Helen Humphreys: la poesia di scrivere e…

e il fantastico che si accuccia dove meno te lo aspetti, perfino nel giardino che non dovrebbe esserci

di Mr. Onion

Lei è canadese, vive isolata, in una grande casa fuori città con i suoi cani; d’inverno la neve copre ogni cosa. Scrivere diventa rituale, urgenza, il modo di mettere a terra le emozioni più autentiche, cercando nello sfrigolio delle fiamme nel camino i miraggi della migliore letteratura. Molti libri sulle mensole, sparsi dappertutto, si alzano torri dal pavimento, poca tecnologia. Alcuni viaggi, uno a Roma. Mi capitò di ascoltarla a una sua presentazione dieci anni fa: per caso avevo letto il suo romanzo «Il giardino perduto» – tradotto da Carlotta Scarlata, credo con dedizione infinita – ed ero seduto nel pubblico. Casa editrice coraggiosa, Playground.

«Il giardino perduto» è anche immaginazione fantastica: la scoperta di un luogo fisico ma che alla fine si rivela essere una presenza, un lato prezioso; fatica a rivelarsi… ma è intimo, familiare, pulsante in ognuno di noi.

«Mi accovaccio ai margini di questo giardino. Sento qualcosa che all’inizio scambio per paura. Ma no, non è così. Provo una specie di senso di irrealtà. Sono un fantasma. Ho viaggiato indietro nel tempo, o avanti, ed ho disturbato questo luogo dormiente con la mia presenza. L’unica cosa che riesco a percepire chiaramente, l’unica cosa di cui sono certa sopra ogni altra è che sono la prima persona a mettere piede qui dopo tanto tempo».

La sua ispirazione poetica si trasmette alla prosa. La caratterizza. Le dona armonia, melodia verbale. Non ci sono immagini ma suggestioni. In quell’incontro le chiesi come si scrive un libro coraggioso al punto da non temere il confronto con Virginia Woolf che diventa un fantasma e partecipa alla costruzione narrativa.

Mi rispose che tutto era stato una continua evoluzione, un percorso difficile, mutevole…

«Cosa è per me il luogo in cui ho provato i sentimenti più forti, gli dirò. E può essere qualsiasi luogo. O qualsiasi persona. Non importa quanto a lungo ci hai vissuto. È quello a cui desideri sempre ritornare…».

Ma l’insegnamento più straordinario che rivelò alla modesta platea di una libreria (che oggi purtroppo ha chiuso) con il fiato sospeso ad ascoltarla fu quello di scrivere sempre come un lento arrivare, raggiungere l’ultima pagina. Ne “Il giardino perduto” la fine fu proprio la prima cosa che scrisse. Violentemente e intensamente, nel giro di lancette di una notte la storia si era rivelata.

«Tutti pensano che i giardini continuano a crescere, che in inverno dormano e in primavere si risveglino. Ma è piuttosto un costante morire e risorgere, morire e risorgere. Si perdono. Si cercano. Ogni storia parla di morte. Ma forse, se siamo fortunati, la nostra storia di morte è anche una storia d’amore. E questo è quel che ricordavo dell’amore».

Il suo primo romanzo – Leaving Earth (1997) – vinse il City of Toronto Book Award del 1998 ed è stato selezionato nel New York Times Notable Book of the Year. Condivide questo importante riconoscimento con il secondo romanzo, Afterimage (2000) e con The Lost Garden (2002). Quest’ultimo è diventato il suo primo bestseller. Fra i romanzi successivi Wild Dogs (2004), che ha vinto il Lambda Prize del 2005 per la fiction, e Coventry (2008).

ECCO – SENZA SPOILERARE TROPPO – LA TRAMA DE «IL GIARDINO PERDUTO»

1941, l’Inghilterra è sotto i bombardamenti tedeschi. Gwen Davis, la protagonista, entra a far parte del Land Army, un corpo paramilitare femminile, incaricato di coltivare la terra per sostenere lo sforzo bellico attraverso la produzione di ortaggi. Dirige sette agricoltrici volontarie, in una tenuta della campagna del Devon. Donna solitaria, prudente, grazie all’incontro con il capitano Raley, casualmente trasferito lì, e con la tormentata Jane, irruenta, giovane, orgogliosa, troverà la forza di osare, di inseguire i propri desideri più intimi. Riuscirà ad affrontare la vita, a superare le insicurezze, arrivando a quel luogo miracoloso, al misterioso giardino perduto della sua anima.

L’ULTIMA IMMAGINE – scelta dalla “bottega” – è di Jacek Yerka.

 

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