Franco Araniti, una vita da poeta

di Pierluigi Pedretti

«Viviamo come se fossimo eterni. Eppure abbiamo paura della morte»

(Iddha esti, 2018)

È a Reggio Calabria, dove è nato, che Franco Araniti raccoglie sul finire dei ’60 gli umori di un’epoca di grandi ideali. Sul palcoscenico della sua parrocchia, giovanissimo, scrive e mette in scena drammi che urlano una verità di sfruttati e sfruttatori (Redenzione, 1970). Non è facile in quel periodo e in quella città manifestare certe idee, ma egli non è solo, vive intensamente quegli anni fra politica e letteratura con un buon gruppo di amici e compagni, che non dimenticherà mai. In tutti i suoi scritti porta sempre con sé, impressi a sangue, gli ideali di cui si è imbevuto fin da giovane: l’amore per gli ultimi e l’indignazione per le condizioni miserevoli in cui i politicanti hanno ridotto la sua terra (‘U cunta cu campa, 1999; L’uccello sciancato, 2001). Indelebile è poi l’esempio della sua famiglia, di suo padre, in particolare, mai soggiogato dai prepotenti nazi-fascisti. Più volte ne scrive, rimanendo fondamentale il libro di memorie Ricorda,storia di un semplice partigiano garibaldino (2017) ma c’è un suo poemetto – Dalla memoria, frammenti (di semplice storia) – in cui viene ritratto Melo che ricorda anni dopo vicende e volti del passato di combattente per la libertà in Montenegro confondendoli con quelli degli ultimi momenti di vita.

Il lavoro letterario di Araniti è figlio dell’esperienza del mondo, delle cose belle ma anche del dolore intorno a noi, che egli coglie nei corpi martoriati delle donne violentate e derise, negli occhi di coloro che cercano lavoro, nei contadini senza terra, nelle madri di figli morenti, negli sguardi fieri e spaventati di immigrati di ogni parte del mondo, nei volti delle vittime di guerre insensate. Scrive in E che avventura (Es Senza, 2014):

«E che avventura sia stata quella dei migranti venuti a bussare alla porta di Lampedusa lo sa il barcone a quaranta metri sul fondo del mare antistante.

La libertà sepolta nell’acqua d’occidente Tra le lacrime dell’ipocrisia dei poteri inaccoglienti l’infanzia del sogno è affogata».

Araniti è uomo generoso, appassionato, poeta naturaliter lirico per animo, che approda dal profondo della sua interiorità alla poesia civile. Oggi che ha superato i sessant’anni è il momento dei bilanci: con gli ultimi testi apre una nuova fase, apparentemente più intimista, in cui la presenza della morte aleggia prepotente. Questo non significa, però, abdicare alla propria storia personale, perché Araniti rimane sempre mai domo.

«Il fango ci tappa il respiro, i morti piangiamo

ma non capiamo che dentro i fossi, i rimorsi

sono assenti. E’ il tuo sangue che scorre, terra.

Ciechi calpestiamo la tua anima sfinita,

ti strappiamo le vene, le tue foreste, le vesti».

Così scrive in Della Terra, l’affanno, una sua ultimissima poesia, a dimostrazione di una lezione poetica ed esistenziale pervasa in fondo da un profondo vitalismo, che non va inteso nella accezione peggiore di esaltazione del proprio Io individuale, semmai nel senso di un umanismo del fare, della vicinanza agli altri, di un pensare a sè solo come realizzazione di Io collettivo al cui centro c’è lo spartirsi assieme (cum) i doni (munera), l’atto di dividersi il pane (cum panes), quello di soffrire insieme (cum passio). Solo così si può pensare a una com-munitas, che sia realmente tale. E Araniti è in toto colui che divide il pane cogli altri, è “compagno” di vita prima che di lotta, uomo generoso non dottrinario, di conseguenza poeta che legge le opere della letteratura, anche i testi più cifrati della poesia, iscrivendoli senza forzature nell’alveo della società, nel divenire della storia e dei conflitti sociali. La sua poesia – fatta di una lingua particolare, “meticciata” a volte, prosaica, ricca di pathos, che trascina il lettore in un gorgo di emozioni – si dipana dalle piazze, dalle strade, dai vicoli di paesi e città di questa regione per raggiungere il mondo. Il ritmo dei suoi versi sta in bilico fra l’antico e il moderno. Assonanze e allitterazioni, spezzature e altri artifici linguistici, punteggiature e loro assenza, creano un impasto rutilante di suoni e colori di lingua letteraria e dialetto, che non lascia insensibile i lettori più attenti. Araniti, però, non è poeta dialettale, e quando utilizza la lingua materna lo fa per rendere più forte la sua denuncia civile. Non rinnega la sua origine linguistica, da cui trae la linfa vitale della sua poesia, ma da essa non si fa immobilizzare, perché se i secoli precedenti erano stati caratterizzati dal monolinguismo e dalle rigidezze di forma e contenuto, a partire dal Novecento si infrange lo schema imposto dalla Auctoritas e si scelgono strade nuove. La poesia in mezzo a un mare di soluzioni diversissime, sintattiche e lessicali, convive allora accanto a poeti che utilizzano la lingua natìa. Biagio Marin, Raffaele Baldini, Tonino Guerra, Franco Loi, il lucano Pierro, il calabrese Butera – fra i tanti – dimostrano la dignità del dialetto e le molte possibilità che esso ha di esprimere non solo la quotidianità minuta.

Allo stesso modo i diversi idiomi consentono ad Araniti, lavorando nel solco di questa doppia strada – dialetto come lingua dell’anima e l’italiano come espressione della grande tradizione poetica nazionale – di recuperare la spontaneità della propria terra, di raccontare del calore e dei sentimenti veri del suo popolo, di affermare la sincerità del proprio Io, sofferente non solo per sé ma per gli altri, anche attraverso l’uso di linguaggi consideranti defunti:

«Fazzu vowella ‘ntinnarti

ammascante di l’erbaru.

Serpentina accompagnata

scerchja ammusata

in chiostra piòrnia

di spaccusa» (*).

Perfino l’uso dell’ammascante, la lingua gergale dei “quadarari” – i calderai di Dipignano – recuperata grazie al lavoro del glottologo John Trumper diviene il simbolo, come il calabrese del Gallico, la vallata di nascita, del legame fortissimo con la sua tormentata terra, che non lo richiude, tuttavia, in una gabbia di ruralità; anzi, come “ un grande provinciale” Araniti da un piccolo borgo si innalza per gettare lo sguardo oltre i confini della sua regione in un corpo a corpo continuo con il suo tempo e il mondo. Scriveva nel commovente e riflessivo Embrione (in Di quel viavai…d’Amore, 2007) rievocando la strage di Bologna del 1980, uno dei momenti forse più compiuti del suo scrivere, in cui privato e pubblico si legano indissolubilmente:

«Quante volte a Bologna discendo al mattino

a treno fermo (velocemente risalgo) per il panino.

Di wurstel e senape lo farcisce una donna gentile.

Negli occhi ho gli occhi suoi, il suo allegro accento nelle

orecchie.

Aveva quell’allegria quando gli uomini neri

di terrore e morte hanno farcito la stazione?

Quegli occhi hanno avuto il tempo di vedere la morte?

Il dolore di sentire? Di maledire? Forse di pregare un dio?

Senza volto! assassini. Senza nome, assassini.

Senza coraggio, assassini. Mistero, assassino. Ombre, assassine.

Dove sei Stato? Chi, per conto di e perché, assassini?».

Siccome però la vita è anche amore, non solo dolore e morte, non si meravigli il lettore anche delle parentesi più intime del poeta/uomo che si possono leggere nella raccolta Di quel via vai d’Amore, prima parte della intensa trilogia che viene proseguita da Meticcia (2012) e chiusa da Es Senza. Un profondo senso civico e solidale è sempre avviluppato in tutti questi lavori ai suoi sentimenti, mai dimentico il poeta della lezione altamente etica dei suoi cari, a esprimere spesso il rammarico per quello che avrebbe potuto diventare la Calabria, dunque l’Italia. Franco Araniti è un uomo, un poeta, che scrive con lo spirito di un impegno civile e politico che non lo ha mai abbandonato, neanche nei momenti più tormentati della sua (e della nostra) esistenza. E quando solo la morte gli darà la pace eterna e, finalmente, la fama che si merita, quella dei giusti e dei bravi, varranno per lui i versi di Bertolt Brecht:

«Ma sarà data allora lode a coloro

che sulla nuda terra si posero per scrivere

che si posero in mezzo a chi era in basso

che si posero a fianco di chi lottava». (**)

(*) Voglio conoscerti / gergo del calderaio. / Lingua morta / vecchia nascosta / in questo luogo / di montagna. (in Meticcia, 2012).

(**) «La letteratura sarà esaminata» (traduzione di Franco Fortini)

 

Redazione
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3 commenti

  • Sono una lettora del poeta e penso che il commento di Pierluigi Pedretti è molto efficace e completo. Condivido con tutta la sua scrittura.
    Non conosco Araniti personalmente, ma percepisco il tipo di persona che è attraverso i suoi scritti.
    È un grande poeta e narratore, un grande difensore del suo paesi e dei piú vulnerabili.
    Lascia un messaggio importante nei suoi libri. Parla della storia d’ Italia, della sua gente, della guerra, del suo dialetto …
    Sono anche evidenziati valori come l’ onestà, la generosità, il rispetto per gli altri, la giustizia, la lotta per i loro ideali.
    Penso che i libri di Araniti dovrebbe essere letti dai giovani italiani, specialmente dai calabresi perchè sono uno sguardo alla loro storia.
    Complimenti.

  • Gian Marco Martignoni

    Il 10 gennaio da Torre di Melissa è giunta al mondo intero la buona novella del salvataggio di cinquantuno curdi alla deriva nelle onde del mare. Ora Pierluigi Pedretti si diffonde, con il suo inconfondibile timbro , sul demistificante discorso poetico di Franco Araniti ,di cui ho avuto la fortuna di leggere a suo tempo l’ammaliante ” L’uccello sciancato “. Franco Araniti, cantore degli ultimi, è una delle tante voci che si levano contro la dilagante indifferenza ” spietata “, di cui ha scritto ,amaramente , su Il Manifesto di ieri Renzo Paris , a proposito dei novant’anni della pubblicazione del grande romanzo di Alberto Moravia.

  • Mi piace ciò che scrive, il prof. Pedretti, del poeta Araniti. Parole che ben colgono l’essenza e la prismaticitá stilistica di un grande narratore.

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