Gioco e sport, fra il mondo e il mio corpo

Questo dossier uscirà (parola più, parola meno e magari con un box in più o in meno) sul prossimo numero della rivista «Cem mondialità»

Sono circa 170 anni che lo sport “moderno” è con noi. Nel quasi vicino 1996, proponendo alcuni testi per parlarne a scuola, io e Riccardo Mancini azzardammo come titolo «E lo sport si fece mondo». E’ sempre più vero. Anche senza Sky, mio  figlio e i suoi amici (…e amiche, lo sport è sempre più anche “l’altra metà del mondo”) possono scegliere in tv, a ogni ora, il calcio o il basket di metà pianeta ma ci sono anche le dirette per quasi ogni sport, un canale tutto sul biliardo e chissà cos’altro.
Un trionfo. Sembra che sport e musica siano gli unici linguaggi quasi universali; è più probabile che tunisine/i, svedesi e pakistane/i siano unite/i nel sapere chi ha vinto gli ultimi 10 mondiali di calcio piuttosto che nel conoscere l’essenza della “Dichiarazione sui diritti umani”.
«L’era dello sport»: così, nel 1994, Stefano Pivato scrisse (per la collana “XX secolo” della Giunti-Casterman) un eccellente libretto riassuntivo. Pivato non è il tipo di cervellone senza corpo che disdegna i piaceri del gareggiare, giocare, sudare insomma fare sport e guardarlo. Eppure gli ultimi due paragrafi – come si leggerà fra poco – del libro rimandano a un fallimento di fondo mentre, per quel che riguarda i corpi, la citazione di Baudrillard sancisce una ossessione diffusa.
«Alla fine del Novecento lo sport, dopo un itinerario di quasi un secolo e mezzo, sembra dunque aver perduto le motivazioni ideali che ne erano state all’origine. In gran parte dispersa la valenza educativa e morale che costituiva la base ideologica del gentleman amateur inglese, il tramonto delle ideologie sembra aver definitivamente fatto naufragare anche l’deale sportivo concepito come affermazione della identità e della supremazia nazionale. Anche l’olimpismo, preso atto di una irreversibile metamorfosi dello sport, sempre più soggetto alla logica del mercato, ha ormai abdicato alla romantica concezione del dilettantismo.   E il corpo, non più luogo e metafora di ideologie, sembra agire attraverso la riproduzione di se stesso. O, come osserva Jean Baudrillard, essere ormai il “solo oggetto sul quale concentrarsi, non già come parte di piacere ma come oggetto di smodate attenzioni, nella continua ossessione della decadenza e della cattiva prestazione. Il corpo è il canovaccio di uno spettacolo la cui strana melopea igienistica si dispiega fra gli innumerevoli centri di potenziamento muscolare, club di culturismo, stimolazione e simulazione che esprimono una ossessione collettiva asessuata”».
Eads e Ptsd
Dialogo fra un Eads (ex appassionato di sport) e un Ptsd (perenne tifoso senza dubbi) non tanto immaginari visto che abitano entrambi nel mio palazzo.
Eads: Gli sponsor sono ingombranti.
Ptsd: Ma necessari.
Eads: I campionati più importanti sono truccati.
Ptsd: No, solo qualche partita ogni tanto.
Eads: Comunque con tutti quei soldi vincono sempre i soliti.
Ptsd: Può succedere di tutto, nessun risultato è scritto in anticipo.
Eads: Gran parte del tifo è violento e razzista.
Ptsd: Macchè, si tratta di pochi idioti.
Eads: Le grandi gare vengono vinte in farmacia.
Ptsd: Un po’ di doping esiste da sempre ma i veri campioni trionfano sempre.

Il dialogo fra sordi potrebbe continuare a lungo. Eads è troppo pessimista ma sul quadro d’insieme sembra difficile dargli torto. Ptsd non crede che lo sport (bello oltre che necessario) sia persino più contaminato della politica (bella di rado ma necessaria sempre) e coerentemente si appassiona al primo e disdegna la seconda, compreso però l’agire sociale e culturale nel luogo dove vive.
C’è forse un solo terreno sportivo sul quale Eads e Ptsd potrebbero concordare e incontrarsi: il football dei campetti, le gare a scuola o nel quartiere insomma lo sport senza sponsor e con riflettori spenti.
Il discorso si chiude qui? Le belle pagine e persino le positive letture politiche dello sport (fatte, tanto per dire due nomi famosi, da Julio Cortazar ed Eduardo Galeano) appartengono al passato?
L’errore di Eads è credere che lo “scontro” – termine un po’ guerriero, allora diciamo “match” – sia definitivamente perduto, mentre intorno allo sport (persino al calcio) si continuano ad agitare diverse opzioni culturali e di valori. L’ errore  di Ptsd è fermarsi alla vetrina in primo piano senza verificare se altre offerte (non adulterate) potrebbero ridare allo sport molto del fascino originale. Ambedue dubitano – parafrasando il noto slogan, quasi passato di moda – che un altro sport sia possibile.

Grandi chiacchiere e piccoli fatti
Fra i tanti, un paio di esempi.
Il primo rimanda a Samuele, poco più di 20 anni: sta tormentando tutti qui a Imola per creare una squadra di pattinaggio dove lui possa allenare (gratis) soprattutto i ragazzi della cosiddetta “seconda generazione” – insomma figli delle migrazioni – e anche attraverso lo sport favorire un dialogo.
Il secondo esempio è nell’armadio davanti a me. Una t-shirt, che d’estate indosso spesso, con i disegni di tre cervelli identici e sotto ognuno la didascalia “europeo”, “asiatico” e “africano”; la quarta didascalia è “razzista” ma lo spazio resta vuoto: me l’hanno regalata anni fa alcuni ultras del Modena, ironici ma decisi a non regalare le curve agli “scervellati”.
Credo che di Samuele ce ne siano tanti (e tante). E ogni anno in Italia si svolgono i Mondiali Antirazzisti.
Insomma il risultato finale non è scritto, perfino nel calcio dove dominano le due s: sponsor e santità (cfr il box «Liturgie del calcio»). La squadra avversaria – i razzisti delle curve, per restare su questo esempio – sono indubbiamente in vantaggio; ma fingiamo una intervista a metà partita con qualche spett-attore fiducioso a dirci: «se ci impegniamo possiamo ribaltare il risultato».
Nello spirito delle “piccole cose” – di Samuele o degli ultras del Modena – credo che sia utile riprendere un libretto (pubblicato nel 1999 nellla collana “minori” della Unicopli) di Raffaele Mantegazza e intitolato «Con la maglia numero sette» e il sottotitolo «Le potenzialità educative dello sport nell’adolescenza».

Sport e pedagogia: le stazioni di una passione
«E’ facile – scrive Mantegazza – decodificare e mettere in ridicolo la retorica del campione progandata dai media: più interessante e difficile cercare di rispondere alle seguenti domande.
1. Per quali motivi tali immagini hanno una presa immediata sui giovani, i quali sono ben coscienti del carattere mercantile e corrotto della pratica sportiva professionistica ma affiancano a questa operazione di cosciente demistificazione un vissuto emotivo di condivisione e di identificazione con i grandi personaggi del mondo sportivo? […]
2. Quanto dei modelli proposto dai media penetra nelle pratiche di allenamento, nelle metodologie di training, nelle posture, nell’abbigliamento, nel tono di voce dell’allenatore? […]
3. Che cosa c’è di così potente a livello simbolico de emotivo nella logica dello sport che fa sì che si incontrino ragazzi che obbediscono all’allenatore e mandano a quel paese genitori, insegnanti, catechisti e altri adulti: teppistelli da strada che abbassano lo sguardo davanti al cartellino giallo dell’arbitro; genitori che riscoprono la capacità di fare sacfrifici del proprio figlio?».
Subito dopo Mantegazza ragiona di materialità, ritualità, emotività. Siamo nel primo capitolo («le stazioni della passione»). Il successivo si muove su «qualche coppia di opposti»: gruppo-sinmgolo; accoglienza-espulsione; differenziazione-omologazione; regola-trasgressione; fantasia-realtà; vittoria-sconfitta; corpo-organismo; gesto-prestazione. Il terzo capitolo sul «rito magico della partita» è diviso in tre ampie sezioni: lo spazio; il tempo; i corpi e i rituali. Il quarto e ultimo capitolo è sul tifo.
Ho letto in questi anni molti libri intorno allo sport e al suo fratellino gioco: ma dovessi consigliarne uno (a chi non vuol perdere le speranze) sceglierei questo.

Ci sono molte storie sportive che la retorica e/o le censure hanno cancellato e almeno un paio possono essere utili per completare questo dossier.

Medaglie e perline di vetro
La prima è di un uomo che ha avuto tre nomi, molte medaglie (tolte) e un destino infame. Jim Thorpe ovvero Wa Tho Huch cioè Sentiero lucente. Nativo, indiano d’America, pellerossa se preferite. Probabilmente il più grande atleta di tutti i tempi, il più completo dell’era moderna. Quel prudente «probabilmente» significa: per ciò che sappiamo, visto che delle Olimpiadi greche (o comunque dello sport nell’antichità) ben poco conosciamo.
Nel 1912 alle Olimpiadi di Stoccolma l’allora sconosciuto Jim Thorpe gareggia nel pentathlon e vince con risultati straordinari per l’epoca: 7,07 nel lungo; 46,41 col giavellotto; 33,57 con il disco; 4’44”8 sui 1500 metri e 22’09 sui 200 metri. Già che c’è (Thorpe) partecipa anche alle gare del salto in alto e lungo dove arriva solamente quarto e settimo rispettivamente. Ma il successo più clamoroso l’ottiene nel decathlon e in almeno 4 gare (su 10) fa registrare risultati che lo avrebbero portato a vincere medaglie anche in quelle specialità (individuali) se avesse partecipato alle finali. Nel dargli la medaglia d’oro, il re Gustavo di Svezia scandisce: «signore, lei è il più grande atleta del mondo». All’inizio del 1913 però un giornalista statunitense vede una fotografia di Wa-Tho-Huch in tenuta da football. In cerca di uno scandalo indaga e scopre che nel 1909 Thorpe ha giocato sia a baseball che a football per qualche decina di dollari al mese. La federazione Usa di atletica leggera lo squalifica a vita. E’ costretto a restituire le medaglie e il suo nome viene cancellato dall’elenco dei vincitori olimpici. Nessuno muove un dito per difendere il pellerossa Thorpe, nonostante episodi di “professionismo” (più o meno mascherato) fossero già allora tollerati. Il clima olimpico del resto era ben diverso da quell’ideale di “fratellanza” attribuito a De Coubertin e soci: soprattutto non piacquero agli organizzatori delle Olimpiadi le vittorie di neri, indiani e di un hawaiano contro i bianchi; e infatti gli Usa avevano ritirato dalla finale dei 100 metri di Stoccolma il più veloce, un afro-americano, per far vincere il connazionale wasp (white anglo-saxon protestant).
Wa-Tho-Huch protesta. Inutilmente. Comincia a bere. Nel 1952 finisce all’ospedale dei poveri di Filadelfia. E il 23 marzo 1953 viene trovato morto in una vecchia roulotte. Solo nel 1982 il Cio (Comitato internazionale olimpico) revoca la squalifica «per professionismo»; il 30 gennaio del ’98 le poste Usa gli dedicano un francobollo. Forse la miglior riparazione è datata novembre 1969: Grace Thorpe, figlia di Jim, fa parte del primo gruppo di pellerossa che occupa l’isola di Alcatraz, al largo di San Francisco. Chiedono il rispetto dei Trattati firmati dal governo con le tribù indigene. Sull’isola si radunano più di 600 nativi, in rappresentanza di oltre 50 tribù. Il Red Power Movement reclama i propri diritti sull’isola. Intendono trasformare Alcatraz in un centro studi sui popoli indigeni, offrono lo stesso prezzo pagato ai nativi per l’isola di Manhattan, 300 anni prima: 24 dollari in perline di vetro.

Il maratoneta teppista
La seconda storia è vera solo nel mondo parallelo della letteratura e del cinema ma è concreta per chi ami correre e/o non si senta a suo agio fra la gente «per bene».
«Perchè, vedete, io non gareggio mai: io corro soltanto e in qualche modo so che dimentico la gara e mi limito a tenere un buon passo finchè non so più che sto correndo (…) e mi domando se sono l’unico corridore al mondo con questo sistema di dimenticare che sto correndo perchè sono troppo occupato a pensare». Una pagina indimenticabile di «La solitudine del maratoneta» di Alan Sillitoe: paura e gioia di star solo, di correre, di pensare…. Sentimenti che tante persone condividono. Nel racconto non c’è solo lo Smith maratoneta ma anche quello teppista, il non integrato che corre nei boschi e nei campi intorno a un riformatorio (prigione è forse più preciso) nell’Inghilterra degli anni ’50 perchè il direttore vuole che lui vinca una gara. «Mi dico che sono il primo uomo che sia mai caduto sulla Terra e appena spicco quel primo balzo fulmineo sull’erba gelata in cui persino gli uccelli non hanno il coraggio di cantare, comincio a riflettere ed è questo che mi piace. Faccio i miei giri come in sogno (…) A volte penso che non sono mai stato così libero come durante quel paio d’ore in cui trotterello su per il sentiero fuori dai cancelli (…) Tutto è morto ma bene perchè è morto prima d’essere vivo, non morto dopo essere stato vivo (…) Clop-clop-clop. Ciuf-ciuf-ciuf. Paf-paf-paf fanno i miei piedi sul terreno duro. Zan-zan-zan mentre braccia e spalle sfiorano i rami nudi di un cespuglio».
Nell’aprile 2010 è morto quello che «Times» ha definito il migliore e più saggio degli scrittori inglesi; purtroppo in Italia Sillitoe era meno conosciuto e stimato. Molte sue opere sono introvabili da noi ma per fortuna Minimum Fax ha da poco ristampato due suoi libri importanti: «Sabato sera, domenica mattina» e l’antologia «La solitudine del maratoneta», dal titolo del racconto che diventò un film-manifesto (di Tony Richardson) e da noi è conosciuto come «Gioventù, amore e rabbia». Sillitoe scelse di stare dalla parte dei proletari che si ribellavano ma anche dei teppisti (con o senza virgolette). «Nella nostra famiglia si era sempre corso molto, soprattutto per sfuggire alla polizia» si presenta l’io narrante di «La solitudine del maratoneta», deciso a non farsi fregare passando una vita dura (da operaio appunto) per guadagnare solo poche sterline. Finisce in carcere ma non si sente sconfitto e prepara il più incredibile finale di gara che si possa immaginare. Ho proposto questo racconto in due classi, qualche anno fa. Fooooooorse significa qualcosa che è piaciuta soprattutto ai non italiani-doc.
Nel finale Eads e Ptsd incrociano Domc
Continuano a litigare Eads (ex appassionato di sport) e Ptsd (perenne tifoso senza dubbi). Li sento da qui.
Eads: Ti fai ingannare dalla messinscena del sudore, dallo stereotipo di giovani contro vecchi, di ex, fedelissimi e traditori, campioni e brocchi…
Ptsd: Ma io amo i polpacci in azione, le smorfie, sconfitta o vittoria, rabbia, guizzi, concentrazione, tensione, sorpresa… Che c’è di male?
Eads: Tutto per scopi fasulli. Vendere un prodotto, mascherare l’ideologia dominante, distrarre l’attenzione da altri problemi. A questo si è ridotto lo sport.
Ptsd: Non è vero. E poi la vita è davvero una gara. Perciò sudar sangue, correre rischi, esibirsi, migliorare il corpo sono qualità positive. Perchè non dovrei ammirare chi in questo diventa un campione? Trucchi? Come nella vita ogni tanto si imbroglia, è normale.
Eads: Una volta tanto avevano ragione i latini, «Mens sana in corpore sano». A te sembra che il corpaccione dello sport sia sano?
Ptsd: Sì. E’ accessibile a tutti, donne comprese. E molte minoranze (etniche o sociali) si rendono visibili attraverso lo sport. Fare sport giova alla salute e guardarlo … male non fa. Dove sono tutti questi problemi?
Eads:  Lo sport mima i conflitti sociali ma al suo interno regna un’ambigua unanimità.
Ptsd: A me pare che oggi persino la politica abbia eliminato il conflitto, mica vorrei darne la colpa allo sport?
Stanco di sentirli litigare, decide di intervenire Domc (Daniele occasionale mediatore culturale) rubando – al solito – idee qua e là. «E se ci potessimo riprendere il gioco e lo sport? Tentiamo una prima ipotesi. Favorire la sperimentazione e la consapevolezza di sè, la partecipazione e non solo il consumo. Dare a tutti eguali possibilità pur riconoscendo le differenze. Acquisire abilità, migliorare la propria immagine non è in contraddizione con il riconoscere i propri limiti. Se le regole sono condivise bisogna accettarle. Che ne dite? E’ una base chiara o ambigua? Troppo debole?». Si apre una discussione (nè apocalittica nè integrata) che … magari continua anche su questa rivista.

BOX 1: «Liturgie del calcio» dal volume «Il gioco» (Emi 2010) di Roberto Alessandrini

Anche se è privo di una configurazione mitica, distante da riferimenti a trascendenza, aldilà, salvezza ed abitato da ideali labili, lo sport “funziona un po’ come una Chiesa” e si configura come “la nuova religione del popolo” (1) con pantheon di adulati campioni, reliquiari di coppe, trofei, medaglie, abiti liturgici, sacerdoti garanti dei rituali, racconti mirabolanti di imprese, foto e immagini pie, riti magici di preparazione. (2) La corsa ciclistica, l’incontro di pugilato, la partita di calcio e il gesto del tennista (3) sono spettacoli in sé, “con i loro costumi, l’apertura solenne, la liturgia adeguata, lo svolgimento prestabilito” (4) e, come la religione, si affidano al fascino del rito e adottano modalità cerimoniali che rompono con il tempo e lo spazio profano. (5) Osserva J.M. Brohm:
Metafore religiose di ogni genere abbondano nel discorso sportivo; l’intuizione più o meno consapevole riproduce oggettivamente la pratica sportiva e alcune strutture del mito, del sacro, del mistico, del culturale, del rituale. Sono numerosi le cattedrali, i templi, le mecche, i campi e i recinti sportivi sacri, etc; pullulano le liturgie, le messe, gli offizi, le cerimonie pagane, le messe a morte per sacrificio simboliche (e, a volte, reali…); mentre i grandi preti, gli officianti, gli eroi delle leggende, i servitori del culto, i pii, i martiri, i santi e i grandi avi sono una legione. Così il linguaggio sportivo riflette la nostalgia della comunione, della fusione mistica nel grande corpo (la Chiesa?) dell’immensa famiglia sportiva. Esprime una confessione, un credo, una Bibbia, l’appartenenza ad una comunità superiore ammutolita dalla fede e dal culto dei grandi avi o dei nuovi messia. (6)

Un grande rituale moderno che si trova al centro di una drammaturgia popolare è il calcio, imponente macchina di comunicazione e socializzazione, “spettacolo interpretato da professionisti, su cui avvengono investimenti materiali, emotivi e simbolici di massa” e luogo di un confronto rituale tra amici e nemici che assume la forma di una metafora della guerra (7) quando addirittura non la provoca realmente, come accade nel 1969 tra Salvador e Honduras per gli incontri eliminatori dei campionati del mondo. (8) Proprio in quegli anni, Pier Paolo Pasolini afferma:
Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. (9)

Segni di croce di calciatori al fischio d’inizio delle gare, preghiere a mani giunte dopo un gol segnato, ricorsi superstiziosi all’acqua benedetta, esibizioni di magliette in cui ci si dichiara appartenenti a Gesù o si inneggia al Papa, associazioni di atleti di Cristo, (10) lodi che vengono innalzate al cielo dopo la vittoria sono gli esempi di una “delocalizzazione” (11) di gesti religiosi e la conferma che il calcio si è trasformato in una religione sostitutiva popolare di tipo laico, in vettore di fascinazione non privo di un suo lato liturgico, in una forma di epica capace di adattarsi alle necessità di una società post moderna e di riprodurre alcune strutture del mito, del sacro e del rito. Il football, osserva Marc Augé, funziona come un fenomeno religioso e le affinità sono molteplici, come ha magistralmente narrato Christian Bromberger, anche se il calcio non rimanda a un sistema religioso autonomo, ma è piuttosto un fertile campo di applicazione “di pratiche magico-religiose prese in prestito da altri orizzonti rituali” che svela il carattere ibrido e minore delle religiosità secolari. Si tratta di credenze perennemente in bilico tra serietà e parodia che, prese alla lettera, potrebbero avere un effetto di “trompe-l’oeil liturgico”.
La cerimonia riproduce le sequenze liturgiche, ma ne traveste lo stile e ne travisa il senso. La coppa, che sarebbe un errore considerare un accessorio intercambiabile, conserva un’aura quasi religiosa (i tifosi cercano di toccarla) ma è, per così dire, svuotata della sua trascendenza. Anche quando si osservano le vetrine (che spesso ricordano gli armadi di una sacrestia) in cui sono conservati i trofei del club si prova la stessa sensazione di oscillazione tra secolarità e religiosità. Si tratta di un museo o di un santuario? Ci si va in visita o in pellegrinaggio? Davanti ad esse, i tifosi tacciono in furtivo raccoglimento, come il passante che incrocia una processione o scorge all’improvviso un altare dietro l’angolo. Restano a metà strada, tra il sacro e il profano. (12)

Questo ibrido si palesa con evidenza a Napoli in occasione dei festeggiamenti per lo scudetto del 1987, quando la “canonizzazione” di Maradona, in un’esagerazione liturgico-parodistica, prende la forma di un “san Gennarmando”, realizzato con la statua del patrono e la testa del campione argentino, e di una processione simile a quella della Madonna dell’Arco.
Nel corso del ΄900 nemmeno le guerre riescono completamente a interrompere il gioco del calcio. Il 22 giugno 1941, il giorno in cui i tedeschi invadono l’Unione Sovietica in una delle azioni decisive della seconda guerra mondiale, 90 mila spettatori assistono a Berlino alla finale del torneo tedesco e nel 1944, pochi giorni dopo lo sbarco di Normandia, in 70 mila seguono la finale di un campionato che in Germania prosegue anche quando l’aviazione britannica rade al suolo il Paese e i giovani vengono inviati sul fronte orientale.
Come ricorda Primo Levi in “Sommersi e salvati“, anche ad Auschwitz si gioca a pallone. Gli spettatori di un incontro di calcio fra una squadra di SS e una rappresentanza del Sonderkommando, i prigionieri incaricati di sgomberare la camere a gas e bruciare i cadaveri, “parteggiano, scommettono, applaudono, incoraggiano i giocatori, come se, invece che davanti alle porte dell’inferno, la partita si svolgesse sul campo di un villaggio”. (13)  Ed è curiosamente specchio dei campi di concentramento, anche se situato su un isolotto della Terra del Fuoco, l’inquietante e crudele stato totalitario, esclusivamente dedito allo sport, di cui narra Georges Perec in un suo libro. (14)
Profondamente legata alle vicende del mondo ebraico olandese è la storia della squadra di calcio dell’Ajax, il cui campo di gioco, ancor prima della guerra, si trovava a circa tre chilometri a est del quartiere ebraico di Amsterdam. Racconta Simon Kuper:
Un ebreo, a una partita dell’Ajax, si sentiva parte di Amsterdam. Lì era protetto. Quando la bandiera con la svastica venne innalzata sullo stadio per una partita contro l’Admira Vienna nel 1938, e i giocatori viennesi fecero il saluto nazista, i tifosi dell’Ajax fischiarono furiosamente e alcuni lasciarono lo stadio. Capire l’Ajax del periodo prebellico aiuta a comprendere lo “sciopero di febbraio” di Amsterdam del 1941, quando per un giorno e mezzo molti lavoratori della città incrociarono le braccia in segno di solidarietà con gli ebrei.
Lo sciopero di febbraio è l’unica azione di massa compiuta dai gentili nei confronti dei loro concittadini israeliti. Il resto della storia prosegue purtroppo diversamente. Nel 1941 gli ebrei olandesi vengono allontanati dai luoghi di lavoro, dalle scuole, dai caffè, dagli eventi pubblici e i tedeschi decretano la loro l’espulsione dalle società sportive: cinque club di Amsterdam, composti per la maggior parte da ebrei, si ritirano dal campionato cittadino. I nazisti incoraggiano inoltre le federazioni olandesi di cattolici, protestanti e operai a unirsi in un’unica organizzazione, impongono ai giocatori di cricket di trovare equivalenti olandesi a termini come wickets e overs, vietano nel tennis il punteggio in inglese e impongono alle società che prendono il nome da membri della famiglia reale in esilio, come Wilhelmina o Juliana, di cambiare denominazione. Nell’agosto dello stesso anno, la federazione olandese decide di non designare più arbitri israeliti. La Neerlandia di Amsterdam adopera le stoffe usate dagli ebrei durante la preghiera come bandierine d’angolo per segnare il campo di gioco.
Al termine della guerra, alcuni sopravvissuti fanno il loro ingresso nell’Ajax, destinata a diventare una delle squadre più forti del mondo.

I calciatori non ebrei del grande Ajax (e un po’ ce n’erano), vivevano in un ambiente ebraico pressoché unico nei Paesi Bassi del dopoguerrra. Il presidente, i vecchi danarosi, il massaggiatore, un paio di compagni di squadra, i giornalisti, l’agente di Arie Haan, il fornaio preferito dei giocatori: poteva quasi sembrare fossero molti gli ebrei in Olanda. (15)

I giocatori della squadra, a lungo il club europeo più popolare anche in Israele, vengono chiamati ebrei dagli avversari per oltre mezzo secolo e sul volgere degli anni Ottanta negli stadi iniziano a sventolare bandiere con la stella di David. Episodi antisemiti, cori, sibili che evocano il gas dei campi di sterminio si verificano tra i tifosi del Feyenoord e del Den Haag e comportano espulsioni dal campionato.
Se la storia dell’Ajax è profondamente intrecciata alle vicende del mondo ebraico olandese, qualcosa di analogo avviene a Glasgow, in Scozia, dove i Rangers sono protestanti e i Celtic cattolici. Il gruppo punk Pope Paul and the Romans (noto anche come The Bollock Brothers) canta Why Don’t Rangers Sign a Catholic?, chiedendosi perché i Rangers non mettano sotto contratto un cattolico visto che i Celtic mandano in campo quasi solo protestanti. Fondata nel 1873 come squadra di ragazzi presbiteriani, la compagine ingaggia effettivamente nel 1998 l’attaccante cattolico Maurice Johnston, definito dallo Scotland on Sunday “il Salman Rushdie del calcio scozzese”. Temendo Glasgow, il giocatore prede casa a Edinburgo, ma l’edificio in cui vive viene attaccato con le molotov da tifosi del Celtic e nemmeno l’assunzione di una guardia del corpo 24 ore su 24 impedisce che i tifosi avversari aggrediscano suo padre.
Durante la seconda guerra mondiale molti dei derby tra Rangers e Celtic, noti come Old Firm, sfociano in risse, mentre nel 1975 una di quelle gare ispira due tentati omicidi, due aggressioni con mannaia, un’aggressione con ascia, nove accoltellamenti e trentacinque aggressioni semplici. L’Old Firm divide gli scozzesi e gli irlandesi in ogni parte del mondo, ma soprattutto in Ulster, una contea che sembra “una partita dell’Old Firm scappata di mano”. (16)

BOX 2:  Tommie vola e Carmelo non va a scuola
Vinse i 200 metri alle Olimpiadi del ’68. Salì sul palco scalzo (la miseria dei ghetti), a capo chino (la bandiera Usa non era la sua), con il guanto nero (il lutto), a pugno chiuso (la volontà di lotta). Fu offeso ed emarginato. Tommie Smith non si pentì di quel gesto. Ha continuato a lavorare (anche nello sport, come allenatore) contro il razzismo. Nel maggio ’90 era a Cagliari per un convegno e lo intervistai per il quotidiano «L’unione sarda»).
Quando gli chiesi dei «pericoli» nello sport, mi rispose: «Il rischio c’è, e dobbiamo combatterlo. Se però pensate che lo sport non serva chiedetelo a lui» e indicò Carmelo Addaris, tetraplegico che vinceva medaglie alle para-olimpiadi però non poteva andare a scuola per le barriere architettoniche. Poco prima Addaris aveva detto: «Se l’handicappato che fa sport dev’essere colore o pietà, non avete capito nulla». Ero accanto a Smith e so che nessuno gli aveva tradotto. Ma capì lo stesso. A Cagliari come alle Olimpiadi la questione centrale si chiama diritti per tutti.
BOX 3: BIBLIOGRAFIA MINIMA
Aa. Vv. (a cura di Gianni Boccardelli), «I signori del gioco. Storia, massificazione, interpretazioni dello sport», Liguori editore, 1982.
Roberto Alessandrini, «Gioco», Emi, 2010.
Amnesty International, «Pechino 2008. Olimpiadi e diritti umani in Cina», Ega, 2007.
Associazione culturale Panafrica, «Rapporto su razzismo e antirazzismo nel calcio», edito in proprio, 2006
Emanuela Audisio, «Bambini infiniti. Storie di campioni che hanno giocato con la vita», Mondadori, 2003.
Daniele Barbieri e Riccardo Mancini, «E lo sport si fece mondo», La Nuova Italia, 1996  (per la scuola).
Dario Colombo e Daniele De Luca, «Fanatics. Voci, documenti e materiali del movimento ultrà», Castelvecchi, 1996.
Eduardo Galeano, «Splendori e miserie del calcio», Sperling & Kupfer, 1997.
Rudi Ghedini, «Il compagno Tommie Smith. E altre storie di sport e politica», Malatempora, 2008.
Simon Kuper, «Ajax, la squadra del ghetto», Isbn edizioni, 2005.
Raffaele Mantegazza, «Con la maglia numero sette. Le potenzialità educative dello sport nell’adolescenza», Unicopli, 1999.
Carlo Petrini, «Nel fango del dio pallone», Kaos edizioni, 2010 (ediz ampliata).
Stefano Pivato, «L’era dello sport», Giunti Casterman, 1994.
Robert Redeker, «Lo sport contro l’uomo», Città aperta, 2002.
Daniele Scaglione, «Diritti in campo. Storie di calcio, libertà e diritti umani», Ega, 2004.
Mauro Valeri, «Black Italians. Atleti neri in maglia azzurra», Palombi editori, 2006.
Mauro Valeri, «La razza in campo. Per una storia della rivoluzione nera nel calcio», Edup, 2005.
Mauro Valeri, «Nero di Roma. Storia di Leone Jacovacci, l’invincibile mulatto italico», Palombi editori, 2008.
Nella discussione (non esaltante) italiana riflessioni interessanti sono arrivate da alcune riviste e in particolare da «Il discobolo» della Uisp e dal quadrimestrale «Lancillotto e Nausica» (http://www.lancillottoenausica.it/Palombi editore). Segnalo infine «La notte di san Nessuno», testi e disegni di Fogliazza cioè Gianluca Foglia: tre numeri speciali della rivista «Italia missionaria» (senza data ma 2006) in coedizione con associazione Botteghe del mondo  per raccontare a ragazze/i di calcio, sfruttamento e commercio equo.
BOX 4:  (EC-)CITAZIONI
Eric Cantona: «Sono un cittadino attento alla nostra epoca, alla chance che offre ai più giovani: troppo limitate. Attento alle ingiustizie che genera: troppo numerose, violente, sistematiche».
Pierre De Coubertin: «Gli sport hanno sempre sviluppato tutte le qualità che è necessario avere in guerra (…). Il giovane sportivo di oggi sarà nettamente avvantaggiato rispetto ai suoi padri quando dovrà marciare verso il fronte».
Eduardo Galeano: «Un giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Solle: “Come spiegherebbe a un bambino che cosa è la felicità?”. “Non glie lo spiegherei” rispose: “gli darei un pallone per farlo giocare”. Il calcio professionistico fa tutto il possibile per castrare questa energia di felicità ma lei sopravvive malgrado tutto».
Antonio Gramsci: «Il calcio è il regno della lealtà umana esercitata all’aria aperta»
Karl Kraus: «Lo sport è figlio della democrazia ma contribuisce per proprio conto all’instupidimento della famiglia».
Internazionale comunista: «L’educazione corporale del proletariato è una delle necessità della lotta di classe rivoluzionaria».
Vladimir Majakovski: «Siamo lieti / anche noi / di esaltare gli sportivi. / Ma perchè, secondo voi, / non c’è tempo / di dar ricompense / ai nuotatori / della cultura, / dar premi / ai lottatori / dell’esistenza?».
Nelson Mandela: «Lo sport ha il potere di cambiare il mondo».
Guy de Maupassant: «Queste persone, queste povere persone, esibiscono questo segno particolare della loro follia come una volta gli sciocchi buffoni agitavano i loro gingilli o sonagli, sono affette da una male di origine inglese che si chiama tennis».
Edgar Morin: «C’è nella nostra società un settore crescente di sfoghi fisici aggressivi, lo sport. Si può considerare lo sport come l’unica via d’uscita cobcreta per l’istinto di combattività».
Lewis Mumford: «Non ci sono più terreni di gioco ma solo stadi. Lo stadio diventa una specie di stabilimento industriale che produce macchine da correre, da saltare, da giocare a football».
Neil Simon: «Lo sport è l’unico spettacolo che, per quante volte tu lo veda, non sai mai come andrà a finire».
Cesar Vallejo: «Nel momento in cui il tennista lancia magistralmente la sua palla, lo possiede un’innocenza totalmente animale: nel momento in cui il filosofo sorprende una nuova  verità è una bestia completa».
Julio Velasco: «Se noi facciamo una bella partita e poi perdiamo per una palla, come è successo a Barcellona, abbiamo perso. Pochi si ricorderanno se abbiamo perso per molto e per poco. Ed è giusto, lo sport è così. Ma la vita non è così. Non è che se uno fa un punto in meno di un altro è un perdente».
Voltaire: «Il corpo d’un atleta e l’anima di un saggio: ecco ciò che occorre per essere felice».

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