Fuga quantistica


ANDARSENE,
e se fosse l’unica?
di Mauro Antonio Miglieruolo

È abbastanza raro incontrare nella Fantascienza descrizione di Mondi Pacificati in cui le energie rinnovabili e in particolare quella solare costituiscano l’argomento principe e lo sfondo della narrazione.

I Mondi Pacificati, ma dovrei anche aggiungere Mondi Puliti, che sperimentano la tranquillità di una vita operosa fondata sull’equità, sull’ecologia dei pensieri insieme a quella dell’ambiente, sulla cooperazione tra diversi e sulla qualità della vita, sembrano non essere al primo posto nella graduatoria di attenzione del narratore di fantascienza. Ed è paradossale se si considera la superiore sensibilità sugli stessi temi che può essere constatata tra gli appassionati del nostro ambito, scrittori inclusi. Molto prima che fossero dibattuti nella società, costituivano materia corrente di pensieri, preoccupazioni e commenti dei discorsi in circolazioni. Non che gli scrittori evitino di trattarli, lo fanno però tangenzialmente, accennandovi o in subordine di altri temi. Prevalente è infatti l’immagine di società future che sviluppano il peggio dell’oggi, le gare di avidità monetaria e non, il superinquinamento, la lotta di tutti contro tutti e il conseguente malessere. Quando, inoltre, capita di imbattersi in qualche pagina che frettolosamente ai valori primi si ispira, ci si accorge che essi sono introdotti per meglio illustrare, nel contrasto, i drammatici apocalittici scenari di futuro da qualcuno auspicati (devono esserci questi “qualcuno”, altrimenti non si spiegherebbe come certi peggio posano realizzarsi), da altri solo previsti e altri ancora, forse i più numerosi, temuti. In ogni caso, oltre che prevalenti, sono questi scenari luttuosi il motore dell’invenzione e il centro della nar-razione, senza possibilità di scampo.
C’è da chiedersi il perché di questa relativa assenza di panorami conciliati concilianti. Forse il disastroso e il peggio costituiscono, o si crede possano costituire, un più efficace quadro entro cui collocare dramma e avventura? Se è questo il motivo mi sento di poterlo respingere. Se vicende luttuose attraggono notevolmente le anime semplici e quelle complicate, è vero anche che accanto all’Amore Contrastato è possibile porre, con uguale successo, l’Amore Realizzato, che il costruttivo vale quanto il distruttivo nel fornire materiale adatto all’intreccio. Gli occhi di due che si incontrano, l’Amore Celeste che ne consegue, valgono quelli pieno d’odio di una coppia che si scontra. Si ferisce e si lascia.
La consapevolezza dell’esistenza di una prevalente opinione contraria in merito potrebbe in-durmi a chiudere queste brevissime note con un “sì, è proprio così”, il pre-giudizio è presente e non c’è nulla da fare, rassegniamoci: prendiamo atto che qualsiasi storia non infarcita da gravi pene per i protagonisti, priva quindi di quel surplus di tensione drammatica che ne possa assicurare il successo, è difficile da concepire e tanto più scriverla e, di conseguenza, leggerla. Ma poiché l’opinione vale poco rispetto alla realtà, proseguo questa riflessione tendente a ribadire il ruolo e il valore di visioni del mondo positive (fascinazione di paesaggi agresti, società armoniose armonizzanti, idilli ecc. ecc.), ponendomi un secondo interrogativo, diverso dal primo e però conseguente: perché l’opinione contraria? perché il crescente moltiplicarsi del peso delle visione pessimistiche sull’uomo e l’umano agire?
Quel che la mente presenta in un primo momento è la banale, ripetuta alla nausea, conside-razione sulla curiosità e fallibilità e caducità dell’essere umano, insieme a visioni sulla natura del Mondo quale palcoscenico dei suoi limiti e suoi difetti: l’ambizione, l’avidità, la furia, la crudeltà, la sconsideratezza e l’assoluta incapacità di considerarsi nel bene che l’uomo è pure capace di produrre. Questo modo di vedere le cose mostra una considerevole tendenza a rafforzarsi ed è nei fatti rafforzato dalle tendenze di fondo dominanti gli assetti sociali contemporanei. Ognuno di noi è sot-toposto a una tremenda pressione, per lo più impalpabile, ad assumere determinati comportamenti e esibire determinati stili di vita. Danaro, aspetto, successo, furbizia, giocare sporco pur di vincere, sovrastano sempre più il bisogno di amicizia, lo sviluppo della vita interiore, la semplicità, il rispetto per se stessi (per la propria vera natura) e l’amore verso il prossimo. Il che comporta il declinare di valori che vengono ormai avvertiti come “tradizionali” (nel senso di obsoleti); e il crescere della distrazione nei confronti di ipotesi di vita “regolare”, una vita di libertà, autodeterminazione e lontano dalle privazioni, fatiche e umiliazioni che l’attuale sistema secerne come la vipera secerne il veleno. L’ordinario di esistenze sregolate esclusivamente a causa di eventuali conflitti interpersonali appare come mera Utopia, sfrenato sogno a occhi aperti.
Ecco dunque, in un ambito in cui trionfa la follia e il disumano, e nel quale il sodalizio tra limiti dell’umano e limiti dell’organizzazione sociale squilibra in modo crescente il tranquillo pro-cedere dell’esistenza, ecco spegnersi ogni voce che parli in favore di questo equilibrio; e di converso affermarsi la spontanea credenza sulla auspicabilità (tendenzialmente esclusiva) della pratica dell’avventura fondata sul conflitto, la disdetta, la tragedia, la rovina e la morte. Ecco, allora, gli au-tori, confortati ma anche impigriti da modelli narrativi ben collaudati, optare per il pianto e lo stridor di denti; o quantomeno mettersi al riparo di ragazze in fiore percolanti da salvare, genitori che si ostinano a ri-vivere la vita sostituendosi ai propri figli, viaggiatori della notte esposti a brutti incontri, viaggiatori del pensiero protagonisti di grandi sconquassi e Grandi Capitane ammalate di dispotismo dal quale vengono guarite tramite (orrendo!) manipolazione emotiva-mentale.
Ora poiché rispetto a tale tendenza son pochi coloro che trovano qualcosa da ridire, prefe-rendo la maggioranza procedere sulla solita strada, senza svariare e senza approfondire; assumo su me stesso (mi tocca) l’onore di andare oltre, saltare a piè pari la sosta nell’abusata prima (e anche seconda) osteria, per dire la mia svariando e approfondendo.
E dico: vero, finché l’uomo si manterrà nell’imperfezione, le società prodotte saranno pari-menti imperfette, e ciò che scriverà per dar conto a se stesso di stesso (funzione di conoscenza) risentirà dei conflitti inevitabili propri alla sua (con l’aggravio dei conflitti evitabili determinati dalle distorsioni effetto delle sconce architetture sociali).
Tuttavia, se consideriamo il nostro essere, dal punto di vista evolutivo, mostri che hanno su-perato positivamente le pressione dell’ambiente (un esame questo che non finisce mai), nonché mu-tanti culturali “selezionati” dalla spinta evolutiva che l’uomo ha impresso a se stesso attraverso la creazione della cultura e delle realtà umano sociali che le permettono di ampliarsi e prosperare; e-merge quel che la parole “imperfezione” non dice ma sottintende: che esiste una norma rispetto alla quale deviamo, ma alla quale inevitabilmente ritorniamo (altrimenti saremmo demoni perfetti nella loro opzione per il male). Nonché che questa norma è sempre meno stocastica (probabilistica) e sempre più dipendente dalle scelte umane.
Dunque tutto è affidato a queste scelte. Sia il bene, sia il male. Sia la pressoché infinita serie di eventi, impulsi, situazioni intermedie che non possono essere riferite esclusivamente all’uno o all’altro, ma di volta in volta in misura variabile ai due poli, in un caos di rimescolamenti interni ad ognuno, che ci rende difficile definirne il grado. Chi è buono e chi è cattivo? E chi è che può giudi-care? Possiamo al massimo definire le azioni, mai le persone. Non definirle per il bene e neppure per il male. Noi vorremmo, ma non possiamo approdare alla consolatoria certezza di affermare che il prossimo è caratterizzabile in uno specifico modo: il che vale per ognuno di noi, ma vale anche per la storia che l’insieme degli “ognuno di noi” produce.
Le stesse civiltà che hanno scavalcato la barriera dei millenni rilasciano messaggi complesso di bellezza bruttezza, compassione crudeltà, solidità e fragilità.
L’imprevedibilità domina, gli uomini ne sono sgomenti. Per quanto si sforzino di aprirla al futuro, sappiamo in partenza del fallimento dell’impresa. Il futuro non è per noi.

Ecco dunque la sfida dell’avventura perigliosa che interviene a consolarci. Fin lì, con l’inventiva, arriviamo e dominiamo. Le stesse forze del male scatenate e vittoriose, se vincono trionfano tra le pagine di un libro, il romanzo ci offre lo spettacolo di fenomeno facilmente controllabile: basta che l’autore lo voglia e il lettore consenta che lo voglia.
Si tratta di una prima spiegazione, sommaria e pure credibile. Che però se mi porta un po’ più vicino alla soluzione del problema che mi sono posto, non lo fa in modo soddisfacente, esaustivo. Son costretto, allora, a ripetermi. Perché rappresentare di preferenza la violenza, il turpe, il vizio? perché l’oscuro buio ancestrale dell’umano? il suo cervello da rettile? le sue visceri? E non l’altrettanto seducente del cervello homo sapiens e del cuore?
Azzardo due ulteriori ipotesi. La prima relativa a una carenza culturale. E cioè l’assenza nel senso comune della consapevolezza che i destini individuali e complessivi dipendono da ciò che i singoli e le masse credono possibile si inveri. Il pessimismo predomina. La paura, seminata a piene mani da tutti i governi, la fa da padrone. Una volta c’era l’esercizio dell’Utopia a mantenere aperte determinate porte, ora più neanche quello. Esclusivamente la visione tetra, sempre uguale, di miliardi di essere condannati alla fatica di Sisifo di inseguire un benessere che la maggioranza non raggiungerà mai; e che riduce la minoranza al sottorango di consumatori, cioè di soggetti passivi dei prodotti dell’industria del consumo. I moti del cuore in questo contesto appaiono pura velleità, credenze risibili, atteggiamenti perdenti nella diuturna della lotta per l’esistenza (ma la sfera della cultura NON funziona secondo questo principio, applicabile alla natura dopo essere stato emendato tramiti pesanti distinguo e ampie correzioni). Il bene che pure c’è, impossibile nasconderlo, è pensabile solo come nostalgia, cieca velleità, amara recriminazione. Gli si consente di apparire nell’artificio obbligato dell’happy end, quello speciale gran suono di fanfare che si ode ogni volta che le petizione di principio chiede, anzi esige, siano riscattare le angosce evocate nel lettore.
Ma ce n’è una seconda, altrettanto importante, segnalata con forza da Lino Aldani, or sono molti decenni, ed è indipendente dal problema dell’autogenerazione della devianza di cui si è appe-na parlato. Noi siamo mostri fuori, ma anche dentro. Mostri non solo nel senso negativo, anche in positivo. Mostri di solidarietà, di compassione, di socievolezza, di aspirazione al comune. Tutti e-lementi che è possibile trovare traccia in natura, ma presenti in forme nuove e con intensità nuova nell’essere umano. L’uomo, come tutti gli esseri costituisce una deviazione dalla norma sia este-riormente che interiormente.
Può essere allora che questo secondo aspetto dell’umano emetta continui gridi di dolore e al-trettanti appelli al soccorso, contro i bistrattamenti che subisce dagli impulsi animali ereditati dai tempi in cui, oltre cento milioni di anni fa, anche noi eravamo rettili? Che avverta insofferenza con-tro il sistema da lui stesso costruito e dentro il quale si sente compresso, come in prigione?
Nel qual caso si tratterebbe, con la continua rappresentazione della violenza e dell’orrore su-scitato dagli antichi mali e antichi torti, di esorcizzare quel negativo del quale prendiamo atto e te-miamo di non poter controllare. La parte umana parlerebbe per svelarsi nel pieno della sua propria vergogna, ma soprattutto per invitarci, una buona volta, a liberarci da quello che ci appesantisce, che rende difficile a tutti la vita e in molti produce persino disdoro e infelicità.
Ma ciò se da una parte attenua, dall’altra aggrava. Per attuare l’esorcismo ci si richiama con-tinuamente al male e lo si rafforza nel mondo. Il nostro Mondo è un brutto Mondo anche perché non facciamo altro che ripetercelo. E ripetendocelo ci distraiamo dalle responsabilità che la vita compor-ta. Dal coraggio, ad esempio, di affrontare noi stessi nei nostri errori ed orrori, autolimitati dalla re-criminazione e del trastullo di immaginarci come non siamo, perversi animatori di fantasiose avven-ture in cielo in terra e ogni luogo.
Responsabilità vuol dire anche ammettere d’essere tutti quanti complici dei vituperati politici, ai quali ascriviamo la colpa di molte malefatte e tutte le disgrazie, invece di specchiarci in essi e riconoscere che i loro difetti sono i nostri difetti (non a caso li eleggiamo, sempre gli stessi, decennio dopo decennio, nonostante il pessimo esito delle loro azioni). Vuole soprattutto dire dare il fatto loro a certi “realisti” pronti a invocare è il destino cinico e baro a discarico delle loro errori; e che, per potersi mantenere nell’empireo delle loro convinzioni, si richiamano continuamente alla necessità di stare con i piedi ben piantati sulla terra, che poi sarebbe il cemento armato dei loro pre-giudizi.
Non entriamo allora in sintonia con costoro. Leggiamo pure quel che ci viene offerto di leg-gere, in attesa di letture diverse e, forse, migliori. Sapendo che migliore può essere il Mondo se io lo voglio, lo credo e lo immagino migliore. Sapendo che nel subito delle risposte sta il lontano degli effetti. Effetti reali e effetti narrativi.
Cosicché, ogni volta che a un nostro distinguo la replica che riceveremo sarà il solito lapidario ineffabile canone così va il mondo, amico! propongo di rispondere: così va per te, non per me che mi sta trasferendo armi e bagagli sul pianeta quantistico delle mille speranze e diecimila possibilità. A-mico.
Aperte a me come a chiunque.

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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