«Hearing» di Amir Reza Koohestani

di Susanna Sinigaglia

Lo spettacolo di Koohestani, regista iraniano che si è imposto negli ultimi anni sulla scena europea, mi ha lasciato un po’ perplessa, non mi ha convinto fino in fondo. Lo spunto in sé è interessante: si vuol mostrare come da un episodio insignificante, e forse immaginario, possa nascere una catena di eventi inaspettati e drammatici fino a essere fatali. L’episodio si riferisce alla presunta intrusione di un giovane, un maschio, in un dormitorio universitario femminile durante la notte di un tal Capodanno. Naturalmente siamo in Iran, un paese in cui la libertà sessuale è ancora un miraggio a quanto si racconta, e se ne sa. Le protagoniste sono tre: la testimone-spia, la “colpevole” e la responsabile del dormitorio di cui si sente solo la voce fuori campo, quasi voce di un Super-Io che incomba nell’aria insieme all’inevitabile senso di colpa. A turno le ragazze compaiono sul palco, a volte con zainetto, indossando un triste soprabito incolore che ne nasconde le fattezze come l’immancabile chador.

L’ambientazione spoglia, la voce incalzante che interroga e pretende che le ragazze ne confermino la versione perché possa “accomodare le cose” rievocano scenari da Tribunale dell’Inquisizione. Nel corso del racconto tuttavia le tre figure si sdoppiano, i confini fra l’una e l’altra diventano confusi: la responsabile teme di essere considerata colpevole per non aver vigilato sul dormitorio come le imponeva il suo ruolo e quindi di perdere il proprio posto; la testimone-spia si autoaccusa e afferma di aver immaginato la presenza maschile, di “sentire le voci” e quindi di avere un qualche squilibrio mentale; la presunta colpevole accusa a sua volta la responsabile di abuso di potere, dicendole: se sei così prepotente solo perché hai un mazzo di chiavi, che cosa faresti se avessi una vera posizione di comando?

A questo punto irrompe l’immagine virtuale; irrompe, perché sembra che il palcoscenico si apra mostrando al pubblico in platea la sua proiezione davanti alle ragazze che hanno una piccola videocamera stranamente fissata davanti a un occhio, a mo’ di lampada da minatore – o filatterio – sulla fronte (strano riferimento l’ultimo, da parte mia, al culto ebraico in un ambito strettamente musulmano).

Qui però lo svolgimento si fa confuso: sullo schermo compaiono avvicendandosi le ragazze mentre scendono ripetutamente le stesse scale, o si aggirano nell’atrio della Triennale… La scelta del regista non è chiara: forse ci vuol dire che la vicenda riguarda anche noi occidentali? Certo con i dovuti distinguo, questo tipo di meccanismi ci riguarda tutti e nella maggior parte degli ambiti. Per metterlo in evidenza però, sarebbe bastata l’irruzione dell’immagine iniziale, quando il pubblico improvvisamente si vede riflesso come su un grande specchio. Invece nella sequenza di immagini che ne è seguita, mi è sembrato che si sia verificata una caduta nello svolgimento drammaturgico, una rottura nel ritmo drammatico degli eventi, l’attenuazione di qualcosa che non è attenuabile. Infatti poi la storia, proiettandosi nel tempo, mostra le conseguenze di quell’episodio sulle ragazze che sono diventate donne (cambio di attrici): la presunta colpevole è emigrata all’estero, ma la fuga non le è servita a superare il senso di colpa e si è suicidata mentre la testimone-spia ha avuto un figlio, ma è divorata dai rimorsi. Le due si parlano ancora una volta e mano a mano che si svolge il dialogo fra loro ognuna rivela all’altra, e a noi, il proprio destino.

http://www.triennale.org/teatro/amir-reza-koohestani-hearing/

 

Susanna Sinigaglia
Non mi piace molto parlare in prima persona; dire “io sono”, “io faccio” questo e quello ecc. ma per accontentare gli amici-compagni della Bottega, mi piego.
Quindi , sono nata ad Ancona e amo il mare ma sto a Milano da tutta una vita e non so se abiterei da qualsiasi altra parte. M’impegno su vari fronti (la questione Israele-Palestina con tutte le sue ricadute, ma anche per la difesa dell’ambiente); lavoro da anni a un progetto di scrittura e a uno artistico con successi alterni. È la passione per la ricerca che ha nutrito i miei progetti.

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