Gino Di Costanzo: «Jobs non era mio amico»

Forse è vero che mordere la mela fa conquistare la conoscenza ma è anche un imperdonabile peccato.

Il meglio del blog-bottega /151…. andando a ritroso nel tempo (*)

Girovagando nella rete dopo la morte prematura di Steve Jobs (**) ho rilevato con un po’ di sorpresa quanto rapidamente e a macchia d’olio si sia diffuso il sentimento di cordoglio per questo tragico evento. Molti hanno espresso profondo rincrescimento quasi nei termini in cui ci si duole per la scomparsa di un vecchio amico che non si vedeva da tempo. Sulle prime ho ipotizzato si trattasse di sublimazione della gratitudine – che molti sembrano nutrire – per l’inventore di strumenti che hanno modificato radicalmente i nostri comportamenti. Si tratta non solo di sofisticati utensili per il lavoro, ma di vere e proprie protesi aggiuntive per comunicare, nuovi acceleratori e moltiplicatori delle relazioni umane. In questo preciso istante probabilmente devo qualcosa a colui – o a coloro – che mi consente di avere dei lettori fisicamente molto lontani da me.

Personalmente non provo un particolare dispiacere per questa dipartita, sono altri i lutti che mi colpiscono. Eppure mentirei se mi proclamassi indifferente a questa notizia. Inutile girarci intorno: Jobs è un mito moderno ed è questo che ha amplificato l’intensità dell’onda emotiva provocata dalla sua scomparsa. Un mito nato dal suo precocissimo talento, dalle sue idee talmente innovative da apparire geniali, dal suo ostentato anticonformismo, dal suo spirito di ribellione, genuino o costruito che fosse. Le parole di un suo toccante discorso agli studenti di Stanford rimarranno incise a lungo nella memoria di molti giovani (e meno giovani) che ancora sognano di farcela. Era certamente un uomo di grande fantasia, perché le cose bisogna prima immaginarle. A quest’uomo non mancava nulla per essere, come era, innegabilmente affascinante. Il genio della porta accanto, potremmo dire.

Ma io non sono persuaso che la sua aura di “folle razionale” e il suo acume ribelle fossero la spia di un reale anticonformismo o insofferenza verso l’ambito sociale e lavorativo che si era scelto per emergere. Non reputo il vero anticonformismo indirizzato verso la creazione di un colossale impero economico, anche se questo impero è il frutto di una straordinaria scintilla iniziale. Riflettendoci su cosa distingue il ribelle, l’anticonformista, il “folle”, dalla piatta normalità di tutti gli altri? L’anticonformismo è essenzialmente rifiuto; ma se questo rifiuto è confinato nel mero rigetto dei rituali standardizzati dell’apparire, nell’esibizione del sembrare ordinari in consessi non ordinari, democratici pur appartenendo a una elite, accessibili eppure intoccabili come ogni tycoon che si rispetti, allora probabilmente parliamo di superficie, di pura immagine. Il genio “folle”, se rifiuta la sostanza e non solo l’apparenza delle cose, pur avendo strumenti intellettuali superiori alla media, si ribella proprio a un sistema che gli consente di arricchirsi smodatamente in una società caratterizzata da enormi disuguaglianze. Un anticonformista non persegue l’accumulazione di capitali, altrimenti a cosa non è “conforme”? All’indossare giacca e cravatta durante i consigli di amministrazione? Ribellione è vestirsi – da ricco – come uno studente diciottenne e povero? A cosa si ribella uno che è diventato miliardario? Possono esistere enormi ricchezze ottenute senza la povertà di qualcun altro? Proprio in questo sistema economico con tutte le sue atroci sperequazioni? Ciò che intendo è che il mito Jobs è un mito della società capitalista, ancora più subdolo perché il personaggio in questione si presentava come una persona normale, l’incarnazione del sogno americano a cui chiunque può accedere (a patto di avere capacità e volontà) perché la società capitalista una opportunità la offre a tutti, non è vero? E se non ce la fai, vuol dire che non sei stato abbastanza intelligente o lungimirante, che non eri dotato di ferrea volontà, che non hai colto al volo l’occasione. Da ciò non discende direttamente che il vero ribelle è sempre uno sfigato malmesso. Ma, di certo, se non è un emarginato almeno è un “non allineato” e certamente – consentitemelo – non è nemmeno quotato in Borsa. Tutti noi, volenti o nolenti, viviamo in questo tipo di contesto socioeconomico, sforzandoci di guadagnare abbastanza per vivere senza affanni, magari usufruendo di beni o servizi non indispensabili, diciamo pure di piccoli lussi superflui, a volte. Anche lo scrivente, per esser chiari. Ma entrare nel circuito economico e finanziario mondiale è altra storia: bisogna volerlo. Bisogna volerne accettare tutte le regole codificate così come quell’unica che si deve tacere: l’assoluta, criminale, effettiva mancanza di regole e di controllo, quella perversa libertà che costituisce l’unico modo per tenersi a galla nel feroce e lontano mondo dell’alta finanza, quel mondo in cui bisogna “conformarsi” sul serio.

Credo che Jobs fosse una persona dal carattere solido e concreto (uno che ci ha indotto a “desiderare” cose che nemmeno sapevamo di volere), così come credo che il suo mito sia frutto di un’abile costruzione mediatica: un utilissimo apporto all’immagine della sua azienda e un potente contributo al potere di persuasione dell’ideologia capitalista che – in mancanza di robusti anticorpi politici – attecchisce ovunque. Basta osservare uno dei suoi ultimi apprezzatissimi filmati pubblicitari che attualmente impazza nel web, quello con frammenti di Ghandi, Luther King, ecc. Quel filmato solletica mellifluo le aspirazioni e i miti proprio “del popolo della sinistra”, perché per vincere bisogna invadere il territorio del nemico. Ancora una volta Lo strumento più potente nelle mani dell’oppressore è la mente dell’oppresso” (Steve Biko, martire sudafricano).

Come “lucida follia ribelle”, preferisco la dolorosa parabola di Artaud. “E cosa c’entra Artaud con Jobs?” si potrebbe obiettare. Il nodo è proprio questo: nulla.

Due interventi dalla rete:

Grazie a Jobs ma anche agli operai cinesi che producono, in condizioni “manchesteriane” (cioè da Inghilterra del primo Ottocento) per quanto riguarda salari, condizioni di lavoro, contesti abitativi e di vita, IPhone, IPad, MacAir progettati dal “grande” Steve. Speriamo che il nuovo CEO di Apple si ponga il problema di migliorare un po’ la loro situazione, perché risulta che Jobs non se ne desse pensiero.

Una famosa poesia di Brecht chiedeva chi costruì le piramidi. Bellissime le musiche di Verdi ma quanto erano sfruttati i suoi contadini? (…) Molti anni fa ho avuto la fortuna di ascoltare quel grande attore e provocatore di Carmelo Bene: nelle biografie non bisogna far cenno che a suon di sevizie mandava la sua donna in ospedale? Che storia è quella che parla solo dei grandi personaggi e cancella tutti gli altri e tutte le altre?

(*) Anche quest’anno la “bottega” recupera alcuni vecchi post che a rileggerli, anni dopo, sono sembrati interessanti. Il motivo? Un po’ perché 14mila articoli (avete letto bene: 14 mila) sono taaaaaaaaaaanti e si rischia di perdere la memoria dei più vecchi. E un po’ perché nel pieno dell’estate qualche collaborazione si liquefà: viva&viva il diritto alle vacanze che dovrebbe essere per tutte/i. Vecchi post dunque; recuperati con l’unico criterio di partire dalla coda ma valutando quali possono essere più attuali o spiazzanti. Il “meglio” è sempre soggettivo ma l’idea è soprattutto di ritrovare semi, ponti, pensieri perduti… in qualche caso accompagnati dalla bella scrittura, dall’inchiesta ben fatta, dalla riflessione intelligente: con le firme più varie, stili assai differenti e quel misto di serietà e ironia, di rabbia e speranza che – speriamo – caratterizza questa blottega, cioè blog-bottega. [db]

(**) in “bottega cfr anche il mio Jobs, dentro e oltre il mito e Ci manca(va) un Venerdì – 12 di Fabrizio Melodia e Gianluca Cicinelli: ipad, ipod, ipud, iped, ipid! scritto però nel 2010

LE VIGNETTE – scelte dalla “bottega” – sono di Giuliano Spagnul.

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