Eritrea, i crimini italiani

di Francesco Cecchini (*)

Eritrea, l’altopiano e Asmara la capitale, la Dankalia, vulcani e un lago di sale, una costa di centinaia di chilometri lungo il Mar Rosso, Massaua, porto tropicale di fronte alle isole Dahalak. Un’Africa che merita di essere visitata e vista.

Ma un’Africa carica di problemi. Fra le cause anche il colonialismo fascista, i suoi crimini, che elencheremo, e i suoi errori (per esempio i confini con l’Etiopia lasciati indefiniti) che ancor oggi sono causa di tensioni e guerre.

Nell’immaginario di molti italiani – non solo di quei pochi, ancora in vita, che hanno perduto un’esistenza di privilegi – questa terra era una volta l’Eritrea Felix. Se nelle vicine Libia ed Etiopia i colonialisti e i fascisti avevano stuprato, torturato e ucciso, qui – a sentir loro – si erano comportati bene, portando civiltà e benessere anche per gli eritrei. E’ una falsità storica che la nostalgia per il paradiso perduto alimenta. I bianchi hanno costruito per loro stessi. Le infrastrutture, strade, ponti, ferrovie, fabbriche e aziende agricole sono state costruite e formate per il proprio sviluppo economico e benessere. Hanno edificato ville e alberghi dove vivere con privilegi; chiese dove pregare il proprio dio; bar, ristoranti e bordelli dove divertirsi. Non sono stati regali di civiltà al popolo eritreo. La missione dei coloni non è stata migliorare le condizioni di vita degli indigeni. Eritrea Felix per il bianco, Eritrea infelice per il popolo eritreo: una razza integrata al progetto coloniale come “inferiore” con funzioni subordinate e servili. La ferrovia Asmara-Massaua, i ponti, le architetture di Asmara e altro esistono ancora e sono utilizzati ma non sono un regalo, bensì un bottino di guerra del popolo eritreo, che ha conquistato con l’indipendenza le opere degli italiani.

Oltre a migliaia di morti, il colonialismo e il fascismo furono responsabili in Eritrea di razzismo e sfruttamento, di crimini sessuali e di uno spietato sistema carcerario.

Un genocidio africano.

 

NELLA FOTO: africani sterminati in Abissinia.

Il numero di morti eritrei dal 1890 al 1941 fu alto, anche se inferiore e di molto a quello dei libici e degli etiopi. Per dare un’idea del genocidio africano di cui l’Italia coloniale e fascista è responsabile, le perdite etiopi nella guerra del 1935 e 1936 furono 760.000, secondo il numero fornito dal Negus alla Società delle Nazioni. Un numero forse non esatto ma che indica la dimensione del massacro. In Etiopia a questo numero immenso, vanno aggiunte le perdite della prima guerra italo-etiope (1895–1896) e in seguito le stragi di bambini, donne e uomini dopo l’attentato a Graziani nel 1937 e il massacro di Amazegna Wagni nel 1939, più i morti della seconda guerra mondiale in Africa Orientale. Gli eritrei che hanno pagato il più alto prezzo di sangue furono i soldati dell’esercito coloniale, gli ascari. Le stime però sono molto vaghe. Per i soldati italiani morti in terra d’Africa la contabilità è precisa, le truppe eritree invece erano carne da macello, qualche migliaio in più o in meno ha poca importanza. Circa 2000 furono gli ascari morti nella prima guerra italo-etiopica, fra il dicembre 1895 e l’ottobre 1896. Nella seconda guerra italo-etiopica (1935-1936) gli ascari morti sono da 3500 a 4500. Contro gli inglesi i morti eritrei si stimano essere 10000, solo 3700 nella battaglia di Gondar nel 1941. Queste morti di soldati di un popolo dominato, arruolati con la costrizione o con il miraggio di sfuggire la fame, per combattere sotto la bandiera del dominatore devono essere addebitate al colonialismo e al fascismo italiano.

Razzismo

NEL DISEGNO: le africane oggetti sessuali e gli africani codardi

Anche negli anni precedenti Mussolini, la politica coloniale italiana in Eritrea fu razzista e discriminatoria. Un solo esempio: la trasformazione di Arbate Asmara (alcuni villaggi antichi di mille anni con varie etnie) nella città coloniale di Asmara dove gli africani vivevano segregati dalle zone bianche. Quando il generale Baldissera nel 1989 si avventurò fuori di Massaua e arrivò ad Asmara, occupò la più alta collina che guardava l’altipiano, costringendo il villaggio di Beit Mekae e i suoi abitanti ad andarsene. La collina fu recintata, da qui il nome di Campo Cintato, e divenne il nucleo iniziale della città coloniale, il cui accesso fu sempre proibito agli eritrei. La principale preoccupazione era la difesa da una possibile ribellione della popolazione indigena. Il primo governatore civile, Ferdinando Martini fece preparare il piano regolatore di Asmara nel 1902 principalmente concentrando gli sforzi sul miglioramento delle condizioni igieniche di Campo Cintato, area bianca esclusiva. Nel giro di pochi anni vennero elaborati altri tre piani urbanistici, con lo scopo di definire la forma urbis della città coloniale. Il piano del 1908 definì 4 quartieri. Il primo fu un’area solo per europei, principalmente italiani, il secondo con al centro il mercato per bianchi fu misto (ebrei, greci, commercianti arabi e anche eritrei), il terzo attorno alla chiesa ortodossa Enda Mariam, il quarto fu un’area destinata agli insediamenti artigianali o industriali. Lo scopo del piano del 1908 fu migliorare le condizioni dei quartieri per italiani e confinare gli eritrei al nord della città o nella zona industriale. Gli eritrei che avevano proprietà nel centro della città furono costretti a vendere o svendere la propria terra e andarsene. Quello del 1913 fu solo un perfezionamento dei due precedenti. La segregazione razziale nella programmazione della forma urbis di Asmara non fu il mero punto di vista di architetti e urbanisti di cultura razzista, ma la cosciente politica del governo coloniale di istituzionalizzare la discriminazione. I neri eritrei non avevano i diritti dei bianchi italiani, furono integrati al progetto coloniale come classe inferiore con funzioni subalterne e servili. Durante il periodo fascista la segregazione razziale si approfondì: da pratica diventò legge e si arrivò a un vero proprio apartheid (stile sudafricano) con regole scritte molto rigide, che ribadirono usi e costumi precedenti. Le scuole restavano separate così le chiese, gli ospedali e i trasporti. Il Campo Cintato e i quartieri europei erano proibiti ai neri che implicitamente non potevano frequentare i ristoranti e i bar dei bianchi. Gli eritrei non potevano comprare moda europea, vestiti, camice e scarpe. Era loro vietato esercitare certe occupazioni. La «Legge Organica per l’Eritrea e la Somalia» del 1933, cui seguirono decreti applicativi, prevedeva la necessità di procedere a un’analisi antropologica etnica finalizzata all’accertamento della razza al fine di definire standard limitativi per la concessione della cittadinanza a figli di coppie miste. Autorizzava discriminazioni basate su caratteristiche fisiche. Nell’estate 1935 Mussolini iniziò a formulare con più chiarezza le sue idee razziste chiedendo al ministero un piano d’azione per evitare una generazione di mulatti, che culminò con la legge del 1937 «Provvedimenti per i rapporti fra nazionali ed indigeni» (o Provvedimenti per l’integrità della razza). Lo scopo era combattere i matrimoni misti, evitare che sangue bianco e nero si mescolassero .

Con la fondazione dell’Impero, la discriminazione razziale fa un balzo in avanti diventando legge dello Stato. Nel 1938 l’Italia, sola fra i Paesi dell’Europa, trasforma la discriminazione razziale da pratica a legge. La colonia Eritrea diviene il primo laboratorio di sperimentazione delle leggi razziali che saranno estese a colpire gli ebrei in tutto l’Impero. Gli stessi ascari, che la propaganda dice di ben ricompensare per la loro fedeltà e coraggio non sono esenti da umiliazioni razziste. La separazione dai soldati italiani è assoluta. Vengono fatti marciare a piedi nudi, le scarpe vengono date solo agli italiani. Mentre i soldati bianchi bevono dai bicchieri, loro bevono da recipienti di metallo. Le punizioni per infrazioni non sono le stesse dei soldati italiani, ma – a seconda dei reati – ricevono da 20 a 70 frustate. La pena viene sempre inflitta da un altro ascaro, ma questa, nell’intenzione dei colonialisti fascisti che hanno redatto i regolamenti, è un’ulteriore umiliazione. La frusta è fatta di pelle di ippopotamo, il famoso curbash, e lascia segni permanenti.

CRIMINI SESSUALI

 

NELLE FOTO: donne africane da “utilizzare”

Un episodio agli inizi dell’avventura coloniale in Eritrea è emblematico di futuri cinquant’anni di violenze e soprusi sulle donne di quel Paese. Dopo l’occupazione di Asmara, il generale Baldissera, su richiesta scritta dei suoi ufficiali, estrasse a sorte le cinque vedove del Kantibal Aman, morto in carcere, da assegnare ad altrettanti gentiluomini per soddisfarne i bisogni sessuali. Siamo nel 1889 ed è il debutto, o quasi, di una lunga storia di molestie, stupri, atti di pedofilia, pornografia, di crimini sessuali.

Come scrivono Gabriella Campassi e Maria Teresa Sega (in «Rivista di storia e critica della fotografia», numero 5 del 1983) sotto il titolo «Uomo bianco e donna nera»: «La donna nera diventa il simbolo dell’Africa… ed il rapporto uomo bianco – donna nera è simbolico del rapporto nazione imperialista coloni».

La donna eritrea diventa quindi il simbolo di un’azione colonizzatrice dove l’uomo bianco la domina sia per la razza che per il genere. La donna nera assieme alla terra e alle ricchezze naturali è parte del bottino, il bianco ne può disporre come vuole. Nel corso dei 50 anni di possedimento cambia il rapporto fra Italia e l’Eritrea, prima una colonia poi parte dell’Impero. Cambia anche la rappresentazione della donna, che fu funzionale alle differenti fasi. Nella prima fase lo sfruttamento sessuale delle eritree fu non solo giustificato e tollerato ma promosso per attrarre maschi, scapoli e anche sposati, a venire a lavorare e abitare questa terra. Anche per gli stupri o altre forme di molestia sessuale venne chiuso un occhio. Le innumerevoli fotografie scattate contribuiscono a far capire che significato aveva la donna nera nella cultura razzista e sessista degli italiani. Le donne sono il soggetto più fotografato dai colonizzatori: in genere sono nude e in pose invitanti e costituirono un vasto mercato di immagini pornografiche sia nella colonia che in patria. Una promozione della merce donna nera, un beneficio per chi vive in colonia.

Anche quello che potrebbe significare il rovesciamento di questa situazione, la legge del 1937 con le sanzioni per i rapporti di indole coniugale fra cittadini italiani e sudditi neri, finisce con l’essere solo un anello fra le politiche razziali del colonialismo fascista e il ruolo della donna indigena.

Secondo i fascisti l’eritrea nera era per lo sfogo sessuale, quella italiana bianca era per l’amore, per formare una famiglia. Negli anni dell’Impero al fine di limitare il numero dei meticci se non di eliminarlo, si proibirono canzoni come «Faccetta Nera»e si propagandò un’immagine ributtante delle donne africane.

Paolo Monelli nell’articolo «Mogli e buoi dei paesi tuoi», pubblicato nella «Gazzetta del popolo» del 13 giugno 1936, descrive con ribrezzo la donna africana: «sempre fetide di burro che cola a goccioline sul collo; sfatte a vent’anni; per secolare servaggio fatte fredde ed inerti tra le braccia dell’uomo; e per una bella dal viso nobile e composto, cento ce ne sono dagli occhi cipriosi, dai tratti duri e maschili, dalla pelle butterata… Le parole faccetta nera sono peggio che idiote. Sono indice di una mentalità che vorremmo trapassata».

Lidio Cipriani nell’articolo «L’incrocio con gli africani è un attentato contro la civiltà europea» apparso su «La difesa della razza» del giugno 1938 così si esprime: «Nella razza negra, l’inferiorità mentale della donna confina spesso con una vera e propria deficienza; anzi almeno in Africa certi contegni femminili vengono a perdere molto dell’umano, per portarsi assai prossimi a quegli degli animali».

La donna eritrea venne presentata quindi come una bestia, da trattare come tale, al quale si poteva fare di tutto, non certo convivere o sposarla e fare figli.

Numerosi gli atti di pedofilia. Nei casi più eclatanti i responsabili furono rimpatriati, ma in genere ci fu tolleranza: la pedofilia non genera i meticci che il regime fascista diventato Impero vuole limitare se non eliminare. Il caso più celebre, perché il protagonista divenne famoso, è quello di Indro Montanelli che comprò per 500 lire una bambina eritrea di dodici anni, Fatima. Se quest’affermazione vi sembra inverosimile, guardate questo video su YouTube:

http://www.youtube.com/watch?v=BZ3cSI3fUHw&feature=youtube_gdata_player

che riprende vari filmati della Rai e dove Montanelli, ancora molti anni dopo, definisce la moglie-bambina «un animalino» e si vanta di averla comprata. Da quello che scrisse sugli eritrei in «Civiltà Fascista» del gennaio 1936 – «Non si sarà mai dei dominatori, se non avremmo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Con i negri non si fraternizza, non si può, non si deve» – possiamo immaginare quale fu la natura del rapporto tra il giovane fascista Montanelli e la bambina Fatima.

Nocra, un lager africano

Colonialismo prima e fascismo poi crearono in Eritrea un sistema carcerario spietato. I campi di lavoro e di internamento furono molti: Assab, Massaua, Asmara, Cheren, Addi Ugri, Addi Caleh. Fra questi spicca il famigerato campo di concentramento di Nocra nell’omonima isola dell’arcipelago Dakhlat, uno dei meno conosciuti orrori del dominio italiano in Africa.

L’isola fu scelta perché i 55 km di distanza dalla costa rendevano impossibile la fuga. Vi fu nel marzo 1893 il solo tentativo di fuga di massa, ma i fuggitivi furono catturati e passati per le armi. Il campo era costituto da un fabbricato di mattoni per le guardie e 200 fra tucul e tende per i prigionieri.

Un paradiso tropicale nel Mar Rosso che si trasformò in un inferno lungo cinquant’anni: caldo e umidità provocavano una sete che la poca acqua salmastra proveniente da un pozzo aumentava. Oltre che con la sete la morte arrivava con la fame: erano concessi pochi grammi al giorno, e non tutti i giorni, di farina, tè e zucchero. Poi c’erano le malattie: malaria, scorbuto e dissenteria. E si moriva di fatica: i prigionieri erano costretti a lavori forzati in una cava di pietra. Si sa che il numero di prigionieri arrivò a 1000 e la media fu 500, non esiste contabilità di quanti morirono.

Un capitano della marina militare che la visitò nel 1901 la descrisse così: «I detenuti, coperti di piaghe e d’insetti, muoiono lentamente di fame, scorbuto e di altre malattie. Non un medico per curarli, 30 centesimi per il loro sostentamento, ischeletriti, luridi, in gran parte hanno perduto l’uso delle gambe ridotti come sono a vivere costantemente sul tavolato alto un metro dal suolo».La realtà che trovarono gli inglesi dopo quarant’anni, quando la liberarono nel 1941, non fu molto diversa.

Nocra fu per le crudeli condizioni di prigionia un vero e proprio campo di sterminio, una Auschwitz tropicale.

Resistenza al fascismo.

NELLA FOTO: il generale Graziani ferito da resistenti eritrei ad Adis Abeba

Negli anni della dominazione italiana, dal 1890 al 1941, non vi fu in Eritrea un movimento di opposizione e di resistenza al colonialismo e al fascismo della forza e determinazione di quello libico o etiope. Non vi fu un Omar Muktar eritreo a capo di un movimento di ribellione e resistenza. Ma il popolo dell’Eritrea non fu docile massa alla mercé del colonialismo fascista. Razzismo, discriminazione, sfruttamento sessuale diventarono terreno di coltura di sentimenti anti-coloniali e nazionalisti che furono alla base del movimento di liberazione che lottò per l’indipendenza.

Coloro che organizzarono ed eseguirono, assieme ad altri, l’attentato a Graziani ad Adis Abeba furono due intellettuali eritrei, Abrahm Debocth e Mogus Asghedom. Il 13 febbraio 1937, in occasione di una cerimonia, improvvisamente lanciarono contro il palco 8 o 9 bombe a mano, uccidendo 4 fascisti italiani, tre etiopi e ferendo una cinquantina di presenti, fra cui Graziani, colpito da 350 schegge. La macchina che accompagnava Graziani all’ospedale fu anche investita da una raffica di mitra. Lo stesso Graziani descrisse in dettaglio l’evento e riconobbe: «Nulla era stato trascurato; una preparazione da fare invidia ai più raffinati terroristi».Purtroppo i giovani resistenti eritrei, Abrahm e Mogus non riuscirono nell’intento di eliminare fisicamente il criminale fascista Rodolfo Graziani.

(*) Con questo dossier inizia una serie di articoli sul colonialismo italiano; domani sera e poi il 4 dicembre due contributi (che riprendo dal settimanale «Carta») e spero altri ne arriveranno e anzi li sollecito. Il motivo è abbastanza chiaro a chi segue il blog. Non solo l’Italia continua nella sua sciagurata ignoranza dei fatti ma anzi c’è chi impone un monumento al peggiore fra i boia, Graziani (sullo “schifezzario” di Affile trovate qui vari interventi). Bisogna reagire e anzi andare oltre la risposta: a esempio rilanciando e concretizzando l’idea di un giorno che renda la memoria delle vittime del colonialismo italiano (fascista e non solo). Si può cominciare dal basso e poi vedere cosa accade. Ci sono altre proposte? La discussione è aperta. (db)

 

Redazione
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2 commenti

  • Ottimo pezzo, diffondo.

  • Spiace non poter prendere visione della documentazione fotografica cui si allude.
    Dove e come si puo visualizzarla?
    I crimini dei colonialisti ( stavolta gli Italiani ) devono essere documentati.

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