Giorgio Scerbanenco: giallo, rosa e fantascienza

di Gian Filippo Pizzo

Il futuro prossimo e remoto al centro del romanzo «Il paese senza cielo», del romanzo breve «Il cavallo venduto» e del racconto lungo «L’Anaconda»

Giorgio Scerbanenco è noto soprattutto per essere stato l’iniziatore del noir in Italia però ha anche dato al fantastico, in particolare alla fantascienza, un contributo piccolo ma significativo. Giornalista e scrittore che nei suoi 80 e più romanzi (i racconti non si contano) si è cimentato in tutti i generi – dal poliziesco più tradizionale al noir, dallo spionaggio al western e a una lunga serie di romanzi a suo tempo definiti “rosa” ma oggi riscoperti come narrativa mainstream con spesso non pochi tocchi di noir – è anche autore di racconti fantastici che si potrebbero definire di stile buzzatiano. Riconosciuto all’unanimità quale nume tutelare di scrittori oggi molto in auge come Lucarelli, Pinketts, Ammaniti e altri, cioè gli esponenti più validi di quel genere che si chiama noir (all’italiana) o giallo/nero metropolitano. Genere che fu proprio Scerbanenco a creare praticamente dal nulla – o almeno così sostengono gli studiosi di letteratura popolare – nella seconda metà degli anni Sessanta, con «Venere privata» e gli altri libri della serie che ha per protagonista l’ex medico Duca Lamberti. In realtà, volendo essere pignoli, il primo esempio di romanzo noir italiano era già apparso dieci anni prima: «Sepolcro di carta» di Sergio Donati (poi sceneggiatore preferito da Sergio Leone), primo romanzo giallo italiano che riprendeva gli stilemi della “scuola dei duri” di Dashiell Hammett, Brett Halliday o Peter Cheyney, ambientando la sua vicenda nell’unico posto dove fosse possibile ricreare atmosfere simili a quelle di Chicago o San Francisco: la Cinecittà del sottobosco legato alle produzioni cinematografiche (il romanzo fu poi portato sullo schermo con il titolo «Col cuore in gola»).

Ma evidentemente per il vero noir i tempi non erano ancora maturi e l’esempio di Donati (1955) rimase un caso isolato, mentre gli altri (pochi) scrittori di gialli italiani quali i più vecchi Giuseppe Ciabattini o Augusto De Angelis ma soprattutto il più noto e prolifico Franco Enna si dedicavano a un poliziesco più casereccio, più vicino alle atmosfere provinciali e piccolo borghesi di certo Maigret di Georges Simenon. Invece i tempi saranno maturi quando nel 1966 usciranno «Venere privata» (poi diventato un mediocre film dallo stesso titolo) e «Traditori di tutti», perché nel frattempo l’Italia è cresciuta, il boom economico ha portato nuovo benessere ma anche urbanizzazione, microcriminalità, alcool e droga, sottoproletariato, immigrazione eccetera: ora anche Milano è una metropoli che assomiglia sempre di più a Los Angeles o New York, ed è molto più facile ambientare nei suoi squallidi bassifondi storie nere in maniera convincente.

Scerbanenco indovina anche la caratterizzazione del protagonista, che è un medico radiato dall’albo per essere stato coinvolto in un caso di eutanasia (quasi 30 anni fa l’autore prendeva posizione su un argomento ancora oggi dibattuto) trasformatosi per necessità in investigatore privato senza licenza, un personaggio tormentato, perennemente in dubbio perché diviso tra la compassione e la rivolta verso i “cattivi” che l’autore ci presenta. Così Scerbanenco diventa il vero creatore del nero italiano e il più noto e osannato scrittore italiano di polizieschi per quasi un quinquennio, fino alla morte prematura avvenuta nel 1969.

Vladimir Georg Scerbanenko era nato a Kiev da padre ucraino e madre italiana nel 1911 ma visse in Italia dall’età di 6 anni: la madre infatti tornò a Roma, sua città natale, subito dopo la rivoluzione del 1917. Qualche anno dopo i due si trasferirono a Milano, città che il ragazzo amò subito, anche se a volte il suo accento romanesco lo faceva sentire fuori luogo. Per le precarie condizioni economiche Giorgio — che presto italianizzò il nome e il cognome — fu costretto a lasciare gli studi e intraprendere una serie di mestieri i più. disparati, fin quando riuscì a collaborare con alcune riviste femminili come correttore di bozze. Dalla correzione delle bozze alla scrittura di racconti e romanzi “rosa” – allora i rotocalchi per signore come «Bella» o «Annabella» erano vendutissimi – il passo fu abbastanza breve, e Giorgio si vide persino affidare una rubrica di corrispondenza con i lettori, la “Posta di Adrian”, che riscosse grandissimo successo.

Negli anni Quaranta si mise a scrivere gialli. Poiché il regime fascista poneva gravi limitazioni a chi voleva cimentarsi in questo genere che era foriero di una immagine della vita italiana non in linea con la propaganda (gli omicidi non dovevano essere efferati, i colpevoli non potevano essere italiani ecc) Scerbanenco scelse di ambientare le sue vicende a Boston e decise di utilizzare come protagonista Arthur Jelling, archivista della polizia. I 6 romanzi del ciclo, 5 dei quali poi ripubblicati in un volume omnibus intitolato «Cinque casi per l’investigatore Jelling» – dei quali il migliore è certamente «Sei giorni di preavviso» – non sono eccezionali: troppo estranea è l’ambientazìone in una Boston decisamente fittizia, troppo povere le idee sulle quali sono basate le storie (la detection non era il suo forte), troppo scarni e privi di psicologia i personaggi: decisamente il modello del poliziesco di indagine classico non faceva per lui, il giallo d’azione di 20 anni dopo sarà un’altra cosa.

Infetti nella seconda metà degli anni Sessanta, oltre ai romanzi citati (gli altri due della serie di Duca Lamberti sono «I ragazzi del massacro» e «I milanesi ammazzano al sabato») usciranno due ottime antologie, «Milano calibro 9» e «II centodelitti» (ne sarà pubblicata postuma una versione ampliata da Oreste del Buono, «Il cinquecentodelitti») con racconti di una grandissima forza, in cui si trovano umanità e compassione, violenza spietata e bestiale, senso della giustizia e senso della colpa, senso della narrazione e grande inventiva.

Tralasciamo di parlare degli altri pur interessantissimi libri gialli, così come trascuriamo la produzione “rosa”: il grande successo ottenuto spinse la Garzanti a ripubblicare in volume tutti i romanzi di Scerbanenco apparsi a puntate sui rotocalchi, e molti sono davvero belli al di là del genere sottovalutato a cui appartengono, anche perché spesso l’autore inseriva in queste opere spunti di noir o di giallo.

In mezzo a tutta questa produzione, Scerbanenco trova anche il modo di dedicarsi alla fantascienza, genere non certo popolare e quindi non remunerativo, che coltiva per il solo gusto della speculazione. Per la fantascienza gli dobbiamo il romanzo «Il paese senza cielo», commissionatogli da Cesare Zavattini e apparso a puntate sulla rivista di fumetti «L’audace», il romanzo breve «Il cavallo venduto» e il racconto lungo «L’Anaconda», tutti e tre caratterizzati da una visione pessimistica del futuro e i primi due anche dall’ambientazione che è la stessa delle sue migliori storie noir: la Milano dove visse e che amò intensamente pur evidenziandone i difetti.

«Il paese senza cielo» è un romanzo per ragazzi, quindi “leggero” e con una parte di avventure predominante nel più puro stile feuilleton, con continui capovolgimenti di scena e non poche situazioni di suspense, che racconta di due ragazzi che per sfuggire alla rigidezza della scuola e all’onnipresente polizia di Stato si trovano ad affrontare un viaggio fantastico che li porterà prima a New York e poi nel “Paese senza cielo” (perché situato in enormi caverne) chiamato Dôma Everon. Lì vivono i discendenti degli Indiani d’America, guidati dal Grande Rapace, che decidono di dichiarare guerra agli Stati Uniti per rivendicare la terra dei loro padri. Quando scrive quest’opera la fantascienza in Italia non esiste ancora ma sono sempre letti i “romanzi d’anticipazione” di Salgari ed epigoni, e Scerbanenco si situa agevolmente nella loro scia; ma sono anche gli anni del fascismo e dell’inizio della guerra e la drammaticità di quei tempi si insinua nella narrazione, ambientata nel 2002. Milano è una città abitata da uomini pelati che si muovono con frenesia perenne scandita da enormi orologi, dove la sicurezza è garantita da una squadra di robot che immobilizza i criminali con scariche elettriche e l’aria viene purificata dallo smog grazie al gas “primulino” immesso ogni giorno nell’atmosfera. Ma sono troppe le invenzioni – spesso vere e proprio anticipazioni, come la clonazione, il GPS, i trapianti di organi, l’energia solare e la guerra batteriologica – per poterle elencare tutte.
Ne «
Il cavallo venduto» lo scenario è più terribile. Scritto durante un volontario esilio in Svizzera per sfuggire alla guerra che ora vede anche l’Italia impegnata, ne recepisce il dramma degli sfollati e l’affannosa ricerca dei mezzi di sussistenza, raccontando di una Milano futura distrutta da una catastrofe che tuttavia cerca di risorgere e diventa per questo un’attrattiva per gli sbandati di cui è piena la Penisola. Ma per entrare – lasciando la vita di profughi sempre alla ricerca tanto di cibo che di armi – bisognerà cedere i propri averi e la stessa libertà, perché da questa città retta da un regime totalitario non si potrà più uscire. Da qui la frase che giustifica il titolo del romanzo, quando un pazzo cerca di arringare la folla stanziata in tende in attesa di entrare nella città: «Andare a Milano è come vendere il proprio cavallo migliore per un sacco di grano guasto». Attraverso le storie di diversi personaggi – un’umanità ridotta a uno stato pre-industriale dove vige il baratto quando non il furto e la violenza – che inseguono il sogno di trovarsi finalmente in un ambiente protetto dove le case sono ricostruite in muratura e sicuro perché retto da una disciplina militare molto ferrea, Scerbanenco non solo rievoca la tragedia bellica ma lancia un monito: perché ricostruire Milano può voler dire anche rifondare la civiltà che si è rivelata un disastro.

Stesso monito che viene fuori anche da «L’Anaconda», pure questo ambientato in un futuro post cataclisma ma situato molto più avanti nel tempo, che narra della guerra tra due potenze contrapposte, Okrana e Ravandia, eredi dei due blocchi che caratterizzarono i tempi della Guerra Fredda (quando il racconto fu scritto) ma senza che si possa riconoscerli: all’Autore interessa solo mostrare i pericoli dei regimi totalitari, non parteggiare per l’uno o per l’altro. Tutto il racconto è costruito come un processo da parte degli okraniani al generale nemico colpevole di crimini di guerra e contro l’umanità e attraverso gli atti e le testimonianze viene ricostruita la storia: la catastrofe vegetale che ha quasi distrutto Ravandia, procurando milioni di morti, il procurato ritardo mentale di milioni di bambini, l’obbligo di dover abortire per le donne. Mentre si svolge il dibattito, ritardato da cavilli, il generale Zeta Ultimo spera che l’Anaconda, la potentissima astronave da battaglia ravandiana, arrivi in tempo per salvarlo, ma le sorprese non sono finite.

Se questo racconto è scritto con toni satirici pur affrontando temi etici degni di riflessione, i personaggi che ne emergono sono simili a quelli descritti nelle altre opere, cioè ragazzi e fanciulle disgregati nei romanzi rosa, sottoproletariato urbano o professionisti disillusi nei noir, tutti esponenti di un’umanità senza più freni morali. Un’umanità che Scerbanenco conosceva bene anche attraverso le lettere che gli giungevano in redazione: due di queste erano di donne che minacciavano di suicidarsi, e una riuscì a farla desistere spedendole privatamente diverse lettere convincenti.

 

Redazione
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2 commenti

  • Grazie per questa bella rievocazione di un autore fin troppo trascurato. C’è troppa poca accademia, troppa immediatezza in Scerbanenco perché possa piacere all’intellettuale medio italiano. Il tempo però è galantuomo. Trova sempre un Pizzo in grado di dar giustizia.

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