Holloway, la servitù volontaria e le crepe
Un libro importante, strapieno di quelle informazioni preziose che i massmedia ogni giorno occultano e scritto benissimo (non guasta, vero?): è «Crack Capitalism» di John Holloway, appena tradotto da Vittorio Sergi per DeriveApprodi (286 pagine, 18 euri). Con l’autorizzazione dell’editore vi propongo due brani del primo paragrafo. Tornerò di sicuro a parlare ma intanto ve lo consiglio assai-assai. (db)
Rompere. Vogliamo rompere. Vogliamo creare un mondo diverso.
Adesso. Niente di più normale, niente di più ovvio. Niente di più
semplice. Niente di più difficile.
Rompere. Vogliamo rompere. Vogliamo spaccare il mondo per
come è oggi. Un mondo di ingiustizia, di guerra, violenza, discriminazione, da Gaza a Guantanamo. Un mondo di miliardari con
un miliardo di persone che vivono e muoiono nella fame. Un
mondo in cui l’umanità sta annientando se stessa, massacra le
forme di vita non umane, distrugge le condizioni della propria esistenza.
Un mondo governato dal denaro e dal capitale.
Un mondo di frustrazione, di potenzialità sprecate.
Noi vogliamo creare un mondo diverso. Protestiamo, naturalmente.
Protestiamo contro la guerra, contro la diffusione dell’utilizzo
della tortura nel mondo e la trasformazione di tutta la vita in
una merce da vendere e comprare, protestiamo contro il trattamento
inumano dei migranti, contro la distruzione del mondo a
vantaggio del profitto.
Protestiamo e andiamo oltre la protesta. Possiamo e dobbiamo
farlo. Se ci limitiamo soltanto a protestare, permettiamo ai potenti
di decidere le priorità. Se ci limitiamo a opporci a quello che stanno
provando a fare, stiamo semplicemente seguendo i loro passi.
Rompere significa fare di più, significa prendere l’iniziativa. Diciamo
«No» ma dalla nostra negazione si sviluppa una creazione,
un «altro-fare», un’attività che non prende forma con le regole del
potere. […]
Questa è la storia di molte, moltissime persone, di milioni e forse miliardi di persone. È la storia di un compositore a Londra, che esprime la sua rabbia e il sogno di una società migliore attraverso la musica che compone. È la storia di un giardiniere di Cholula, che crea un giardino per lottare contro la distruzione della natura. Dell’operaio metalmeccanico di Birmingham, che trascorre le serate nel suo fazzoletto di orto per svolgere un’attività che per lui abbia un senso e sia un piacere. Dei contadini indigeni di Oventic, Chiapas, che creano
uno spazio autonomo di autogoverno e lo difendono ogni giorno
contro i paramilitari che li prendono di mira. Del professore universitario di Atene, che crea un seminario al di fuori del contesto universitario per la promozione del pensiero critico. Dell’editore di
Barcellona, che dedica la sua attività alla pubblicazione di libri contro
il capitalismo. Degli amici di Porto Alegre, che fondano un coro
solo perché gli piace cantare. Degli insegnanti di Puebla, che si
scontrano con l’oppressione della polizia perché lottano per una
scuola diversa, per un tipo di educazione diversa. Della direttrice
del teatro di Vienna, che decide di usare le sue capacità per mostrare
un mondo nuovo a quelli che vedranno le sue opere. Del lavoratore
di un call center a Sidney, che trascorre tutti i suoi momenti liberi
pensando a come lottare per una società migliore. Delle persone
di Cochabamba, Bolivia, che si mettono insieme e combattono
una battaglia contro il governo e l’esercito affinché l’acqua non
venga privatizzata ma resti sotto il loro controllo. Dell’infermiera
di Seoul, che fa tutto il possibile per aiutare i suoi pazienti. Dei lavoratori argentini di Neuquén, che occupano la fabbrica e se ne appropriano. Dello studente di New York, che considera i suoi anni
all’università come un periodo per mettere in discussione il
mondo. Dell’operatore sociale scozzese di Dalkeith, che cerca delle
crepe nel quadro di regole che lo imprigionano per riuscire ad aprire
un altro mondo. Del giovane uomo a Città del Messico, che, esasperato dalla brutalità del capitalismo, va nella giungla per organizzare la lotta armata per cambiare il mondo. Della professoressa in pensione di Berlino, che dedica la sua vita a lottare contro la globalizzazione capitalista. Dell’impiegata del governo di Nairobi, che
dedica tutto il suo tempo libero alla lotta contro l’Aids. Del professore
universitario a Leeds, che usa il poco spazio rimasto in qualche
università per organizzare un corso sull’attivismo e il cambiamento
sociale. Dell’anziano che vive in un orribile palazzone alla
periferia di Beirut e coltiva piante sul davanzale come gesto di rivolta
contro il cemento che lo circonda. Della giovane donna a Lubijana,
del giovane uomo a Firenze, che, come molti altri nel mondo, spendono la loro vita nella ricerca di nuove forme di lotta per un mondo diverso. Del contadino di Huejotzingo, che si oppone
all’annessione del suo piccolo orto a un gigantesco parcheggio
di automobili invendute. Del gruppo di amici senza casa, a Roma,
che occupano un appartamento vuoto e rifiutano di pagarne l’affitto.
Dell’uomo entusiasta di Buenos Aires, che dedica tutte le sue
grandi energie ad aprire nuove prospettive per un mondo diverso.
Della ragazza di Tokyo, che oggi decide di non andare a lavorare e si
va a sedere in un parco con il suo libro, magari con questo o con
altri libri. Del giovane in Francia, che si dedica a costruire latrine a secco come contributo al cambiamento radicale della relazione tra
gli umani e la natura. Dell’ingegnere telefonico a Jalapa, che lascia
il lavoro per trascorrere più tempo con i suoi bambini. Della donna
di Edimburgo che, in tutto quel che fa, esprime la sua rabbia attraverso
la creazione di un mondo di amore e sostegno reciproci.
Questa è la storia di persone comuni. Alcune le conosco, di altre
ho sentito parlare, altre le ho inventate. Persone comuni: ribelli,
forse rivoluzionarie. «Siamo donne e uomini, bambini e anziani
abbastanza comuni, cioè ribelli, scontenti, disadattati, sognatori»,
dicono gli zapatisti nella loro sfida più radicale e più difficile.
Le «persone comuni» del nostro elenco sono molto diverse l’una
dall’altra. Potrà sembrare strano accostare l’operaio metalmeccanico
che alla sera va nel suo pezzo di orto al giovane che va nella giungla
per dedicare la sua vita a organizzare la lotta armata contro il capitalismo.
Eppure c’è una continuità. Quello che hanno in comune
è ciò che condividono in un movimento di rifiuto-e-altra-creazione:
sono ribelli, non vittime; sono soggetti, non oggetti.
Nel caso dell’operaio, si tratta di un gesto individuale e limitato
alle serate e ai fine settimana, nel caso del giovane è un impegno
molto pericoloso per una vita di ribellione. Sono molto diversi,
eppure li unisce una linea di affinità che sarebbe sbagliato lasciarsi
sfuggire.
Niente di più semplice. Il teorico francese del XVI secolo Étienne
de La Boétie ha espresso la semplicità della rivoluzione con
grande chiarezza nel suo discorso sulla servitù volontaria: «Seminate
i campi perché egli li devasti; ammobiliate e arricchite le vostre
case perché egli possa saccheggiarle; allevate le vostre figlie per soddisfare la sua lussuria; crescete i vostri figli perché nel migliore dei
casi li mandi a combattere nelle sue guerre, li spedisca al macello,
trasformati in strumenti della sua avidità ed esecutori delle sue vendette.Vi logorate nella fatica perché possa abbandonarsi alle delizie della vita e crogiolarsi nei suoi sudici e turpi piaceri; vi indebolite perché diventi più forte e vi tenga più corte le redini sul collo. Eppure, potreste liberarvi di tanti infami maltrattamenti, che neppure le bestie saprebbero immaginare e ai quali comunque si ribellerebbero, se provaste, non dico a liberarvene, ma soltanto a desiderare di farlo. Decidete una volta per tutte di non servire più, e sarete liberi. Non vi chiedo di scacciare il tiranno, di buttarlo giù dal trono, ma
soltanto di smettere di sostenerlo; allora lo vedreste crollare a terra
e andare in frantumi per il suo stesso peso, come un colosso a cui
sia stata tolta la base» (La Boétie 2004, pp. 9-10).
Tutto quello che il tiranno possiede deriva da noi e dal nostro
sfruttamento: dobbiamo solamente cessare di lavorare per lui e lui
smetterà di essere un tiranno perché le basi materiali dello sfruttamento saranno scomparse.
Noi creiamo il tiranno: per essere liberi, dobbiamo smettere di
costruirlo.
La chiave della nostra emancipazione, la chiave del divenire
pienamente umani è semplice: rifiuta, disobbedisci: «Decidete
una volta per tutte di non servire più, e sarete liberi».
Niente di più difficile, comunque. […]
Veramente La Boetie ce l’aveva con lo Stato, non con il mercato che, anzi rappresenta, se libero, il luogo della cooperazione libera tra uomini più evoluta finora nota. Se conoscete altra migliore fattelo sapere.
Quelli che attribuiscono tutti i mali al mercato sbagliano bersaglio. E’ lo Stato (espressione per sintetizzare l’insieme di gruppi clientelari e partitocratici) che “sfrutta” la società, con l’aiuto di una corte di intellettuali impegnati in convincere la massa che lo Stato è buono, e il mercato cattivo.
E’ l’interferenza dello Stato (orientata in favore dei politici e dei oro clienti) che distorce un funzionamento soddisfacente del mercato, introducendo irrazionalità che contrastano le forze economiche.
Il mercato va regolato con intelligenza per evitare effetti ambientali dannosi, ecc., tenendo cura di non vulnerare la logica delle sue forze creative. Il problema dei miliardi che non mangiano (in realtà però mangiano, anche se male) non è colpa del mercato, o del “imperialismo”, ma della mancanza di sviluppo in connessione con vincoli storici sociali, culturali e legali che non lo favoriscono . Guardate il nostro Meridione!
In ogni modo non c’è mai stata una economia che abbia permesso la crescita della popolazione mondiale come l’economia di mercato “capitalistica”. Senza di essa i miliardi di poveri semplicemente non esisterebbero né potrebbero esistere, e la popolazione mondiale rimarrebbe ai livelli di prima della Rivoluzione Industriale, o poco più.
Versione un po’ meno sgrammaticata:
Veramente La Boetie ce l’aveva con lo Stato, non con il mercato che, anzi, rappresenta, se libero, il luogo della cooperazione libera tra uomini più evoluto finora noto. Se conoscete altro sistema migliore fattelo sapere, altrimente incomiciate da Adam Smith 🙂
Quelli che attribuiscono tutti i mali al mercato sbagliano bersaglio. E’ lo Stato (espressione per sintetizzare l’insieme di gruppi clientelari e partitocratici) che “sfrutta” la società, con l’aiuto di una corte di intellettuali impegnati in convincere la massa che lo Stato è buono, e il mercato cattivo.
E’ l’interferenza dello Stato (orientata in favore dei politici e dei loro clienti) che distorce un funzionamento soddisfacente del mercato, introducendo irrazionalità che contrastano le forze economiche.
Il mercato va regolato con intelligenza per evitare effetti ambientali dannosi, ecc., avendo cura di non vulnerare la logica delle sue forze creative.
Il problema dei miliardi che non mangiano (in realtà però mangiano, anche se male) non è colpa del mercato, o del “imperialismo”, ma della mancanza di sviluppo in connessione con vincoli storici, sociali, culturali e legali che non lo favoriscono. Guardate il nostro Meridione!
In ogni modo non c’è mai stata una economia che abbia permesso la crescita della popolazione mondiale come l’economia di mercato “capitalistica”. Senza di essa i miliardi di poveri semplicemente non esisterebbero, né potrebbero esistere, e la popolazione mondiale rimarrebbe ai livelli di prima della Rivoluzione Industriale, o poco più.
Bisognerrebbe ripensare tutto il sistema consumistico occidentale e operare una decrescita in tutti i settori, cosa che implicherebbe anche un aumento di possibili nuovi lavori, e non una diminuzione.
Investire nell’ambiente e nella cultura, più che in altri settori, e nell’agroalimentare sicuro. Ma i potenti manovratori occulti, non lo vorranno mai.
Ariel