I governi di là, la Costituzione di qua

di Gian Marco Martignoni

Riflessioni sul Jobs Act e sul libretto «La (contro) riforma del lavoro» di Giancarlo Erasmo Saccoman

 

Come lucidamente ha ricordato Carlo Smuraglia su «Anpi-news» (del 2/9 dicembre) è negli anni ’50 che matura l’istanza di far entrare la Costituzione dentro ai luoghi di lavoro, mettendo in discussione «la facoltà di recesso da parte del datore di lavoro, in quanto strumento di potere contro i lavoratori».

Con la legge 604 del 15 luglio 1966 (norme sui licenziamenti individuali) viene introdotto l’obbligo di motivazione e il giustificato motivo, finché con la legge 300 del 1970 e in particolare con la formulazione dell’articolo 18 – come ha sostenuto a suo tempo il giurista del lavoro Giorgio Ghezzi – viene sancita «la salvaguardia dell’intero regime dei diritti soggettivi, sia individuali che collettivi, oggi fruibili sul posto di lavoro».

Diversamente con l’inizio del nuovo secolo, prima con il referendum promosso dai radicali, poi con le iniziative del governo Berlusconi respinte dalla Cgil guidata da Sergio Cofferati e quindi per opera del governo dei tecnici con a capo Mario Monti, si è allargato il fronte di quanti intendono ritornare al passato, facendo prevalere la misura del riconoscimento economico rispetto all’istituto della reintegra.

Infatti con l’ascesa a presidente del Consiglio di Matteo Renzi, dopo la manomissione della reintegra intervenuta con la riforma Fornero del 28 giugno 2012 (legge 92) è ripartito l’ennesimo tentativo truffaldino di espellere la Costituzione dai luoghi di lavoro, mediante una campagna mediatica orchestrata ad arte attorno al cosiddetto contratto a “tutele crescenti”.

Per comprendere la natura regressiva e il contesto in cui si inserisce il Jobs Act promosso e propagandato da Renzi, è assai utile la lettera dell’istant book «La (contro) riforma del lavoro» di Giancarlo Erasmo Saccoman, recentemente pubblicato dalle Edizioni Punto Rosso (pagg. 198 per 10 euri).

Innanzi tutto la flessibilità della forza lavoro nel nostro Paese è assai elevata: l’indice Epl – Employment Protection Legislation Index – che misura in sede Ocse il grado di protezione generale dell’occupazione, è passato dal coefficiente 3,82 del 1990 al 2,26 del 2013, per via dei reiterati provvedimenti di deregolamentazione assunti a partire dalla legge 863 del 1983. Legge che istituì fra l’altro i contratti di formazione-lavoro, i rapporti di lavoro a part time e i contratti di solidarietà.

Nonostante ciò il nostro sistema economico ha progressivamente subìto un pesante arretramento nel contesto europeo e mondiale in quanto – come ha rilevato Pierluigi Ciocca nel volume collettaneo «Una crisi mai vista» (Manifesto libri) – il tessuto produttivo è composto da «un pulviscolo di 4,5 milioni di imprese che dichiarano meno di quattro addetti in media, e il 60 per cento arriva appena a superare il singolo addetto».

Pertanto, ben altre sarebbero le strade da intraprendere per invertire le tendenze di un declino economico, produttivo e culturale apparentemente inarrestabile ma l’affermazione del paradigma della convergenza neoliberista – dopo i trent’anni gloriosi e la fine di ogni compromesso sociale di stampo keynesiano/fordista – ha rilanciato come dominante la tesi della precarietà espansiva, nonostante il dilagare della disoccupazione per via della crisi di sovrapproduzione capitalistica e in specifico per le politiche d’austerità adottate in chiave europea.

Inoltre, se si considera che è quanto mai esplicito il conflitto tra la libertà di lavorare concepita in una Ue fondata sul principio della libera concorrenza e il diritto sociale al lavoro sancito nella nostra Costituzione, Saccoman giustamente evidenzia come l’ulteriore processo di svalorizzazione della forza lavoro – mediante la riduzione del salario medio grazie a un’ulteriore flessibilizzazione dei rapporti di lavoro e a una maggiore licenziabilità estesa anche ai settori pubblici – è consustanziale all’adozione del modello della svalutazione competitiva interna, oltre a contemplare un attacco frontale al ruolo negoziale delle organizzazioni sindacali.

Non è un caso che dopo aver lungamente insistito sul piano dell’elaborazione teorica per il superamento da destra del dualismo insito nel nostro mercato del lavoro, sia proprio il giuslavorista Pietro Ichino nella stesura del Jobs Act il vero ispiratore di quello che Saccoman chiama correttamente «la prosecuzione dell’assalto ideologico al diritto del lavoro».

Fortunatamente la resistenza e le mobilitazioni messe in campo dalla Cgil in quest’autunno, e che in occasione dello sciopero del 12 dicembre hanno visto la positiva convergenza anche della Uil guidata dal neo-segretario Carmelo Barbagallo, sono state essenziali per disvelare le mistificazioni contenute nell’impianto del Jobs Act, soprattutto perché le nuove generazioni hanno ben compreso quale assenza di futuro viene loro prospettata non solo sul piano lavorativo.

Ma se gli odierni rapporti di forza ci consegnano un Parlamento mai così omologato – anche in ragione della torsione maggioritaria affermatasi nel referendum del 1993 grazie all’introiezione dell’ideologia della governabilità da parte degli ex comunisti – bisognerà interrogarsi seriamente sul perché oggi il mondo del lavoro è privo di una dignitosa rappresentanza politica, nel mentre anche sul piano istituzionale con l’abolizione del Senato elettivo si profila come una nuova stretta di stampo autoritario.

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