Felicia Impastato: «La mafia in casa mia»

La prefazione di Anna Puglisi e Umberto Santino alla nuova edizione del libro

La porta aperta di Felicia

Questo libro è insieme la storia di vita di una donna divisa tra un marito mafioso e un figlio schierato radicalmente contro la mafia e una tappa decisiva nel percorso che ha portato a fare giustizia di un delitto di mafia camuffato da atto terroristico.

Quando abbiamo raccolto la testimonianza di Felicia, la memoria di Peppino Impastato era già in gran parte salvata attraverso una serie di iniziative, dei familiari, di alcuni compagni di militanza, del Centro siciliano di documentazione di Palermo che già nel primo anniversario dell’assassinio avevano proposto e organizzato, con il solo sostegno di Democrazia proletaria e di due quotidiani, “il Quotidiano dei lavoratori” e “Lotta continua” già vicini a chiudere, la prima manifestazione nazionale contro la mafia della storia d’Italia. Non era stato un impegno facile. Andando in giro per l’Italia trovavamo facce incredule: “ma c’è ancora la mafia? In ogni caso è un problema di voi siciliani”. L’incredulità veniva temperata da qualche sprazzo di militanza residuale, in un periodo in cui già avanzavano a grandi passi il riflusso, la smobilitazione. A Milano nel marzo del 1978 morivano Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci (Iaio), il traffico di droga era già un business lucroso e diffuso in tutto il paese, ma la percezione della mafia era schiacciata sullo stereotipo del carrettino siciliano sperso per sentieri di campagna. Eppure vennero in duemila alla manifestazione di Cinisi del 9 maggio 1979 e per noi fu un grande successo, nonostante il silenzio della stampa, compresi “l’Unità” e “il manifesto”.

Invece rischiava di impantanarsi la vicenda giudiziaria. Al palazzo di giustizia quasi tutti pensavano che si fosse trattato di un atto terroristico compiuto da un attentatore inesperto o suicida. Pesava quanto aveva scritto il procuratore capo Gaetano Martorana subito dopo il reperimento dei frammenti del corpo di Peppino sui binari della ferrovia Trapani-Palermo. Scriveva nel suo fonogramma: “Attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda. Morte di persona allo stato ignota, presumibilmente identificatasi in IMPASTATO Giuseppe. Verso le ore 0,30 del 9.05.1978 persona allo stato ignota, ma presumibimente identificatasi in tale IMPASTATO Giuseppe, in oggetto generalizzato, si recava a bordo della propria autovettura FIAT 850 all’altezza del km. 30+180 della strada ferrata Trapani-Palermo per ivi collocare un ordigno dinamitardo, che, esplodendo, dilaniava lo stesso attentatore”. Pesava la lettera trovata in casa della zia Fara, dove Peppino abitava, in cui si leggeva che voleva abbandonare “la politica e la vita” e subito passata al “Giornale di Sicilia” che ne pubblicava ampi stralci. Eppure, dopo anni di iniziative, di esposti, di raccolta e presentazione di elementi di prova, a cominciare dalle pietre macchiate del sangue di Peppino, avevamo ottenuto un primo risultato. Nel maggio del 1984 una sentenza istruttoria redatta in gran parte da Rocco Chinnici, assassinato nel 1983, e completata dal suo successore all’Ufficio Istruzione Antonino Caponnetto, aveva detto chiaramente che si trattava di un omicidio di mafia ma lasciava insoluto il problema delle responsabilità. Il delitto Impastato si avviava su un percorso consueto: l’omicidio ad opera di ignoti, destinati a rimanere tali in eterno. Era già tanto che si fosse cancellata l’immagine del terrorista-suicida e si fosse scritto inequivocabilmente che si trattava di omicidio ad opera della mafia. Abbiamo raccolto le carte e preparato un dossier dal titolo provocatorio: Notissimi ignoti. Lo avevamo detto già molte volte: i mafiosi di Cinisi sono arcinoti e alla loro testa c’è il notissimo Gaetano Badalamenti, la cui immagine figurava nella copertina del dossier. Ma a quanto pare non bastava ridirlo per l’ennesima volta. Perciò volevamo ascoltare Felicia, ripercorrere il racconto della sua vita e andare alla ricerca di qualcosa che finora ci era sfuggito. Siamo alla fine del 1984 e attorno al tavolo della sala da pranzo della casa di Cinisi, siediamo Felicia, il figlio Giovanni, la moglie Felicetta e noi due. Cominciamo a registrare le nostre brevi domande e le lunghe risposte di Felicia, in siciliano nella versione cinisense.

Il suo racconto comincia con i ricordi di famiglia, con la mafia che condizionava i matrimoni e i rapporti personali, ammazzava per strada (“c’era il ben di Dio… ma non era come questa di ora”, però “la mafia ha sempre rotto le scatole ai cristiani”), ammazzava chi non si piegava alla richiesta di pizzo e i delitti rimanevano impuniti, anche perché nessuno parlava e la giustizia era impotente. Poi chiediamo di Cesare Manzella, sposato con la sorella di Luigi Impastato, marito di Felicia, e lei ricorda che quando suo marito “si mise con una donna… lo svergognato” e scappò in mutande dalla casa dell’amante, lei andò via di casa, Cesare Manzella (“lei la rispettava”) ha fatto da paciere, ha insistito finché è ritornata a casa, però “il sangue restò sporco, lo stomaco malato”. Manzella, nelle parole di Felicia, sarebbe un capomafia “all’antica” ma lei stessa non ignora che chiedeva soldi a destra e a manca e non li restituiva. E faceva il benefattore delle orfanelle, andando in America a raccogliere fondi. Giovanni interviene ricordando che a quei tempi ancora non c’era droga, ma a quanto pare Manzella era proprio un pioniere di quei traffici che saranno sempre più proficui. Comunque Felicia tiene a distinguere Manzella da Badalamenti che definisce “ordinario” (volgare), senza le “finezze” del predecessore. Luigi la portava a casa Badalamenti e “c’era l’inferno quando mi ci portava”. Della guerra di mafia dei primi anni ’60 Felicia ricorda uno scontro tra mafiosi che sarebbe avvenuto il 2 settembre del 1963 (ma a quella data Manzella non c’era più, era stato ucciso, assieme a un suo fattore, ad aprile di quell’anno con la prima macchina imbottita di esplosivo).

Del marito prima di sposarlo sapeva che era stato al confino durante il fascismo, ma allora non capiva “che cosa significava questa mafia, questa delinquenza”. Prima era stata protagonista di un fatto eccezionale per quel tempo: era fidanzata con un altro, ma lei non lo voleva. Avevano pure esposto il corredo, come si usava allora, poco prima delle nozze, ma lei, che pure era stata “all’ubbidienza” e per rispetto a suo padre aveva rinunciato a fidanzarsi con un giovane di un altro paese, ora trasgredisce la regola e impone la sua volontà: quel matrimonio non lo farà e di fronte al pericolo della fuitina (la fuga) mette le mani avanti: se ci provano, denuncerà tutti. Per primo suo padre. E sposa Luigi: “mi piaceva lo devo dire”. Ma “appena sposata ci fu l’inferno”. È un’espressione ricorrente nel racconto di Felicia. L’inferno era con suo marito che non faceva mai sapere cosa faceva e dove andava, e lei che l’avvertiva: “gente dentro non ne voglio” (cioè: “non mi portare mafiosi in casa”). Erano i tempi della banda Giuliano e della mafia risorta dopo la temporanea eclissi fascista e con i carabinieri c’era un filo diretto: dicevano prima quando c’erano le perquisizioni e i latitanti la facevano franca. Anche suo marito sfuggiva alle retate, nascondendosi dentro una cassa di biancheria, finché lei non ne ha potuto più di quelle perquisizioni notturne e gli ha detto di andar via di casa. Lo ha fatto convincere dal nipote Turiddu, figlio di Cesare Manzella.Tra i latitanti a Cinisi successivamente c’è stato Luciano Liggio, rifugiato da Manzella.

L’assassinio di Manzella ha un effetto traumatico sul quindicenne Giuseppe. Con la sua presa di coscienza il quotidiano inferno domestico si aggrava e la sua scelta diventa ogni giorno più netta e decisa. Giuseppe e il padre sono in piena guerra, per la sua militanza in un partito di sinistra, in un paese a stragrande maggioranza democristiano, con i mafiosi alla testa delle processioni, accanto al prete e con la candela in mano, e per la sempre più aperta denuncia della mafia. Felicia sta con il figlio ma è fedele al suo ruolo di donna di casa e di moglie. Il giornalino, “L’Idea socialista”, era solo un foglio ciclostilato e il numero con l’articolo “La mafia è una montagna di merda” non è stato stampato e, nonostante le nostre ricerche, non l’abbiamo trovato. Quell’articolo Peppino lo ha scritto ma, forse per le insistenze di Felicia, non è stato pubblicato. Comunque a casa Impastato si ripete una scena ormai consueta. Giuseppe, da quando era piccolo, in seguito alla morte del piccolo Giovanni, il primo con quel nome, sta dalla zia, ma va a casa del padre e della madre, finché il padre, per dare un segnale ai suoi amici, che gli rimproverano i comportamenti dissacranti del figlio, gli impedisce di varcare quella soglia. E Felicia lo riceve di nascosto. Cosa poteva fare, andarsene via con i figli? Allora era una scelta impensabile prima che impraticabile. Comunque riesce a imporre un “compromesso domestico”: il marito caccia di casa Peppino e lei impedisce che i mafiosi vengano a casa sua.

Poi le cose precipitano e la goccia che fa traboccare il vaso è il volantino in cui Badalamenti viene definito “esperto di lupara e di eroina”. Ma c’è la continua denuncia di Radio Aut e per di più l’irrisione intollerabile di “Onda pazza”, un vero e proprio delitto di lesa maestà: i paesani che ridono alle spalle degli intoccabili. E arriviamo alla scena-madre del racconto di Felicia: il vice di Badalamenti, Vito Palazzolo, che va a casa Impastato e sulla soglia dice a Felicia che don Tano vuole parlare con suo marito. Felicia riferisce, Luigi va da Badalamenti e al ritorno fa una scenata. Dice che andrà via e se “questo [Peppino] non si mette a verso” venderà tutto e non tornerà. Dopo qualche tempo si viene a sapere che è andato negli Stati Uniti, ha incontrato parenti mafiosi, figli del fratello Giuseppe, detto significativamente “Sputafuoco”, ha incontrato anche una nipote a cui ha parlato dell’incontro con Badalamenti: ”…gliel’ho detto: ‘Prima di ammazzare mio figlio dovete ammazzare me’”. Siamo a maggio 1977, a settembre Luigi muore in un incidente che può essere stato un omicidio camuffato. Si sarebbe dovuta fare l’autopsia, ma non si è fatta. A maggio 1978 Peppino viene ucciso: un omicidio camuffato da atto terroristico, per “rispetto” a una dinastia mafiosa. Le “finezze” della cultura mafiosa si coniugano con la calcolata certezza dell’impunità, garantita dal clima del tempo dominato dalla caccia ai terroristi (lo stesso giorno del delitto viene ritrovato il corpo di Aldo Moro). Ma accadrà qualcosa di imprevisto: la ribellione dei familiari, che rigettano la liturgia della vendetta, la tenuta del compagni, l’ingresso in scena di noi del Centro di Palermo.

Quando abbiamo ascoltato il racconto del padre di Peppino che dice quella frase alla nipote americana, per poco non saltavamo sulla sedia. Avevamo finalmente trovato la chiave del delitto: la condanna a morte comunicata al padre, il padre che nel tentativo di proteggere il figlio vola in America, la confessione alla nipote. E abbiamo portato in procura il libretto ancora senza copertina. Perché Felicia parla più di sei anni dopo l’assassinio del figlio? Ce lo siamo chiesti noi, glielo chiedeva Antonino Caponnetto. E la risposta di Felicia al magistrato è stata: “Non ho mai parlato del viaggio in America di mio marito perché avevo paura per mio figlio Giuseppe e poi per Giovanni. Ora la situazione mi sembra più calma e ho deciso di raccontare tutto”. E lo racconta a noi prima che ai magistrati. La strada su cui Felicia si è incamminata, quella della giustizia e non della vendetta, per lei è nuovissima e dapprima la percorre con incertezza. Poi si fa più sicura, perché non si sente sola. E da un certo punto in poi il suo passo si fa più deciso, anche se ormai gli anni cominciano a pesare. L’ultima stagione della vita di Felicia è stata stagione di raccolto, faticoso e tardivo, ma con buoni frutti: i processi con le condanne, lei nell’aula bunker dell’Ucciardone a sfidare Badalamenti, la relazione sul depistaggio della Commissione parlamentare antimafia (“m’aviti risuscitatu me figghiu”), un fatto unico nella storia dell’Italia repubblicana, il successo del film su Peppino (che lo ha fatto conoscere a un pubblico innumerevole, anche se la tragica realtà della “mafia in casa mia” viene sostituita dalla metafora inadeguata della contiguità: “i cento passi” e qualcuno, ignorando la realtà, gli ha attributo anche il merito di avere “riaperto il processo”!) e le migliaia di visitatori che sono passati per la sua casa. E lei sempre disponibile a ridire la sua storia e quella di suo figlio. La nostra storia.

Nell’introduzione al volume scrivevamo di Felicia come moglie e madre, “donna d’altri” e non donna per sé. Perché la vedevamo reclusa dietro la porta-finestra di casa che raramente si apriva.

Quell’immagine va corretta, o meglio aggiornata. Negli anni successivi Felicia ha aperto la porta di casa (e l’immagine che riproponiamo nella sovraccoperta ne è icona eloquente) ed è maturata come donna per se stessa, non più solo vedova di quel marito e madre di quel figlio. Nel saluto laico al funerale Umberto diceva: “Nel manifesto che questa notte abbiamo appeso sui muri di Cinisi abbiamo scritto: Ciao Felicia, non mamma Felicia come sarebbe stato più ovvio. Perché in questi anni non sei stata soltanto moglie (di un mafioso che, che a un certo punto ha cercato di difendere il figlio dalle mani degli assassini) e madre (di un rivoluzionario), ma donna per te, matura dentro te stessa, forte di una tua autonomia, di un tuo personale carisma che rendeva il colloquio con te, o anche un semplice saluto, un’esperienza preziosa e irripetibile”.

E l’immagine della porta aperta, spalancata, a violare ogni segreto, ci sembra che continui il racconto di Felicia affidato alle pagine di questo libro. Nel suo scarno dialetto, intriso di pena e d’ironia, come il suo sguardo che è insieme un saluto e un invito.

Di recente in “bottega” abbiamo postato Ricordando Felicia, la mamma di Peppino Impastato – con le riflessioni di Domenico Stimolo e di Lella Di Marco – e avevamo accennato a una nuova edizione del libro «La mafia in casa mia» (Di Girolamo edit); oggi ne proponiamo l’introduzione, ricca di informazioni e analisi.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *