Graphic journalist per i diritti umani

I disegni di Gianluca Costantini sono noti nel mondo, scelti da Amnesty e censurati da Erdogan

di Federica Angelini (*)
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Quando lo incontriamo nel suo studio, in pieno centro a Ravenna, ha da poco pubblicato due pagine su Il Corriere della Sera per illustrare, con una giornalista, i contenuti del rapporto Oxfam sulla distribuzione della ricchezza nel mondo. «Un fatto raro – ci racconta Gianluca Costantini – per un giornale. Al massimo di solito chiamano per un inserto, nelle pagine del giornale vero e proprio non capita quasi mai». Costantini, classe 1971, ravennate di nascita, è una firma internazionale dell’illustrazione e di quello che si chiama graphic journalism, in prima linea nel denunciare i regimi, nel difendere prigionieri politici in tutto il mondo con il suo lavoro, ed è anche docente all’Accademia di Belle Arti della città dei mosaici. Cura settimanalmente una rubrica di satira sul settimanale free-press R&D – Ravenna&Dintorni edito da Reclam, ma ha all’attivo collaborazioni con le maggiori testate italiane e non solo e numerosi libri. L’ultimo è la raccolta di una serie di ritratti di poeti.

Cominciamo da qui, dal tuo ultimo libro, Le cicatrici tra i miei denti… 
«Sì, è nato da Nazin Hikmet, un poeta che viveva sulla propria pelle la lotta e l’arte. Poi ho cominciato a disegnare alcuni di questi cosiddetti rivoluzionari romantici e poetici. E mi è sempre più sembrato che dessero vita a un’unica grande storia. Ho cominciato dal ’700 e ne è venuta fuori una mappatura dei poeti e non solo, perché c’è qualche musicista, e c’è Che Guevara, un rivoluzionario “puro”, che però scriveva».

E tutti sono uniti da questa idea della militanza… 
«Sì, c’è chi l’ha vissuta più personalmente, ci sono poeti che sono stati perseguitati e incarcerati, come quelli del Nordafrica, e poi ci sono quelli più celebrati come gli americani, che non hanno fatto una vera rivoluzione ma hanno portato avanti idee politiche, penso alla Beat Generation, a gente come Ginsberg che scendeva in piazza contro la guerra. E ho trovato un editore eroico, Nda Press, riminese, che ha voluto pubblicarlo»

La militanza è anche un tratto del tuo lavoro che sembra sempre più preponderante, negli anni. 
«Sì, è nata nel 2004 quando poi ho iniziato a disegnare anche su R&D e ho cambiato modo di disegnare. Prima facevo più inchieste storiche, da allora invece ho iniziato a occuparmi sempre di più di diritti umani. Avevo bisogno di fare qualcosa di più».

Essere artista quindi non ti bastava e non ti basta?
«È un po’ noioso, per me. Soprattutto per i tempi che viviamo, trovo poco utile fare l’artista da mostra in galleria. E anche il libro dei poeti è una ricerca che fa capire che è sempre stato così, non è che gli artisti sono sempre stati quelli dentro ai musei. Sono quelli che stanno in mezzo a tutti gli altri. Quando poi ho cominciato a pubblicare disegni on line, e poi con l’arrivo dei social network, si è ampliato ancora di più il potere di utilizzare l’arte per la denuncia».

Tu usi Twitter, dove sei seguito da 56mila persone, perché non Facebook
«Facebook non è adatto alle battaglie politiche quanto lo è Twitter dove sono effettivamente seguito e alcuni miei disegni sono stati twittati più volte arrivando anche a 300mila visualizzazioni…»

Una popolarità che ti è costata anche la censura in Turchia la scorsa estate. Cosa è sucesso esattamente? 
«Sulla Turchia lavoro da quando c’è stata #OccupyGezi e ho seguito la questione del sud con i curdi dopo che è iniziata la guerra in Siria. Da quando Erdogan ha iniziato a voler cambiare la Costituzione, non l’ho mai mollato. E pochi giorni dopo il fallito colpo di stato, la scorsa estate, il governo mi ha denunciato. Alcuni miei contatti turchi hanno iniziato a dirmi che non si vedeva più il mio blog e compariva un messaggio che diceva che era stato chiuso dal governo. Sono in una lista di trentasette profili e indirizzi censurati»

Ci sono altri italiani? 
«No, ci sono molti profili twitter e il mio blog, con l’immagine per cui mi accusano dal governo (vedi foto, ndr). Dopo il colpo di Stato hanno potuto fare quello che volevano».

Da quanto non vai in Turchia? 
«Io non ci posso più andare. Ci sono andato un anno e mezzo fa e adesso è quasi certo che mi mandino a casa».

E per te questo è un punto di onore, no? 
«Sì, però mi dispiace un po’ perché è il mio posto preferito, dove andavo spesso. Però è vero che questa reazione dimostra che i disegni hanno dato fastidio, hanno funzionato. E non è detto che non succeda altrove, non è che sono molto amato dai sauditi, dagli iraniani o da quei governi lì. Anche in Barhein non credo sarebbero contenti di vedermi arrivare all’aeroporto»

Però non hai mai avuto problemi, Erdogan a parte? 
«No, perché vivo in un altro paese. Mentre i disegnatori turchi ne hanno avuti moltissimi e alcuni di loro adesso sono in carcere, per non parlare di quelli di altri Paesi. I disegnatori sono sempre il nemico numero uno dei regimi».

Perché? Secondo te il disegno arriva là dove altre forme espressive non arrivano nella comunicazione? 
«Di certo arriva molto velocemente. Non c’è nemmeno bisogno di saper leggere per capirlo. Il disegno dà più fastidio di altre forme d’arte, da sempre, per la sua immediatezza. In Russia è vietato disegnare Putin. Anche perché noi parliamo tanto della Turchia, ma ci sono posti anche peggiori… Penso alla Cina, a tanti stati africani, o sauditi. Del resto la Turchia esce da un colpo di Stato, cosa credi che avrebbero fatto gli italiani al loro posto? O se avessero vinto gli altri?»

Ma c’è un modello di tutela dei diritti umani? Noi siamo un modello? Gli Usa? 
«No, gli Usa proprio no, poi chissà adesso cosa faranno. Noi non siamo il modello di niente, non facciamo parte dei peggiori, ma sono davvero pochi i governi buoni».

Tu però di Italia ne disegni assai poca… 
«È vero, a parte Ravenna… La verità è che ormai so più di altri paesi che d’Italia, ogni tanto mi capita di fare qualcosa per Internazionale, ma non è la norma…»

Come trovi i tuoi soggetti? Mi dicevi che ti arrivano anche sollecitazioni a volte… 
«Sì, è una cosa che mi dà molta soddisfazione. Mi capita che mi scrivano parenti di persone in carcere per chiedere di disegnare per loro, per denunciare l’arresto di un loro caro, o che mi scrivano per ringraziare».

Come dicevi, scegli spesso mondi lontani da qui, zone di frontiera. Come vedi il successo commerciale di un Kobane Calling di Zerocalcare? 
«Ne ho letto dieci pagine e ho mollato: troppo leggere, troppo facili, non mi interessa, non mi piace molto il suo modo di disegnare. Che sia utile, che abbia fatto arrivare a molti questi argomenti può essere, ha fatto leggere le problematiche curde a tante persone, che però non so se l’abbiano fatto per quel motivo o più perché fa ridere».

Chi leggi e chi segui? 
«Altri disegnatori che fanno cose on line che mi interessano molto. C’è per esempio Carlos Latuff che è stato anche nostro ospite (al festival Komikazen, ndr), e poi c’è KhalidAlbaih, ma anche artisti di altre arti, non solo fumettisti».

Charlie Hebdo è di nuovo al centro della polemica, dopo Amatrice, con la vignetta sulla tragedia della neve nel centro Italia. Eppure due anni fa dopo l’attentato eravamo tutti “Charlie”. Cosa ne pensi? Ed è cambiato qualcosa per i disegnatori dopo quella strage a Parigi? 
«No, magari alcuni disegnatori hanno più timori, ma quello fu un attacco alla libertà di espressione nella sua totalità. Io sono sempre dalla loro parte, anche su Amatrice, anche adesso. Loro sono sempre stato contro tutto e tutti. Erano un simbolo e sono stati colpiti solo per quello dai fratelli Kouachi»

Ma esiste un problema con l’Islam per i disegnatori? 
«Sì, esiste. Esiste perla verità anche con altre religioni, penso alla Russia con l’ortodossia. Ma di certo è un argomento sensibile che rischia di offendere le persone». È un problema che ti poni? «Io non offendo quasi mai, a parte i ravennati e a parte Erdogan. Ma in generale io difendo anche i terroristi, per cui non chiedo certo la pena di morte. Ho fatto dei disegni per Saddam, per farti un esempio. Le persone sono persone. Ho fatto un fumetto sui fratelli Kouachi uscito sul Courrier International in Francia in cui non prendo una posizione, racconto le loro vite fino all’attentato».

All’attivo hai anche molti libri, tra cui una storia di Assange uscita prima di film, documentari o romanzi… 
«Sì, è un libro del 2011 che sono contento di aver fatto anche se non è andato bene come gli altri. Mi sono reso conto che la gente non capisce bene cosa facesse Wikileaks e lui non è un personaggio amato come Snowden, anche per le false accuse di stupro che gli hanno montato contro in Svezia…».

 

Stai lavorando a un nuovo libro? 
«Sì, una raccolta di storie di graphic journalism, ma è difficile fare un libro che non sia una storia unica, un po’ come succede nei racconti»

Una definizione di graphic journalism facile facile? 
«Giornalismo disegnato, a fumetti. In Italia è ancora spesso considerato una cosa accessoria dai grandi giornali. L’unica eccezione è stata Pagina 99 finché c’è stato Luigi Spinola, con cui ho lavorato».

Libri, giornali e poi la rete. Che rapporto hai con il diritto d’autore? 
«Le cose che metto in rete sono fatte per essere libere, purché non le vada a prendere senza nemmeno chiederlo qualcuno come Repubblica o il Corriere (è successo in entrambi i casi con Regeni e Charlie Hebdo, ndr), cioè qualcuno che ha un ricavo dalla vendita del suo prodotto. La proprietà artistica infatti resta anche senza la Siae. Ma se lo utilizza un’associazione che si occupa di quel tema o un gruppo di attivisti allora non c’è problema, sono fatte apposta».

Uno dei tuoi ultimi lavori più toccanti è stato quello sulla Siria…
«È piaciuto molto e l’ha utilizzato anche Amnesty International e per me ovviamente non c’è alcun problema, anzi, mi fa piacere».

(*) in R&D Cult – febbraio 2017
Redazione
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