canzone dei Jefferson Airplane «Flowers of the Night». L’ex cantante dei Great Society, Grace Wing Slick (ex moglie di Jerry Slick e compagna di Paul Kantner con cui nel 1970 realizzerà un disco dal titolo esplicito: «Blows against the empire») era approdata ai Jefferson Airplane dopo la defezione di Signe Toley Anderson che preferì dedicarsi interamente alla famiglia.

Prendendo – riguardo a Cleaver – una sonora cantonata, Grace cantava:

«Paine and Pierce and Robespierre, Juarez and Danton

Luther King and Lumumba, dead but from gone.

Lenin, Cleaver, Jesus too, outlaws in their nations

revolutionaries all, dreamed of liberation».

Di Cleaver conoscevamo anche la famosa sentenza (ma era stata “presa in prestito”): «Se non fai parte della soluzione fai parte del problema». Venne ferito dalla polizia ed era espatriato rifugiandosi in Algeria. E tanto ci bastava, evidentemente.

In pochi – io credo – avevano letto veramente il suo «Soul on Ice» (Anima in ghiaccio). Degli aspetti più inquietanti della sua personalità eravamo quindi all’oscuro. Nemmeno la pubblicazione nel 1975 del libro di Susan Brownmiller «Against our will» (pubblicato l’anno dopo anche in Italia, da Bompiani, con il titolo: «Contro la nostra volontà – uomini, donne e violenza sessuale») fu in grado di sollevarci dalla nostra colpevole ignoranza.

Così non avevamo letto in precedenza la biografia di Cleaver. Dopo aver analizzato il caso dell’uccisione di un giovane nero, Emmett Till, assassinato nel 1955 per aver corteggiato una donna bianca (presumibilmente l’omicidio era opera del marito) Susan Brownmiller ricordava come Eldridge Cleaver avesse reagito all’episodio. Il futuro esponente del Bpp (Black Panther Party for Self Defence) raccontava di aver avuto diciannove anni quando vide «su una rivista una foto della donna bianca con cui si diceva che Emmett Till avesse amoreggiato». Cleaver espresse per esteso le sue reazioni perché il caso Till fu, a suo dire, un evento fondamentale della sua vita: «Nel guardare la foto, avvertii quella lieve tensione al centro del petto che sento quando una donna mi eccita. Provai un senso di disgusto e di collera verso me stesso. Ecco una donna che aveva provocato la morte di un nero, probabilmente perché quando egli la vide provò anche lui le stesse tensioni di sensualità e di desiderio nel petto, e probabilmente per gli stessi motivi generali per cui io le provavo… Guardai più e più volte la fotografia, e nonostante tutto e contro la mia volontà e l’odio che provavo per la donna e per tutto quello che rappresentava, essa mi eccitava. Sentii di odiare me stesso, l’America, le donne bianche, la storia che aveva posto quelle tensioni di sensualità e di desiderio nel mio petto».

Due giorni dopo Cleaver ebbe una sorta di crisi durante la quale: «mi scagliai delirando… contro le donne bianche in particolare» arrivando alla conclusione che «come questione di principio, era d’importanza fondamentale per me avere un atteggiamento antagonistico e spietato verso le donne bianche. Il termine fuorilegge mi piacque…».

Delirante la “soluzione” individuata da Cleaver: «Diventai uno stupratore». Un caso clinico o forse peggio.

Per giustificare tali impulsi Cleaver ricorse strumentalmente all’ideologia. Comunque in linea con «una corrente di pensiero diventata di moda fra intellettuali e scrittori neri di sesso maschile verso la fine degli anni Sessanta e accettata con stupefacente entusiasmo da radicali bianchi maschi e dall’establishment intellettuale bianco come una scusa perfettamente accettabile dello stupro commesso da uomini neri. La chiave di questa pronta accettazione della tesi di Cleaver è ovvia. La colpa, a suo modo di vedere, era delle donne bianche» (pagina 306 di «Contro la nostra volontà», edizione 1976).

Purtroppo pare che all’epoca Cleaver fosse in folta compagnia.

Sempre da Susan Brownmiller: «Lo stesso Cleaver cita una poesia di LeRoi Jones (Imamu Amiri Baraka): “Sorgi, nero nichilismo dada. Stupra le ragazze bianche. Stupra i loro padri. Taglia le gole delle loro madri” e commenta freddamente: “Le Roi esprime i duri fatti della vita» (sempre dall’edizione italiana del libro di Brownmiller, pagg 306-307).

Apparentemente meno brutali ma forse più subdole e pericolose le teorie di un sociologo nero, Calvin C. Hernton. Per Susan Brownmiller il pensiero di Hernton «implica che il libero accesso alle donne bianche, a qualsiasi donna, sia una sorta di inalienabile diritto maschile che è stato negato in modo disumano ai neri» (pag. 307).

Hernton scriveva che «un negro è più adatto di chiunque altro a soddisfare le fantasie di stupro e di martirio della donna bianca» (vedi in: «Sex and Racism in America», 1966).

Torniamo a Cleaver la cui “carriera di stupratore” venne bruscamente interrotta soltanto dall’arresto. In precedenza «per affinare la mia tecnica e il mio modus operandi, cominciai a far pratica con le ragazze nere del ghetto…». Aggiungendo che non venne mai arrestato per lo stupro di una donna nera in quanto agiva in una zona ad alto tasso di criminalità. Ma il suo scopo rimaneva quello originario: stuprare donne bianche. E quindi «…quando mi considerai abbastanza abile, attraversai i binari e andai in cerca di preda bianca».

A questo punto il suo delirio di onnipotenza esplodeva: «Lo stupro è un atto insurrezionale. Mi estasiava sfidare e calpestare la legge dell’uomo bianco, il suo sistema di valori, e violare le sue donne… e questo, credo, era l’atto che più mi soddisfaceva perché provavo un forte risentimento per il fatto storico di come l’uomo bianco aveva usato la donna nera. Sentivo che stavo prendendo la mia vendetta».

Sorvolando elegantemente su come lui aveva trattato le donne nere, in veste di apprendista stupratore.

A distanza di anni, in una intervista a «Playboy» ribadiva che «lo stupro fu semplicemente una delle strane forme che la mia ribellione prese a questo stadio. Quindi fu probabilmente una combinazione di utile e dilettevole».

Di questi tempi uno così andrebbe ad ingrossare i ranghi dello Stato islamico.

Chiudo e confermo la mia impressione. Almeno in Europa, fra quanti giustamente solidarizzavano con le Pantere Nere pochissimi in realtà avevano letto «Soul on Ice» e relative schifezze.

Resta una perplessità. Sicuramente il libro di Susan Brownmiller venne letto da molte femministe anche se in epoca successiva al ’68. Come mai l’informazione non circolò nei movimenti? O forse i vasi non erano comunicanti come credevamo? E’ possibile che chi leggeva il libro della Brownmiller nella seconda metà degli anni settanta non fosse più in grado di identificare Cleaver come un riferimento della generazione ribelle precedente. Chissà…

LA BATTAGLIA PER LA LIBERTA’ DELLE PANTERE NERE

di Gianni Sartori

 

Martin Luther King ha pregato e predicato per la libertà, Malcom X ha detto che bisognava prendersela, i Black Panthers lo hanno fatto”: Melvin e Mario Van Peebles

 

 Aprire un articolo sulle Pantere Nere con una citazione attribuita a due registi afroamericani, padre e figlio, non è assolutamente fuori luogo.

Quando agli inizi degli anni settanta del secolo scorso Melvin Van Peebles realizzò «Sweet sweetback’s baadasssss song» il Bpp (Black Panther Party) consigliò caldamente a tutti «i rivoluzionari neri» di andarselo a vedere. Nel film Mario, dieci anni, aveva una particina. Venticinque anni dopo i ruoli si erano invertiti. I due sono stati rispettivamente attore (Melvin, il padre) e regista (Mario, il figlio) in «New jack City» e «Posse».

Nel 1995, con «Panther» (di cui Mario era il regista e Melvin lo sceneggiatore) realizzavano finalmente il loro vecchio sogno di girare un film sulle Pantere Nere, sulla loro epopea (dal 1966 al 1968) e sulla repressione senza scrupoli a cui vennero sottoposte. Negli Stati Uniti nessuno aveva voluto finanziare il film che in seguito venne sottoposto a una dura azione di boicottaggio. Del resto questo avvenne anche in Italia dove, più che nelle sale cinematografiche, venne proiettato nei circuiti alternativi (in particolare nei Centri Sociali Occupati) grazie al Leoncavallo che ne distribuì una copia sottotitolata.

«Panther» raccontava la storia dell’organizzazione rivoluzionaria di Bobby Seale, Huey P. Newton, Eldrige Cleaver che negli sessanta cominciarono a pattugliare armati i ghetti per opporsi agli abusi della polizia. Dalla scorta a tutela di Betty Shabazz, vedova di Malcom X, fino alle provocazioni operate da Cia e Fbi che arrivarono ad allearsi con la mafia per alimentare la diffusione della droga nei ghetti afroamericani. Sia per sradicarne lo spirito comunitario che per disarticolare l’organizzazione rivoluzionaria.

PRIMA C’ERA IL BLACK POWER, POI ARRIVARONO LE PANTERE NERE

Dalle rivolte di Watts, Detroit e tante altre metropoli, oltre che dalle lotte antisegregazioniste nel Mississipi e nell’Alabama, negli anni sessanta era nato il «Black Power» (Potere Nero, il cui esponente più noto fu Stokely Carmichael, poi conosciuto anche come marito di Miriam Makeba).

In seguito presero piede organizzazioni di classe e rivoluzionarie come la «League of Revolutionary Workers» di Detroit e appunto il «Black Panther Party for Self Defence» che ben presto assurse a un grande prestigio internazionale, soprattutto in quello che all’epoca veniva definito “Terzo Mondo”. Sicuramente le Pantere rappresentarono la novità più eclatante nel panorama politico statunitense di quel periodo, decisive nel catalizzare tutte le posizioni radicali fino ad allora sparse e confuse su metodi e obiettivi. Contribuirono enormemente anche allo sviluppo delle lotte dei radicali bianchi, delle organizzazioni studentesche e alla presa di coscienza, oltre che all’autorganizzazione, delle altre popolazioni oppresse dagli Usa (portoricani, chicanos, indiani d’America, bianchi poveri…).

Il primo nucleo del Black Panther Party si costituì nell’ottobre del 1966 in California, a Oakland. All’epoca contava solo tre membri (Huey P. Newton, ministro della difesa, Bobby Seale, presidente e Bobby Hutton) che elaborarono una piattaforma politica in dieci punti. Tali rivendicazioni, fondamentali per organizzare la comunità nera e potersi opporre alla violenza della polizia, incontrarono l’immediato interesse degli abitanti dei ghetti.

L’organizzazione cominciò a crescere, si dotò anche di un giornale (il «The Black Panther») e i primi tre militanti, autentica milizia popolare, cominciarono a percorrere armati (come all’epoca garantiva la Costituzione) le strade di Oakland, controllando l’operato dei poliziotti. I primi scontri furono soprattutto verbali e videro vincente la grande abilità dialettica, unita a una precisa conoscenza delle leggi, di Newton. Ogni discussione si trasformava in un vero e proprio comizio che permetteva agli abitanti dei ghetti di prendere coscienza dei propri diritti (oltre che dei doveri dei poliziotti) rendendo evidenti tutti quei trucchi e meccanismi con cui da sempre la polizia cercava di incastrare i neri sprovveduti.

Era finalmente un’occasione per scrollarsi di dosso la rassegnazione, per reagire agli abusi e alle ingiustizie. A questo punto la tattica della polizia cambiò. Vi furono numerosi attacchi alle sedi del partito, in genere da parte di poliziotti fuori servizio (che non vennero mai sospesi) e l’uccisione di Bobby Hutton, all’età di diciassette anni, mentre usciva disarmato e con le mani alzate da una abitazione. Nella stessa circostanza venne ferito gravemente anche Eldridge Cleaver. Da quel momento l’uccisione dei militanti più in vista divenne un fatto abituale. In poco tempo il Bpp era riuscito a organizzare numerose attività nei ghetti, coinvolgendo soprattutto i disoccupati, i giovani esponenti delle bande di quartiere, gli emarginati. Vennero istituite le “Liberation Schools” (dove si insegnava la vera storia degli Stati Uniti: la schiavitù, il genocidio degli indiani…), programmi di colazioni gratuite per i bambini poveri, distribuzione di abiti, aiuto legale per i militanti arrestati. Ben presto il partito cominciò a radicarsi anche nelle prigioni e nell’esercito, dove l’oppressione sociale e razziale si riproduceva in modo esasperato.

Due i principali obiettivi dell’organizzazione: sviluppare il diritto all’autodifesa e all’uso delle armi quando venivano attaccati e la lotta politica su basi sempre più di classe e non di razza. Veniva quindi superato il concetto di “black power” che riteneva prioritaria la lotta dei neri contro i bianchi. Le Pantere temevano, non a torto, che una tale strategia avrebbe finito con l’essere cooptata dal sistema (vedi la “borghesia nera”, il “capitalismo nero”…). Anche per queste ragioni si scontrarono duramente con alcune organizzazioni nere nazionaliste come gli US di Ron Karenga. Da rileggersi in proposito la “lettera aperta” di Cleaver a Carmichael.

POTERE AL POPOLO

Lo slogan delle Pantere divenne «Power to the people», individuando nel capitalismo il principale oppressore sia dei neri che dei portoricani, dei chicanos e dei proletari bianchi. E trovando nell’internazionalismo un formidabile strumento di lotta.

Da ciò derivava la profonda e dichiarata solidarietà con il popolo vietnamita, con quello cubano, algerino… I militanti del partito in divisa (basco nero, giacca di pelle nera, maglione scuro con il simbolo della pantera) che pattugliavano con le armi bene in vista le aree proletarie stavano diventando ormai uno spettacolo abituale e naturalmente l’effetto era galvanizzante per i frustrati e, fino a quel momento, rassegnati abitanti dei ghetti.

Nelle prigioni il messaggio delle Pantere trovò un terreno fin troppo fertile. Del resto proprio nelle galere statunitensi era maturata la presa di coscienza di disperati come Malcom X e George Jackson, alimentata dalla violenza dell’istituzione, dal sadismo dei secondini, dalla quasi impossibilità per i diseredati di spezzare il circolo vizioso reato-condanna-emarginazione-altro reato-altra condanna. La stragrande maggioranza dei detenuti era costituita da neri e portoricani mentre i secondini erano per lo più bianchi. L’intervento delle Pantere offrì una prospettiva di lotta comune ai prigionieri. Partendo da lotte rivendicative sul vitto, l’alloggio, la libertà di corrispondenza il movimento giunse presto a confrontarsi con tutto il sistema carcerario. Nel settembre del 1971, un mese dopo l’assassinio di George Jackson, l’opinione pubblica si trovò ad assistere incredula alla feroce repressione della rivolta di Attica. Una efferata carneficina in cui, oltre a una trentina di detenuti, il fuoco della polizia e della Guardia Nazionale stroncò la vita anche di parecchi ostaggi (come confermò una successiva inchiesta). Così lo Stato imperialista rispondeva, con le squadre della morte e con i massacri, al timore suscitato dall’autorganizzazione degli oppressi.

In precedenza, nel 1970, alcuni poliziotti avevano assassinato in una sede del Bpp due ragazzi mentre dormivano nel sacco a pelo: Fred Hampton e Mark Clark: un Gran Jury federale stabilì che tutti i novantanove colpi erano stati esplosi dai poliziotti e che le due giovani Pantere erano passate direttamente dal sonno alla morte. A queste esecuzioni ne seguirono altre, episodi oscuri su presunti “scontri” tra esponenti del Bpp e poliziotti che sistematicamente si concludevano con la morte dei militanti neri.

Contemporaneamente Seale, Cleaver (in seguito rifugiatosi in Algeria) e Newton vennero arrestati in base ad accuse chiaramente prefabbricate.

I processi risultarono una farsa. Quando Bobby Seale, privo di avvocato, richiese di potersi difendere da solo (come riconosciuto dalla Costituzione) venne fatto imbavagliare e incatenare dal giudice Hoffman. Intanto continuava il tiro al bersaglio contro i militanti e la crisi innescava lacerazioni e faziosità nel partito, soprattutto tra le posizioni velleitarie di Cleaver, in quel periodo più favorevole alla lotta armata e quelle di Newton e Seale, convinti della priorità dell’educazione politica.

Tutto questo contribuì al declino del Bpp lacerato tra il sostegno ai Weathermen e l’alleanza con lo spompato partito comunista americano. Emblematica dello stato confusionale in cui versava una parte dell’organizzazione, la partecipazione elettorale al fianco di Peace and Freedom Party con la candidatura (poi ritirata) di Cleaver a presidente degli Usa.

Anche la vita di Huey P. Newton si concluse tragicamente. Venne assassinato da Tyrone Robinson (a cui Newton aveva proibito di spacciare droga nel suo quartiere) nel 1989.

Nonostante le innegabili contraddizioni e sconfitte (in parte innescate dalla feroce repressione statale) va sottolineato come l’esempio delle Pantere Nere fu indispensabile per la presa di coscienza di altre minoranze oppresse degli Stati Uniti. Organizzazioni come i Young Lords (portoricani), i Brown Berets (chicanos), Stone Revolutionary Grease e Patriot Party (proletariato bianco) e anche l’Aim (Movimento degli Indiani d’America, fondato nel 1968 a St. Paul nel Minnesota) furono assai influenzate dalle Pantere Nere. Ne adottarono i metodi di lotta e propaganda (dalle “colazioni gratuite” all’autodifesa armata) e subirono anche gli stessi metodi di repressione governativa. Ma questa è un’altra storia in attesa di essere raccontata. Magari da qualche epigono portoricano, messicano o indiano dei due Van Peebles. E concludo citando l’ultima frase del protagonista del film «Panther»: «Per come la vedo io la lotta continua».

LA STORIA DELLE PANTERE NERE

di Ron Jacobs

Se una data precisa può essere assegnata a un evento storico che si sviluppò per tutto un decennio, questa dovrebbe essere il 15 ottobre 1966, data relativa alla nascita del Black Panther Party for Self Defense (Partito della Pantera Nera per l’auto-difesa) formato da due giovani dell’Oakland, in California.

Bobby Seale e Huey Newton erano due fratelli di pelle scura che frequentavano il college dove si sentivano frustrati quando si confrontavano con i gruppi che lottavano per i diritti, in larga misura perché non testimoniavano i fatti o le emozioni degli americani neri che vivevano per le strade. Loro ritenevano che questi gruppi dovessero essere più radicali e di sostegno ai problemi degli statunitensi “di pelle nera” che vivevano alla mercè del padrone e del sistema sociale, in modo da trasformare la loro vita quotidiana in una lotta (a volte armata) contro le forze di polizia. Certamente, la polizia era (ed è) nient’altro che l’espressione della più ovvia brutalità del sistema costruito sulla schiavitù di un popolo per il profitto e il potere in quella che conosciamo essere la via americana.

Diversamente dal mito popolare, il Partito della Pantera Nera non nacque nei club e nelle case delle comunità nere dell’Oakland, in California, con le armi già pronte a sparare. Infatti le loro prime azioni riguardarono, in collaborazione con la chiesa e con gruppi vicini, la richiesta di porre un semaforo a un incrocio nei pressi di una scuola dell’Oakland orientale dopo una serie di “incidenti” stradali che avevano coinvolto anche bambini. Il governo della città dell’Oakland aveva ignorato le richieste di questi gruppi per anni, dichiarando che nonostante quell’incrocio fosse nei loro piani, al momento la città non poteva permettersi di installare un semaforo. Le Pantere avviarono un’azione diretta. Cominciarono a dirigere il traffico, a fermare le macchine per permettere ai bambini e ai loro genitori di attraversare la strada. All’inizio il Dipartimento della polizia dell’Oakland (Opd) bloccò l’operazione ma quando molti membri e capi della chiesa si unirono alle Pantere e ai loro sostenitori, la Opd si tirò indietro. Subito dopo la città fece installare un semaforo all’incrocio.

Se qualcuno leggesse i dieci punti del programma delle Pantere non troverebbe un documento radicale in cui si sollecita l’affermarsi di una dittatura del proletariato nè un programma per installare un regime razziale anti-bianco. No, si chiedeva chiarezza e risarcimenti per la storica schiavitù degli americani neri da parte dei governanti bianchi delle colonie americane e dei primi Stati Uniti. Sicuramente le Pantere consideravano la situazione del popolo nero negli Stati Uniti comparabile a quella di una colonia, e questa convinzione è presente ancora oggi, 34 anni dopo la nascita del partito. Qualcuno potrebbe contestare le diverse inadeguatezze teoriche di questa convinzione, ma la verità dello status economico della maggior parte degli americani neri è questa: hanno poca proprietà; sono soggetti al capriccio dei poteri capitalistici; dove loro producono beni e servizi, il controllo resta nelle mani del potere coloniale (o neocoloniale); in termini di cultura del colonizzato, esso è espropriato, manipolato e sfruttato.

Le Pantere rappresentavano il bersaglio privilegiato dell’opera di contro-rivoluzione durante al loro esistenza, se non addirittura nell’intera storia degli Stati Uniti. Esse cominciarono a osservare la polizia dell’Oakland per verificare se adempiesse ai suoi doveri, provocando la collera dei poliziotti. Siccome le Pantere portavano con pistole cariche, il Corpo legislativo dello Stato della California bandì quella pratica. La vista di uomini neri con le pistole in mano era troppo dura perché la timorosa cultura bianca la sopportasse. Nell’aprile 1968, uno dei veterani delle Pantere fu ucciso dalla polizia dell’Oakland. Al 16enne Bobby Hutton fu sparato durante un conflitto che portò anche all’arresto di Eldridge Cleaver, che si era unito al Partito dopo essere stato rilasciato da una prigione nel 1967. Cleaver andò in esilio dopo essere stato liberato su cauzione. Le sue divergenze teoriche con alcuni membri del partito, soprattutto con Bobby Seale e Huey Newton, sarebbero state utilizzate dagli agenti Fbi e da altri nella campagna mossa contro le Pantere. Questa campagna rappresentava un nucleo considerevole del programma COINTELPRO e includeva qualsiasi cosa, dall’infiltrazione all’omicidio. La morte di Bobby Hutton fu solo la prima di molte altre.

Dal 1971 i capi del Partito sono stati imprigionati con accuse discutibili e spesso del tutto false. Alcuni suoi membri – fra i quali Fred Hampton e Mark Clark – furono uccisi dalle “squadre della morte” del governo. Gli agenti e gli informatori del governo diffusero pettegolezzi circa la sessualità e le infedeltà dei membri; tutto ciò creò gelosia e sfiducia. Inoltre “cucirono vestiti da spia” sui membri nel tentativo di minare la credibilità dell’organizzazione all’interno del partito e nell’intera comunità. Nonostante la guida del Partito fosse in prigione, o spesso in tribunale, i membri continuarono ad aumentare. Diversamente dai primi giorni, l’educazione politica fu abbastanza completa. Ciò creò una situazione in cui ai teppisti di strada che si univano al Partito per interessi personali veniva inculcata una motivazione politica o venivano cacciati fuori se rifiutavano di cambiare le loro abitudini. Alla base di tutti gli omicidi e i massacri del governo, c’era sempre la droga, il solito espediente.

All’interno del Partito, gli scismi si stavano ingrandendo. Analizzando la situazione Cleaver riteneva che gli Stati Uniti vivessero in uno stato rivoluzionario e fosse il momento giusto per una rivoluzione armata. Questa considerazione fu condivisa da numerosi membri delle associazioni della Costa Orientale e dall’ala internazionale del Partito. L’analisi proposta dall’ala dell’Oakland e da Huey Newton fu che gli Stati Uniti erano ancora lontani da una rivoluzione e che era necessario che il Partito si impegnasse nell’educazione e nell’azione comunitaria. Le armi e la violenza servivano solo per difendersi. Nonostante queste differenze che erano anche ideologiche, la maggior parte delle associazioni delle Pantere stava organizzando programmi e scuole, fornendo servizi e un’educazione positiva alle persone più vulnerabili.

Qualcuno potrebbe comunque contestare che questi programmi rappresentassero quello che il potere realmente temeva. Questi programmi portarono via al padrone il potere di dare e togliere; dicevano ai sistemi sociali e educativi del potere che il popolo nero era stanco di essere manipolato. In un certo senso succedeva come per lo Stato dell’Islam e il suo programma di darsi pieni poteri. Ma le Pantere si spinsero oltre. Esse non parlavano solo di attribuirsi pieni poteri ma anche di auto-determinazione; non parlavano solo di imprese di proprietà nera, parlavano di vere comunità nere.

Purtroppo, come molti altri audaci tentativi di quel periodo negli Stati Uniti e nel mondo intero, fallirono nella realizzazione finale dell’obiettivo. Tuttavia aiutarono a creare qualcosa di nuovo in questa nazione di schiavi. Diedero a ognuno di noi, qualunque sia il colore della pelle, un barlume di speranza e la possibilità di costruire una nostra storia. Misero in guardia i gruppi privilegiati che detenevano il potere – un avvertimento che non hanno dimenticato. […]

Fonte: www.counterpunch.org/

Link: www.counterpunch.org/jacobs10142005.html

La traduzione – per www. comedonchisciotte.org a cura di LORY & STEFY – è stata sistemata in qualche punto [db]

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • Non ho parole, ma chissà perché non mi stupisce: una volta durante una conferenza – in cui insieme a me parlava una missionaria che con un team davvero speciale combatteva IN AFRICA l’infibulazione rituale – ho incontrato un SEDICENTE compagno che ha proclamato che in fondo se le mutilazioni genitali facevano parte della “loro”
    cultura non andavano certo messe in discussioni da “noi” donne occidentali! Che tristezza…

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