Ho smesso di aver paura e ora “amo” il…

birravirus grazie a una cura fantascientifica

di Fabrizio Melodia

Tempi duri per i terrestri, già duramente provati dallo sconvolgimento climatico, dagli “scioperi” per salvare il clima, dalla stagnazione economica, da guerre e frontiere chiuse, dalla fuga dei cervelli e in Italia anche dalle ridicole citofonate antispacciatori. Ed ecco che a rompere le scatole ci si mette anche un virus che porta pure il nome di una birra. So che la situazione è serissima, tendente al tragico, ma non vi arrabbierete se ci scherzo su un pochino.

Facendo la felicità dei commercianti di amuchina e destabilizzando il mercato della droga con bestemmie varie da parte del cartello di Medellin e della nostrana Camorra, il Coronavirus ha tutte le carte genetiche per passare alla storia… magari solo perchè salteranno i campionati di calcio (ognuno ha le sue catastrofi).

In così gravi frangenti, si pensa ancora alle tangenti, ai crimini d’odio, ai femminicidi, ai morti per inquinamento, alle guerre neo imperialiste e al parrucchino senza testa sotto di Donald Trump?

Niente panico” dice qualcuno: il caffè è ancora sugli scaffali, la tv funziona e Amadeus ci spiega come salvare la pelle. Per sconfiggere il virus al sapore di birra io consiglio buone dosi di fantascienza risanatrice. Del resto dopo la recente caccia agli untori cinesi (nonostante in Italia tutto inizi con un imprenditore di Lodi) nel “belPaese” anche il più improbabile sembrerà possibile.

La science fiction ha sempre attinto al bacino delle grandi paure (e delle speranze) degli esseri umani. Lo spavento più antico e radicato è quello dell’ignoto, come ci ricorda lo scrittore H. P. Lovecraft nel suo saggio sul terrore soprannaturale nella letteratura.

Se proprio di un paziente zero si deve andare a caccia, lo potremmo cercare negli incubi lucidi dello scrittore Richard Matheson, che già nel racconto «Regola per sopravvivere» (“Pattern for survival”, 1955) descrisse con minuziosa precisione le passeggiate solitarie di uno scrittore sopravvissuto a una non meglio identificata catastrofe: ogni giorno siede a tavolino a riempire i fogli bianchi con la sua macchina da scrivere. Metafora di ciò che lo scrittore deve fare oggi ai tempi della catastrofe morale, politica e sociale?

Che dire del romanzo «Tre millimetri al giorno» (“The shrinking man”, 1956) in cui un virus – o una mutazione radioattiva, vallo a sapere – fa rimpicciolire un uomo di tre millimetri al giorno? I medici devono alzare le mani in segno di resa dinanzi a un evento inspiegabile, mentre lui scompare poco a poco, fino a dover lottare con un topo tra le fessure del pavimento. Fino a quanto si può rimpicciolire?

Matheson continua il suo viaggio fra i virus con il famoso romanzo «Io sono leggenda» (“I am legend”, 1954). L’epidemia in questione è stata causata da un batterio che ha trasformato in vampiri tutti gli esseri viventi, tranne Robert Neville, il quale si è rintanato a casa sua, corazzata come un fortino.

Neville si barrica la notte ed esce solo di giorno (quando i nemici dormono…) raccogliendo ciò di cui ha bisogno e provvedendo alla serra. Ogni notte un gruppo di vampiri cerca di stanarlo senza successo. Dopo aver scoperto la presenza del batterio nel sangue dei vampiri, Neville inizierà a ucciderli… Fino a quando incontrerà una donna che gli farà assaporare l’amara verità, quella di essere l’ultimo uomo sulla Terra. Il contagio ha vinto. «Il cerchio è completo. Un nuovo terrore prende forma dalla morte, una nuova superstizione penetra la fortezza inattaccabile dell’infinito. Io sono leggenda».

E come ogni “buon” virus mutageno, ecco che l’idea di Matheson si trasforma in ceppi diversi, anche più virulenti del predecessore.

La prima mutazione la troviamo nel film «L’ultimo uomo sulla Terra» (1964) sceneggiato da Furio Monetti e Ubaldo Ragona e diretto da Sidney Salkow – cioè Ragona sotto pseudonimo – con la partecipazione dello stesso Matheson con il nome d’arte di Logan Swanson. Il cast che annoverava Vincent Price, Franca Bettoja, Giacomo Rossi Stuart e Emma Danieli. Girato a Roma in bianco e nero, ebbe scarso successo ma è l’adattamento più fedele. Pur se Matheson apprezzò di più la seconda variante ovvero il famoso «L’alba dei morti viventi» (“The night of the living dead”, 1969) girato da George A. Romero su un suo soggetto: attori non professionisti, con un 16 millimetri in un bianco e nero ancora più sgranato e contrastato del precedente film. Il risultato fu un incubo a occhi aperti, capostipite del genere zombesco: si narra di una mutazione causata dalla radiazioni di un satellite precipitato che risvegliano i morti, i quali cominciano a cibarsi dei vivi mentre i contagiati dopo poco si trasformano in altrettanti zombie famelici.

La terza mutazione del virus “mathesoniano” fu opera di Boris Sagal su sceneggiatura di John e Joyce Corrington: «1975: occhi bianchi sul pianeta Terra» (“The Omega Man”, 1971). È la storia di Richard Neville – interpretato dal bravo Charlton Heston – uno scienziato militare che aveva scoperto il vaccino per salvare l’umanità dalle conseguenze della guerra batteriologica. Unico sopravvissuto ai virus letali, Neville si vede costretto a vivere in solitudine fuggendo ai mutanti diventati aggressivi, albini e fotofobici a causa del virus.

Ah sì, ci sarebbe lo stra-pompato «Io sono leggenda» del 2007, sceneggiato da Mark Protosevich e Akiva Goldsman per la regia di Francis Lawrence, in cui Neville viene interpretato da Will Smith. È una pellicola che, pur riconducendosi a Matheson, impasta insieme elementi da altre opere. Belle le scene dove Will Smith cammina per la città in solitaria con il suo cane come unica compagnia, coinvolgenti i flashback della catastrofe virale, la tensione mantenuta sino alla fine ma, a mio avviso, tutto è rovinato da un finale che banalizza e rende nullo quanto mostrato.

Altri virus, anche più tremendi, sono arrivati su schermo. George Romero ci trasporta nell’apocalittico «La città verrà distrutta all’alba» (“The crazies”, 1973) in cui una specie di gas nervino scatena una vera e propria follia omicida nella popolazione di una cittadina della campagna statunitense e l’esercito deve intervenire con forza per eliminare il problema alla radice, con tutti i conflitti del caso, come nella scena in cui una vecchietta infetta uccide un giovane soldato con un ferro da calza.

Nel film «2000 – La fine dell’uomo» (“No blade of grass”, 1970) diretto da Cornel Wilde e tratto dal romanzo «Morte dell’erba» (1956) dello scrittore inglese John Christopher, un virus distrugge tutti i vegetali e di conseguenza il cibo a disposizione. L’umanità arriva al tracollo e i governi decidono di bombardare i sopravvissuti come estremo atto di pietà.

In «Andromeda» (1971) di Robert Wise, tratto da un documentato e allucinante romanzo di Michael Crichton, abbiamo un virus letale proveniente dallo spazio e arrivato a noi a bordo di una navicella spaziale. Dimostra tutta la sua pericolosità mutando in continuo, impedendo di fatto la possibilità di trovare un antidoto ed è solo per puro caso che l’ultima mutazione lo renda innocuo.

Sullo stesso tema abbiamo «Virus letale» (1995) diretto da Wolfgang Petersen: una variante dell’Ebola arriva in una cittadina californiana portato dalle scimmiette e da lì si propaga per gli USA con la rapidità di un incendio.

Ultimo ma non per importanza è il film «L’ombra dello scorpione» (1994) diretto da Mick Garris, tratto dal romanzo fiume di Stephen King, in cui viene narrata la morte di quasi tutta l’umanità a opera di un virus letale creato in laboratorio e liberato accidentalmente.

Da un incubo all’altro penso che la fantascienza abbia molto da far riflettere ma anche qui i toni apocalittici non ci aiutano granchè.

E comunque l’imbarbarimento massimo e la caccia alle streghe che accompagnano ogni catastrofe arrivano dopo devastazioni morali e sociali che, se non facciamo gli struzzi, sono già sotto i nostri occhi; dunque un po’ di colpa è anche nostra.

NOTARELLA x MARTEDIERI (cioè affezzzzzzzzzzionati al marte-dì)

Oggi programmi stravolti: i post previsti slittano e invece ce ne saranno due “con vista” sulle epidemie. Questo di Fabrizio (bentornato! dopo una lunga assenza) sui peggiori incubi dalle parti di Matheson; e più tardi uno di db – in realtà un vecchio testo di Erremme Dibbì, “riadattato” ai giorni tristarelli del corona virus – sul groviglio farmaci, salute, futuri possibili.

 

L'astrofilosofo
Fabrizio Melodia,
Laureato in filosofia a Cà Foscari con una tesi di laurea su Star Trek, si dice che abbia perso qualche rotella nel teletrasporto ma non si ricorda in quale. Scrive poesie, racconti, articoli e chi più ne ha più ne metta. Ha il cervello bacato del Dottor Who e la saggezza filosofica di Spock. E' il solo, unico, brevettato, Astrofilosofo di quartiere periferico extragalattico, per gli amici... Fabry.

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