«Erede della pietra. Parola della sordina»

recensione di Pierluigi Pedretti all’antologia poetica di Anna Petrungaro

Attivissima sul territorio per il suo impegno in difesa delle donne maltrattate e nella diffusione della cultura, Anna Petrungaro da anni scrive di temi civili e sociali, intersecandoli con il proprio vissuto personale e familiare, come nel caso di questo suo ultimo e intenso lavoro, «Erede della pietra – parola della sordina».

Ha pubblicato nel tempo, vincendo anche diversi premi, su riviste (Nosside, Il quaderno del poeta, Capoverso), antologie («Quadernario Calabria», «Sud») e scrivendo libri («Ma fallisce l’anima», «La tenera mattanza»). Non credo di sbagliare se affermo che con questo suo ultimo testo compie il balzo definitivo verso la piena maturità per padronanza dei mezzi linguistici e per profondità di temi trattati.

Oggi la Petrungaro ci consegna un poema su di Lei e il Padre, sulla Figlia e Lui, sull’IO, sull’universo femminile che guarda al Passato (della tradizione e del patriarcato) per superarlo, svelando le tracce di un Presente molto complicato. Un libro particolare, in realtà, con uno schema piramidale: ai lati le poesie, al centro un racconto di un dramma familiare, che aggruma, spiega e definisce il contesto, strappato al silenzio dei suoi parenti dall’autrice dopo anni di ricerche.

Resta pur sempre una raccolta di versi e la lingua prevalente è quella della poesia, dunque polisemica, complessa, letteraria, affascinante, repulsiva e attraente, dove il lessico è selezionato con attenzione estrema, perché in questo mondo cacofonico e confuso “l’erede della pietra” (o del padre, o del luogo dell’anima) cui si àncora la vita, sa che alla parola della sordina si presta più attenzione quando meno si sente la sua flebile voce.

Il tono odierno è diverso dalla raccolta precedente («Tenera mattanza») che la poetessa aveva elaborato sull’esperienza maturata in una struttura neuro psichiatrica. Lì la materia che aveva in mano era incandescente, per cui lo scioglimento era complicato proprio per il rapporto con una comunità di adulti con problemi linguistico-espressivi. Giorgio Franco aveva scritto: << La Petrungaro, consapevole della propria inadeguatezza “fuori sto distante”, ma principalmente conscia che l’acqua resta sempre acqua “repellente/ai suoni/ai segni/accaniti/”, ricorreva agli unici artifici che un poeta possiede per esprimere la propria condizione di amarezza e rammarico, per non aver trovato la cifra giusta, o peggio, di essere ricorsa alle “pietre che ci mettiamo sopra di continuo” con il disonore di arginare la propria impotenza>>.

Oggi appare tutto più piano, disteso, certo non meno semplice, ma è come se la Petrungaro nel corpo a corpo con le figure familiari abbia raggiunto finalmente la piena consapevolezza della sua forza interiore, e dunque linguistica. Certo non deve essere stato per nulla facile, se per decenni questa magmatica materia è stata covata dentro di sé. Ma arrivata l’ora, tutto è esploso, liberando le energie trattenute fino ad allora e incanalandole grazie a uno straordinario linguaggio poetico verso la “liberazione”: << Ho messo in comune i miei romanzi passati / le parole desideravano il racconto / esofago cortecce inguini mobilitati / il via l’ha scattato una foto ricordo / il giorno che la notte ridusse in poltiglia / e fu gambo senza fiore/…>>.

Non ho piena competenza di specialista, non mi sento dunque di entrare nello specifico del linguaggio poetico della Petrungaro e di tematiche che non si esauriscono certo solo nel confronto con il Padre, per cui demando al Critico il difficile compito della interpretazione di un testo che ho trovato affascinante. Starò allora in superficie, con il solo obiettivo di suggestionare il pubblico dei lettori per invogliarli a prendere in mano il libro e immergersi nella sua profondità. Infatti se ci calassimo nel mare petrungaresco, troveremmo scogli perigliosi appena sotto il pelo dell’acqua, fatti di materia composita (vita-morte, la casa avita, il mare dell’infanzia, l’amato borgo familiare, il ruolo della donna…) da affrontare con la barca della poesia, al cui timone sta la poetessa (sintassi, lessico, ritmo, versi, sonorità, assonanze…) che ci guida grazie alla padronanza di sicuri mezzi espressivi.

Quasi dieci anni fa Luigi Zoja, ne «Il gesto di Ettore», utilizzando la figura dell’eroe omerico scriveva uno dei testi più importanti sulla paternità degli ultimi anni. Il padre per essere veramente tale deve essere sia aggressivo (le armi offensive, la spada) che difensivo (la corazza, lo scudo). Egli è un combattente, e lo dimostra nel primo caso per tono fermo della voce, decisionale; nel secondo caso, per resistere ai sentimenti e alle richieste dei familiari. Ettore infatti è padre perché non recede davanti alle suppliche dei suoi cari, sa che non può che andare incontro al suo destino. Nel salutare il figlio Astianatte prima del duello con Achille, il bambino, spaventato dall’armatura del padre, piange. Allora Ettore compie il Gesto, si toglie l’elmo e si china a prenderlo in braccio ed elevandolo verso il cielo, rivolge agli dèi la preghiera: «Zeus e voi altri dèi, rendete forte questo mio figlio. In mondo che un giorno, vedendolo tornare dal campo di battaglia, qualcuno dica che egli è molto più forte del padre». Scrive Anna Petrungaro: << Io sono compatta/ ma tu mi hai fatto/ temporale>>.

Il gesto di Ettore è un testo aperto a molteplici letture. Non so se la Petrungaro lo conosca ma so per certo che di Zoja ha letto «Centauri», libro sulla violenza che i maschi in branco hanno praticato per secoli sulle donne. Dico questo perché nel libro in questione il tema è principalmente quello del rapporto tra una femmina/Figlia e un maschio/Padre. So di muovermi in un terreno minato, che invece la poetessa per sua cultura politica padroneggia benissimo, ma so anche che lei scrive: << Di rado / scaricavi una scossa / di paternità / tenendomi in braccio / ti sgusciava fuori dalle dita / la paternità / come un pesce dibattuto / scivolavo pur’io / in fasce/ scivolavo via da te / cadevo come il pesce / nel braciere acceso / con le mani davanti…>>. E io rispondo con Zoja: << La dolcezza può sgretolare l’ordine, allora le si deve opporre una durezza compatta e fredda come la superficie di una corazza. In questo modo il mondo patriarcale ci ha abituato all’esterno della corazza, facendoci dimenticare che il suo senso sta all’interno: secondo un mito etimologico, corazza è ciò che protegge il cuore (latino: cor) >>.

C’è una lunga tradizione letteraria sul rapporto padre-figli, di cui ricordo qui solo alcuni degli ultimissimi autori che vi hanno scritto attorno, e che più mi hanno colpito per incisività: Paolo Cognetti, Valerio Magrelli, Fernando Aramburu, Gianfranco Carofiglio, Karl Ove Knausgard, Cormac McCarthy, Teresa Ciabatti e Rossana Campo.

Uno dei più conosciuti poeti italiani, Milo de Angelis, in un’intervista per il suo libro «La parola data» ha dichiarato che il romanzo novecentesco è dominato da padri violenti e tirannici, mentre la poesia presenta una situazione più variegata come dimostrano ad esempio i versi di Risi, Zanzotto, Giudici, Sbarbaro, Luzi, Saba. Le poetesse poi – e non solo Aleramo o Merini, ma si pensi anche a Silvia Plath, Antonia Pozzi o Laura Speziani, Rosaria Lo Russo – affrontano il rapporto con il padre e, più in generale, con la figura maschile con una sensibilità straordinariamente affascinante e dolorosa, sia quando scrivono di padri-padroni, di padri protettivi, o di maschi assenti. Anna Petrungaro scrive: << – ti struggevi alla russa / con occhi liquidi e cinerini – / percolavi pure prima un pochino / nel fermento del lievito finale / – anch’io molliccia dentro l’orma / sebbene eriga passi e futuri prossimi – / spesso t’ammuso e adopero il furore / e mi applico alla vita/…>>.

Viviamo in un’epoca di verbosa alluvione, non solo in ragione dell’assedio cui ci sottopongono i media ma anche per il diritto conquistato dalle genti a una presenza e a una partecipazione al passo con quella trans-modernità, che sta travolgendo soprattutto le nostre esistenze di Occidentali. Qualcuno ha scritto che decenni fa la ritirata del Padre, anzi la sua scomparsa anticipava il cosiddetto “tramonto dell’Occidente”. Oggi che viviamo in pieno questo “senso della fine” ne tentiamo il recupero? Questo chiederei alla Petrungaro e a tutti coloro che in questi ultimissimi anni vi stanno scrivendo. Se questa esigenza nasca da un moto dell’animo, figlio o meno di questi tempi, o non sia semplicemente orientato dalla pervasività dell’industria editoriale. Comunque sia, abbiamo bisogno di “ pietre”.

<< (…)

oh incombenza

di questa

romanza in dote

Eredità delle pietre

che sento rimare

rimare con tutto”

 

Vulnerabile eredità

dove in ore di raro nitore

estatica e sommersa

padre

nel tuo e nel suo

abbraccio e bacio

di passione

sono navata e

sono acqua

nell’acqua

in pieno fiume >>.

Anna Petrungaro , «Erede della pietra – parola della sordina», ilfilorosso, (pp. 168, euro 12) 2017

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