Fratelli siam(co)esi – 359

Vignette? Macchè, questa settimana 4 microracconti e 2 immagini a corredo.

di Energu

Il Guasto

Con una gran fumata bianca l’autobus aveva esalato l’ultimo respiro. L’autista accostò, accese le luci di emergenza e aprì le porte. Era quasi mezzanotte. Fui l’unico tra i 6 passeggeri che decise di rincasare a piedi, gli altri raggiunsero la vicina fermata per aspettare il prossimo. Attraversai un quartiere popolare e notai le auto parcheggiate lungo il marciapiede, nessuna completamente buia. La luce dei lampioni permetteva di scorgere gl’interni e in alcune mi sembrò di scorgere indefiniti corpi aggrovigliati. Qualcuna cigolava, altre sussultavano e di colpo rammentai: era da poco iniziata ‘La giornata della gioia’. Mi chiesi se in quelle ‘micro-case’, quella notte, qualche nuova vita sarebbe stata concepita. Dopo un chilometro raggiunsi un’altra fermata e sostai a rifiatare. La prima corsa notturna sarebbe passata dopo 15 minuti. Decisi di aspettare, forse le visioni hard avevano ‘disturbato’ il ritmo del mio podismo. Dopo 20 minuti salii a bordo e constatai come tutti gli occupanti aderissero alla ‘gioia’. Etero o gay che fossero, nessuno parlava, solo sussurri e mugolii. Un po’ imbarazzato mi rifugiai vicino al posto di guida. Mi sentii solo, ma guardando nel ‘retrovisore’, notai l’autista che mi fissava. Una bionda.

La giostra

La ‘dolce’ epidemia aveva decimato la popolazione mondiale. Solo a Roma erano rimaste appena tremila persone. Dopo 3 anni che il virus si era manifestato, l’economia del pianeta aveva collassato e, in modo inversamente proporzionale al lento sparire dell’umanità, proliferarono invece tutte le specie animali, anche quelle esotiche, che al momento della ‘esposizione’ si trovavano in cattività. Oltre al numero anche l’intelligenza degli animali era aumentata in modo esponenziale. I gatti si trovavano in cima alla catena di comando. Pianificavano le risorse alimentari, coordinavano cani e pappagalli, riuscivano ad accendere il fuoco e ad usarlo, tendevano trappole. Avevo saccheggiato uno degli ultimi supermercati riforniti e mentre mi acquattavo per sfuggire ad una ronda composta da una tigre ed una volpe, ripensavo tra me cosa avessi o non avessi fatto per essere, ancora, in vita. Magari un’abitudine alimentare o una predisposizione genetica; forse era solo questione di tempo. La volpe annusò l’aria e roteò la testa dalla mia parte. Doveva aver sentito l’odore delle patatine che avevo estratto dal sacchetto, la mia ingordigia è sempre stata fonte di guai. Le comunicazioni erano scarse e lacunose, ma da una radio a onde corte, che avevo trovato un mese prima in un tir abbandonato, sentii il leader di un gruppo di sopravvissuti arroccati sulla Sila, ipotizzare lo scatenarsi del virus, a causa del largo uso nella popolazione mondiale dell’acqua minerale Devian. Fra uno scoppiettio, vari crrr e microinterruzioni della linea capii che l’involucro con il quale veniva imbottigliata l’acqua, fatto con plastica rigenerata, liberava durante la suzione, a contatto con l’aria, un fermento così attivo che nel giro di poche ore pre-divorava il cervello del ‘consumatore’, facendolo scivolare in modo indolore dal deliquio alla morte. In effetti ho sempre preferito l’acqua del rubinetto e delle fontanelle pubbliche. Lo sconosciuto divulgatore si domandava (e anch’io) quali altri canali di contagio usasse il virus: era impensabile che quasi 6 miliardi di persone sulla Terra fossero morte, perché tutte avevano bevuto (per quanto popolare e diffusa) la Devian. Un ruggito frantumò i miei pensieri. Presi a camminare a passo svelto, chinato dietro una fila di auto abbandonate. Finirono i palazzi e mi trovai al cospetto di una radura-parco, rigogliosa e punteggiata di altalene e scivoli arrugginiti. All’orizzonte, circolari punti di viola, verde e giallo in movimento, componevano la ruota panoramica del Luneur, che veniva usata da tacchini e galline per reimparare ai piccoli a volare.

La sfida

Arbitrava un signore pingue e pelato con trascorsi da calciatore dilettante. Era il padre di Valter, il nostro stopper. Si doveva toccare la palla di prima su quel campaccio di proprietà delle suore e io, lento e ciccione com’ero, potevo essere utile solo giocando d’astuzia o tirando qualche bomba su punizione. Quel pomeriggio di aprile del 1973 stavamo perdendo 2 a 1 contro i ‘Falchi neri’ di Agostino, dribblomane dinoccolato che in quella partita aveva già segnato una doppietta; il gol nostro, dei ‘Lupi grigi’,l’aveva siglato Sandro, mediano nervoso e onnipresente. A una manciata di minuti dalla fine il nostro portiere m’invitò allo scatto (!) lanciandomi una palla lunga sulla fascia sinistra; fui costretto a contenderla all’ala avversaria e, nonostante fossi in vantaggio, venni presto raggiunto: affanno e sudore, lampi e intuizioni rutilarono nella mente, in un secondo considerai se scagliare via la palla, dare una spallata al ‘nemico’ o fare una finta. Una buca mi trasse d’impaccio facendo rimbalzare stranamente la sfera e disorientando più di me il fromboliere rivale. D’istinto la colpii con lo stinco e ne prolungai la corsa, guadagnando qualche metro, ma subito da dietro quello rinvenne sbuffante. Girai rapido la testa e vidi Sandro lontano che correva verso l’area dei Falchi. Avevo quasi raggiunto dei filari d’uva che formavano un’ideale linea di fondo, non c’era più tempo e allora colpii forte da sotto il cuoio, di collo interno sinistro, il piede meno prediletto. La palla schizzò a parabola, alta nel cielo terso di tramontana, per poi ricadere al limite dell’area dove Sandrone al volo, di piatto, la mise alle spalle del portiere. Tripudio. Un’azione spettacolare, due passaggi e gol. Tornammo festanti verso il centro del campo e appena rientrati nella nostra metà, qualcuno urlò. Quattro ragazzi nomadi stavano rovistando tra i cespugli dove parecchi di noi avevano adagiato borse e giubbotti. Ci precipitammo verso di loro e cominciò un carosello caotico a metà fra la rissa e l’inseguimento. Nel frattempo due Falchi in vena di burle, non avendo beni in pericolo, effettuarono indisturbati la ripresa del gioco e duettando solitari arrivarono fin dentro la nostra porta deserta, fregandosene del casino circostante. Recuperammo a fatica le nostre cose, i predatori si allontanarono e ci dirigemmo verso l’arbitro per fargli riprendere il gioco. Grande fu lo stupore quando capimmo che intendeva concedere quel gol ridicolo; a nulla valsero le nostre proteste, l’idiota fu inamovibile e convalidò. Perdemmo così 3 a 2.

Dopo quella volta il padre di Sandro sparì dalla circolazione e non riuscii a sapere mai con certezza il perché di quel comportamento. Potei formulare solo ipotesi. Forse accordò quel gol per ostentare imparzialità o per non perdere tempo con una pausa; magari volle fuggire la responsabilità di dover intervenire, lui, calciatore fallito e unico adulto presente, cui dei ragazzi nomadi volevano rubare un sogno di gioventù.

Prima visione

Ero perplesso. Avevo visto quel film almeno 20 volte. Un pilastro, un archetipo della commedia nera americana. Se fosse stato vivo avrebbe potuto girarlo senz’altro Chaplin; eppure alla 21° visione, appena dopo la scena clou che tanto aspettavo, quella in cui la Cadillac viene affiancata da 2 camion della spazzatura, ebbi la sensazione che fosse diversa dalla visione precedente. Sembrava mancasse qualcosa, magari esistevano più versioni del film o forse, più semplicemente, il mio ricordo era auto-manipolato.

Quel giorno ero tornato dall’ufficio inquieto e di cattivo umore, l’azienda stava ristrutturando e c’era il rischio concreto che io e la mia unità fossimo trasferiti in una sede periferica, squallida e fuori mano, un super-cubo prefabbricato nell’hinterland est coi tornelli all’entrata, senza balconi ne cortili, con finestre in alluminio anodizzato e aria condizionata tutto l’anno, in un arido open-space, dove saremmo stati tutti a contatto di gomito, come tanti polli in batteria.

Forse fu questo stato d’animo, con il quale decisi di rivedere ‘A taluni piace Aldo’, che determinò poi una valutazione ‘anomala’ del film. Mesi dopo, quando tutti i timori legati al trasloco di lavoro si rivelarono infondati, stavolta per festeggiare, volli rivedere per la 22a volta il capolavoro, a cuor leggero e con ludici intenti. Ebbene, anche stavolta riscontrai anomalie, non sostanziali ma di svolgimento. Inquadrature e dialoghi, pur nel rispetto della solita trama e degli stessi attori, mi risultarono inedite e stonate. Fu verso la fine, quando al protagonista viene posta la domanda cruciale, la cui risposta determinerà il destino di ogni personaggio, proprio mentre lui riflette, smarrito e roso dal dubbio, eccolo girare lentamente la testa e bloccarsi, fissando la mdp. Cioè me. Si, mi fissava, con aria disperata, ma non era il vecchio gioco alla Stanlio e Olliodi cercare complicità/solidarietà nel pubblico; no, quello ce l’aveva proprio con me, anche perché le 21 volte precedenti, sono strasicuro, questo comportamento non l’aveva mai avuto.

Poi si voltò e rispose nel modo saggio e conciliante, che da trent’anni fa invariabilmente emozionare milioni di persone, di cui migliaia con le lacrime.

Solo all’ultimo, nell’epilogo, riconobbi il film che avevo sempre amato.

Rimasi pervaso dalle vibrazioni sentimentali, comiche e drammatiche dell’opera, ben oltre il the end; rammentai le scene che mi avevano suscitato inedito stupore, oltre a quelle mitiche, di sempre. Poi di colpo capii.

Capii che i film sono fatti di materia inanimata fino ad un certo punto. Superato un imprecisato numero di visioni, che può variare da film a film, la materia inerte si anima e attraverso gli occhi e i flussi emotivi di chi guarda e di chi recita, avviene una migrazione reciproca di emozioni e allora il ‘supporto’ subisce una metamorfosi. L’attore e lo spettatore sono null’altro che materia vivente confinata in differenti dimensioni. Stabilita una solida confidenza attraverso la periodica frequentazione, le due ‘nature’, lentamente scavalcano la barriera posta fra gli elementi, incontrandosi: da estranee diventano familiari e sviluppano in embrione la capacità di autodeterminarsi; è quindi improprio sostenere, com’è uso dire “…abbiamo visto 2001 Odissea…”. No, ognuno di noi ha visto un film diverso, come ogni film è diverso, Lui stesso ad ogni visione.

 

Redazione
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