Eutopia

di Mauro Antonio Miglieruolo
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Per contemplare il mare e indovinarne l’ampia bellezza, non basta uno sguardo innamorato, bisogna anche discernere tra onda e battigia, saper individuare il punto preciso dove spumeggiando l’acqua batte. Innamoramento e unione. L’amplesso prolungato, dura mille milioni di anni e forse più e continuerà per chissà quanto. Sotto l’onda però cosa c’è? Le profondità, gli abissi, lo sciabordio e poi il silenzio… Immergersi, sognare, lasciare, galleggiando a pelo d’acqua che l’acqua ti trasporti. Dove? Come? Il viaggio tanto lungo! Guardare il mare non è da tutti, bisogna volerlo guardare, comprenderne le possibilità, e dopo averle individuate nasconderle, non offrirle a null’altro che se stessi. Anche perché a raccontare ci si rimette, occorre evocare l’artista che sonnecchia in noi e sono guai. Troppe possibilità, non tutte ammesse, sono incluse in quest’una dal nome tanto breve e che molto incanta.
06ago-BestHDFormulavo esattamente questi pensieri, ogni volta gli stessi, percorrendo il sentiero accidentato che portava alla spiaggia. Sassi, smottamenti di sabbia, ciuffi di vegetazione stenta… Un percorso che mal sopportava il peso del corpo, mal sopportato della crescente rigidezza degli arti. Eppure dopo un po’ che mi ero incamminato, entusiasmandomi riuscivo ad affrettare il passo e scendevo leggero, leggero, leggero… incontro a una promessa sempre uguale che si rinnovava in continuazione.
Sciaaaa! declamava lieve l’onda battendo contro i sassi del bagnasciuga; e tornando a se stessa, trasportando quel po’ di sabbia catturata, in un rotolio di sassi smossi, qualcosa come frlllll, era come se mi chiamasse. Ogni volta sentivo pronunciare il mio nome. Auro. Seguiva un attimo strozzato di silenzio e poi di nuovo l’impatto lieve (quando non era clamoroso, tumultuante) il cui ciclo era di nuovo completato dal richiamo. Haaauuuoooo. Haaauuuoooo. Haaauuuoooo. Altri richiami lontani gli facevano eco. Richiami che attraversavano l’aria, aggirando il promontorio alla mia destra, per precipitarsi a inquietarmi con appelli ploranti. Auro, vieni, Auro… Auro però non andava. Nemmeno quando il vento si aggiungeva per sottolineare e il vento, il vento era ossessionante, quando iniziava non smetteva un istante di chiamare (Auro… Auro… Auro…), era capace di continuare per ore. Mi tormentava. Dovevo fuggire la spiaggia per liberarmene. Odiavo il vento. Non mi sono rassegnato alla sua presenza. Lo sento avverso, contrario ai miei fini, a me come persona. Si insinua negli abiti che porto, li rende inutili. Manca di rispetto, il vento. Non comprende le esigenze di ognuno. Che l’insofferenza verso il caldo non è una buona ragione per diventare invadente. Io non porto gli abiti per difendermi dal caldo o difendermi dal freddo. Io porto gli abiti come ritorsione contro le offese del corpo. Lo imprigiono negli indumenti per ripagarlo degli obblighi che mi impone, per come mi tiene prigioniero.
Lasciami libero, corpo. Ed io lascerò libero te, ti libererò da ogni affanno.
– Disponiamo le cose per bene, – ricordo di aver detto in uno degli ultimi mattini, non appena dato il primo passo in piano, sulla sconfinata distesa di sabbia. – Non però come si fa di solito, senza sincero trasporto per il bello. Sarebbe un torto fatto a noi stessi oltre che alla comunità orientarsi esclusivamente sul funzionale e sull’utile.
La mia tesi però andava di là dalla semplice constatazione dell’opportunità di fondere efficienza e estetica, ma che la ricerca dell’armonia e della proporzione fosse funzionale e pure più necessario. Che anzi ne fosse la condizione. Convinto com’ero che si può campare di pane e acqua abitando un contesto di perenne bellezza, non di latte e miele in una disagiata periferia edificata con il criterio dell’economicità e dello squallore. Si diventa cupi, intrattabili, squallidi a nostra volta, condannati a quelle condizioni.
– Prudenza Auro, prudenza amico, – replicava quello, QUELLO LÌ, LUI, il compagno invisibile. – Sei troppo portato a esaltarti.
Aveva ragione. Io partivo in continuazione per la tangente e lui (LUI) sempre i piedi ben piantati in terra, restava perennemente diminuito dall’eccesso di inclinazione verso la prudenza. Utopista per vocazione, aspirava all’impossibile. Al controllo totale su tutti i pericoli. A defilarsi rispetto ai contrattempi e alle sgradevolezze. Come fosse possibile sottrarsi alla tirannia forte del destino e al quanto di infelicità che questo ci assegnava. Che strane pretese!
– Sono prudente, – argomentavo, – ma a piccole dosi, con moderazione…
– Davvero? uno smodato come te? Smodato per principio?
Si fidava poco di me. Si fidava poco di tutti. Specialmente della mia capacità di saggezza. Non mi concedeva di spingermi troppo avanti mai in nulla, non almeno con la dovuta spigliatezza e decisione; e specialmente in direzione della prossimità umida della spiaggia contro la quale batteva l’acqua. Instancabilmente.
Non si fidava neppure di se stesso, non considerando bastevole la sua presenza per togliermi dai pericoli. Preferiva prevenire. Mettendosi a starnazzare per quasi ogni iniziativa che assumessi. Ma non mi lasciavo distogliere dai miei propositi.
– Facciamo le cose per bene, – insistevo. – Ma all’insegna del bello.
Non chiedeva mai delucidazione lui (LUI) su ciò che effettivamente volessi significare con quel mio “bello” ripetuto fino alla nausea. Un bello che associavo a “bene”, allo scopo perverso di volerli contrapporre, mentre li unificavo. O sapeva, oppure intuiva. O forse se ne infischiava altamente di sapere o intuire. Quel che a lui interessava era non commettessi sciocchezze. Che non facessi il bambino, io che bambino non avevo mai smesso di essere (pretesa assurda, allora. Ma lui (Lui) da quest’orecchio rifiutava di ascoltare). Che ci andassi piano, insomma, e non mi infervorassi come tendevo a fare. Per il resto mi dava abbastanza corda da impiccarmi. Salvo frequenti momenti di esasperazione in cui non esitava a dirmi e darmi il fatto mio.
– Sei un utopista costituzionale, – argomentava. Contro di me, come io contro di lui. – Uno che di ragionare proprio non ne vuol sapere.
Già. Non riuscivo a fare a meno di esserlo, utopista. Nonché pessimo ragionatore. Il mio limite. Il suo invece era di non riuscire a fare a meno di concionarmi, di starmi appiccicato alle costole e d’essere la mia ombra. Diversi eppure uguali noi due, di complemento l’uno all’altro. Sorta di specchio per mezzo del quale ci identificavamo. Esistevamo. Insistevamo. Per arrivare all’io. IO.
Quel che in fondo a quella sorta di mio complemento interessava era comprendere perché non mi rassegnassi, le ragioni profonde della mia inquietudine. Per togliermelo di torno provavo a dirgli “sì, mi rassegno, sì”, al che si inalberava, “non mi prendere in giro, sai! Non ci provare nemmeno!” non era tipo da essere preso in giro lui (LUI), sapeva bene che non avevo capito, manco per niente, che non avevo altra via d’uscita che la rassegnazione. Credeva lui. Invece no, una migliore e più sicura credevo proprio di averla.
– Muori più contento, – argomentava. – Lo capisci o no?
No.
06ago-Uomo-solo-e-mareUna volta accennai a riempirmi le tasche di sassi, non so bene dire perché, da piccolo lo facevo, ne avevo trovati alcuni grossi e tondi che potevano rivelarsi utili, ma lui si rivoltò, si fece di fuoco, parve voler rivoltare anche il mondo, mi gridò contro, che non capivo nulla. Nulla di nulla.
Già. Vero. Esatto. Non capivo. Ma allora lui (LUI)? Che non comprendevo l’inutilità di affliggermi con il suo buon senso? Che non mi lasciava in pace, quantunque mi avesse proclamato più volte un caso disperato?
– Se non c’è niente da fare con me, perché ti ostini e continui a tentare?
– Non intendo abbandonare te stesso alla tua personale inclemenza. Io spero, spero sempre. Spero anche nei casi come il tuo, nel quale c’è ben poco che suggerisca si possa sperare.
– Non è che sei tu il vero inguaribile utopista costituzionale? Mi sa di sì, mi sa…
– Lo fossi, utopista, ti darei fiducia, potrei rilassarmi. Ma con uno come te, come star tranquilli?
Ancora una volta aveva ragione. Gliela dovevo. Gliela concessi. Mi chinai a raccoglier un sasso.
– Ricominci? – si limitò a dire. – Ricominci? Ricominci? – in crescendo.
Lasciai perdere il sasso. Non lui (LUI) di interporsi tra me e il pericolo. Tra me e il mare. Che non mi avvicinassi troppo.
– Ti sembro il soggetto io, freddoloso come sono. In acqua non ci entro proprio…
– Finché posso stare dal lato del pericolo, certo che sto tranquillo. Certo! certo! certo! CERTO!
L’isterico. Il mio angelo custode, banditore dell’anima mia. Un seccatore per vocazione, grande abissale dispotico supervisore del prossimo suo più prossimo. Neppure aperto. Segreto, nascosto. Non sono mai riuscito a vederlo nella sua interezza. Lo identificavo attraverso le vibrazioni della voce. O lo sdoppiamento dell’ombra, in una delle quali trovava rifugio. Un protettore strano, un protettore che si vergognava…
Naturalmente continuò con i suoi certocertocerto da irascibile nevrotico, con grave danno delle mie orecchie. Per distrarlo non trovai altro che gettargli in faccia la grande notizia. Grande, grandissima. Per sottolinearne l’importanza utilizzai il tono distaccato delle grandi occasioni. Lo stesso tono con il quale gli comunicai che avevo deciso di separarmi da Milvia. E lui obiettando, insinuante e maligno, dopo che Milvia ha deciso di separarsi da te. Già.
– Eutopia si farà, – annunciai pacato e sicuro di me, volgendomi per avere di fronte l’oceano.
Carezzato dalla brezza serotina che era iniziata a levarsi, mi convinsi di quel che dicevo, perché la brezza stessa me lo diceva. Eutopia si farà! Eutopia si farà! Eutopia si farà! Eutopia si farà! Sarebbe stato l’ora di ritirarsi, ma il coraggio di abbandonare le note dolenti di quella brezza non lo trovavo. Sotto il ritmato Eutopiasifarà! Eutopiasifarà! Scorrevano i titoli di code del suo nome… stava scritto la diagnosi spietata della mia condizione di ignoto dolore. Lo ripetei diecimila volte, forse. Speranzoso ancora potesse tornare a me, dopo che altrettante volte mi aveva dichiarato la sua avversione.
– Sogni, si tratta solo di sogni…
– Ho parlato con il Sindaco, presenti gli assessori. Sono disposti a spendere tutto quello che occorre.
– Spendere che, se non hanno un soldo?
– Se li faranno dare dalle banche. Le banche traboccano di soldi… pensano che Eutopia sia una grande idea, che li ripagherà a usura dell’investimento. Sia in quanto a prestigio, sia con gli incassi del botteghino…
– Sbagliavo, non sogni. Stai avendo un incubo.
– Ti spiego, – spiegai, sebbene sapesse. Sapeva bene lui (LUI) tutto ciò che io sapevo. – Eutopia, regno della bellezza, regno delle forme. Tutte le arti spese in una medesima rappresentazione. Le arti e i tempi. E i modi. Ogni opera valorizzata attraverso l’accostamento ad altre opere. Il tutto fuso per ottenere l’incanto di un unico effetto. Guarda, – gli dissi indicando il sole ormai al tramonto, lo spettacolo grandioso. – Guarda, eccone la prova. Guarda, ascolta, senti…
Guardò lo stesso che vedevo io e smise di protestare. Per compensarsi iniziò a piagnucolare.
– Lo vedi? Io sì, vedo questo bel quadro, una grande marina olografica, una rappresentazione suntuosa nella quale sono inclusi profumi, suoni e sensazioni. Non senti le voci dimenticate dei bagnanti, i loro tuffi nell’acqua? sono qui registrati nella rena e nel cemento degli argini che proteggono la strada. Lo sono nelle mura del ristorantino di pesce nel quale siamo stati tante volte… Si tratta della recita più completa possa essere immaginata, una recita che comprende la nascita, la vita e la morte…
Rumore e sensazione di sabbia smossa sotto i piedi. Lo sciacquio lieve dell’onda, che si ostinava sonnecchiante. E poi il battito del cuore, il sangue scorre, un ricamo prezioso di nuvole, e niente altro per non ridondare in quell’immagine ultima che ci era stata regalata.
Lui (LUI) invece di ammirare a bocca aperta e dire “bello bello” piangeva ora apertamente. Perduto nei suoi singhiozzi. Lo ignorai. Perché lo sapevo vinto e non sapevo invece come convincerlo a smetterla. Rimproverare non serviva, non era da me mettermi nei suoi panni di protettore rimproveratore. Non ho mai amato rinfacciare e criticare. Gli offrii solo una ultima possibilità.
– Pensa ad esempio se nell’Auditorium di Eutopia, è inteso che Eutopia avrà un Auditorium, venisse eseguita l’Arte della Fuga di Bach nella trasposizione per orchestra di Bergel (contentiamoci di questa)… immagina se nel contempo, mentre gli esecutori affannano dietro le difficoltà, nella sala venissero diffusi profumi e negli schermi virtuali delle loro intelligenze inserite immagini formate dagli spettatori stessi, in un continuo processo di interattività, ascoltatori-orchestra… sei capace di immaginare? Ogni spettatore che ricostruisce il significato dell’opera su un immenso schermo olografico tridimensionale che potrebbe essere questo stesso tramonto (da non lasciarsi scappare), oppure l’interno di una cattedrale, una cerimonia religiosa, un paesaggio alpino, la tranquilla dimora affacciata su un lago…. Formidabile, vero? Non dire di no, so che lo pensi. Lo pensano anche le autorità. Le Banche saranno senza cuore, non prive di intelligenza, quando sentono odore di danaro. È per questo che Eutopia si farà. Perché farà guadagnare. La bellezza rende. Dicono di no, ma sanno che può rivelarsi proficua. Noi ne approfitteremo per allargarle gli spazi di abitabilità.
Tacqui. Avevo parlato fin troppo. E poi c’era il solito passaggio all’azione, con il quale è d’obbligo chiudere ogni discorso. Continuai solo a mormorare tra me e me “sifaràsifaràsifarà” per tutto il tempo che impiegai a imbottire i miei abiti di sassi. E Lui a disfarsi di lacrime. Che poi erano le mie.
Poi scesi in acqua e dolcemente, lentamente mi inoltrai.

 

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