I 5 di Pomigliano: riflessioni sul …

… comando totale e la libertà d’espressione

di MARIO AGOSTINELLI (*)

Dal comando totale del lavoratore in azienda

al controllo della vita privata e della libertà personale di espressione.

di Mario Agostinelli (ex segretario CGIL Lombardia)

La vicenda del rilicenziamento dei cinque operai di Pomigliano da parte di FCA è noto per l’esposizione, da parte di manifestanti fuori dal loro orario e luogo di lavoro, di un fantoccio di Marchionne, che in effige si impicca da sé, dicendosi pentito per i suicidi che erano seguiti alle angherie sui dipendenti da lui segregati in un reparto confino a Nola. All’immediato licenziamento degli operai aveva fatto seguito una sentenza di reintegro da parte del tribunale di Napoli, contro cui FCA ha fatto ricorso in Cassazione. La sentenza di questo autorevole organo della Magistratura, che ha articolato senza pretese di equidistanza le motivazioni a sostegno dell’allontanamento dei cinque dal lavoro e dal salario maturato, va considerata come un segno amaro e preoccupante dei tempi. Un segnale che va contrastato nella sostanza, per i valori di cui si fa interprete contro l’autonomia del lavoro e a favore della supremazia dell’impresa. E questa asimmetria avanza giorno dopo giorno nella solitudine del mondo operaio e proprio anche quando i contendenti continuano a confliggere aspramente. Questo avviene nella disattenzione dell’opinione pubblica e, purtroppo, in assenza, dopo l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, di un arbitro che restituisca simmetria al diritto al lavoro rispetto agli interessi dell’impresa. Vengono oggi ridefiniti nella pratica – e anche purtroppo nella più recente giurisprudenza – vincoli non più in sintonia con l’art.1 o l’art. 21 della Costituzione, come nel caso del malinteso “obbligo di fedeltà” da parte della lavoratrice o del lavoratore cui ha fatto riferimento la sentenza della Cassazione. Diciamolo con nettezza: un obbligo di fedeltà nel rapporto di lavoro che non sia quello della segretezza o del know-how dell’impresa, appare come un “valore apocrifo”, tale per cui l’adesione ad un contratto di lavoro consegnerebbe le convinzioni personali al giudizio dell’impresa. Nel caso in questione si è innalzato il potere dell’azienda al di sopra dello Statuto dei Lavoratori e in contrasto con l’art. 21 della Costituzione, che tutela la libertà di opinione in ogni sua manifestazione, attuando così la rinuncia di condizionare il mercato a tutela dei lavoratori come corpo sociale dotato di diritti inalienabili una volta conquistati.

Vero è che il caso del licenziamento in ultima istanza dei cassintegrati Fiat, colpevoli di aver espresso, anche in modo brusco, dolore e rabbia per il suicidio di tre compagni di lavoro, si presenta a noi tutti come un fatto di straordinaria importanza sul piano della libertà e di quella democrazia “che ha varcato – come ripeteva Vittorio Foa – i cancelli della fabbrica”. Non si tratta, quindi, di uno sgradevole episodio di relazioni industriali o di provvedimenti attinenti ai comportamenti di questa o quella organizzazione sindacale.

Ormai trova corso anche in settori della magistratura la rimozione dell’intralcio che il cuneo dell’art.18 della legge 300 poneva tra l’impresa e il lavoro, affidando il ruolo di arbitro nei licenziamenti senza giusta causa al potere e al rispetto della Costituzione, assicurato non dall’impresa o dal sindacato, ma dalla garanzia statuale messa in atto dal Giudice. Nella sentenza della Cassazione, che cassa, su ricorso della FCA, le decisioni del tribunale di Napoli sul reintegro dei 5 manifestanti licenziati, rimane in ombra quella responsabilità sociale fatta valere dal “terzo potere” dello stato contro il sistema delle imprese e il dispotismo padronale in fabbrica.

(*) pubblicato – ma senza firma – sul quotidiano «il manifesto»; dei «5 di Pomigliano» abbiamo più volte scritto in “bottega” [db].

 

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