Gianluca Ricciato: ozio creativo mangia Capitale

Al Parlangeli di Lecce si è svolto un seminario tanto anomalo quanto necessario voluto dal consiglio didattico di Filosofia, per parlare di otium e negotium latini, ma soprattutto dei modi possibili per mettere in discussione oggi un  produttivismo insensato che logora l’esistenza di tutti.

È una cosa talmente radicale che è difficile da vedere e da praticare anche per i più acerrimi nemici del sistema: ammutinare il produttivismo. Se ne è parlato a Lecce, nientemeno che all’Università, con artisti, professori e professionisti vari. Professionisti ufficialmente del neg-otium, ma in realtà tutti più o meno implicati in varie forme di ozio creativo.

Il pretesto è stato l’uscita dell’album Sciù Sciù degli Anima Lunae (Capitoni Coraggiosi, 2009), sorprendente e tenace gruppo leccese di musica caraibica e sudamericana – il son salentino, amano chiamarlo. L’organizzatore di questo seminario, intitolato Otium e negotium – Dal principio di prestazione all’ozio creativo, è proprio il cantautore Beppe Elia, poeta che canta alla luna e anima degli Anima Lunae.

La cricca chiamata a raduno per questo seminario formativo è formata da una credibile serie di personaggi –  dal sociologo delle transe Piero Fumarola ad uno dei protagonisti dell’ambientalismo salentino come Sebastiano Venneri – resistenti alle monocolture del produttivismo seriale occidentale. O per dirla più semplicemente da una serie di persone che nella vita hanno tentato di non dividersi fra tempo libero e tempo occupato, fra sapere da una parte e piacere dall’altra, fra produzione e ricreazione.

“La movida, il tempo libero, la ri-creazione” dice il professor Domenico Fazio “non sono altro che attività canonizzate del consumo”. “Costringere tutti a tornare al negotium” aggiunge Carlo Formenti “è stata l’arma del liberismo per sopprimere la ribellione degli anni Settanta, l’inizio della frammentazione e dell’individualismo. Fino ad arrivare ai giorni nostri dove l’ozio è talmente negato da essere totalmente risucchiato nella produttività: ogni comunicazione, ogni chiacchiera, ogni forma di divertimento deve finire per produrre ricchezza per qualcun altro, l’hi-tech del capitalismo globale si fonda sul nostro divertimento, sul nostro tempo (apparentemente) libero passato a consumare comunicazione fra social network e cellulari. L’unico modo che ci rimane è di riservarci un residuo di otium veramente libero e creativo almeno per ragionare di questo!”.

Sono l’arte, la fantasia e il tempo per praticarle, questo residuo?

Proprio a questo proposito, nell’affermare che le lotte degli anni Settanta hanno rappresentato dopo secoli le prime forme collettive di ammutinamento dalla cultura produttivista – l’ozio al potere – Luigi Lezzi ricorda il capo sioux Alce Nero che diceva: “Il mio popolo non lavorerà mai” e gli indiani metropolitani del Settantasette occidentale che riprendevano questo slogan. “Per Alce Nero non era il rifiuto del lavoro tout court” spiega Lezzi “era il rifiuto del vostro lavoro, di questo lavoro.” Di un modo di produrre che divide l’anima dal corpo, l’essere umano dalla terra, di un tempo della produzione che ruba sei giorni su sette al tempo della vita.

Il neg-otium era per i Latini negazione dell’otium. Era cioè la forma negativa della contemplazione, del pensiero, il negarsi a se stessi per iniziare ad agire, e poi ritornare all’ozio. Non era apatia né il padre dei vizi, era il “rotolare dei pensieri”, la divagatio mentis necessaria per poter ragionare del negotium. Oggi probabilmente non serve più ragionare dei nostri vari e incessanti negotia, e magari è per questo che tutto va allo scatafascio. Ora che, come dice Venneri, “perfino la vacanza ha perso il suo senso etimologico di vuoto, assente, vacante, per essere continuamente riempita di attività che consumano noi stessi e il territorio”. Per evitarci, anche in vacanza, di pensare a noi stessi e al territorio. Perché contemplare la Natura è ormai perdita di tempo.

“È da una certa fase del medioevo” ci ricorda Mino Toriano, chitarrista degli Anima Lunae “che l’otium è diventato l’allegoria di uno dei sette peccati capitali – l’accidia – il demone meridiano che attaccava gli alacri e produttivi monaci proprio nel loro momento di maggiore debolezza, allo schiacco pomeridiano del Sole, con l’arma impropria della divagatio mentis”. E’ passato un millennio ma non sembra molto diversa quest’allegoria dalla pericolosa sonnolenza postprandiale che si aggira negli uffici metropolitani dopo la mezz’ora quotidiana di pausa pranzo.

Al fondo dei liberi e divaganti pensieri che hanno riempito questa nuvolosa mattinata salentina di inizio estate del secondo anno di crisi globale, ci sono in realtà molti nodi cruciali del pensiero occidentale e delle nostre esistenze quotidiane, magari non nominate esplicitamente ma continuamente in filigrana in tutti gli interventi: la possibilità in quest’epoca di creare, di fare arte, poesia nel senso etimologico della poiesis, del fare appunto; il nostro modello di sviluppo improntato alla crescita illimitata e alla produzione incessante contro le teorie antiutilitariste e della decrescita; l’utilizzo coloniale delle terre di conquista, cioè dei vari Sud del mondo e delle loro genti, da parte di un Nord, geografico o mentale, che non ha mai perso il vizio di imporre con la forza i propri valori; le fondamenta millenarie di una cultura occidentale che ha consumato non solo la Natura, ma anche le sue radici storiche, quell’equilibrio fondante che si racchiudeva nel famoso passo ciceroniano in cui l’ozio preparava al negozio, in un andirivieni virtuoso che garantiva la sana e saggia esistenza del corpo e dello spirito.

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