I muscoli del Capitano, dagli yacht di lusso al salvataggio dei migranti – intervista

di Pablo Sole a Michele Angioni – non tutti arrivano vivi

“No, non tutti arrivano vivi. E noi a bordo non abbiamo celle frigorifere, quindi caliamo una lancia, ci sistemiamo dentro i cadaveri e la rimorchiamo. Appena troviamo una nave con le celle, effettuiamo il trasbordo delle salme. E non è una bella esperienza”. Michele Angioni, 29 anni, al comando della Astral, un imponente veliero preso a nolo dalla Ong spagnola Pro Activa Open Arms e subito spedito nel Canale di Sicilia a salvare vite, ci è arrivato per caso. Natali quartesi, consegue il diploma al Nautico di Cagliari, si specializza a Genova e nel giro di pochi anni intraprende la carriera mercantile. Gira un bel pezzo di mondo ma non può sfuggire all’atavico richiamo della sua Isola-sirena. Torna in Sardegna e si mette al timone di lussuosi yacht da diporto, circondato da facoltosi turisti che sganciano un bel po’ di quattrini per veleggiare tra le calette di Santa Teresa, Caprera e Porto Cervo. Qui conosce il collega Riccardo Gatti, che ai ponti dei panfili a noleggio alterna quelli delle navi che salvano i migranti in zona Frontex. Per Michele è una folgorazione: dimentica Capriccioli e punta su Lampedusa. Quando prende il comando della ‘Golfo azzurro’, uno dei primi velieri affittati dalla Pro Activa, è il 16 dicembre 2016. Ancora non lo sa, ma andrà a sbattere a tutta velocità e senza cinture di sicurezza contro una realtà complessa fatta di drammi e sorrisi: lo scontro perenne per strappare alle onde donne e bambini, disperati e cadaveri, e la gioia negli occhi di chi ce l’ha fatta e ha trovato finalmente un porto sicuro. Questa è la cronaca dei dieci mesi trascorsi a salvare vite umane nel Canale di Sicilia.

I cadaveri sulla lancia a rimorchio

Recuperare i corpi dei migranti che non sono riusciti a sopravvivere alla traversata è stata chiaramente l’esperienza più devastante. Una cosa è vederlo nei filmati, su uno schermo. Un’altra è provare quell’esperienza sulla propria pelle. Sono ammassati nei gommoni, in mezzo alle persone che invece ce l’hanno fatta. Da un lato fai salire a bordo i vivi, dall’altro metti in mare una lancia, carichi i cadaveri e rimorchi. Quando si incrocia una nave con le celle frigorifere, si fa il trasbordo. Molti volontari rimangono scioccati, per questo a bordo abbiamo un team di psicologi. Ma l’impatto rimane comunque fortissimo, per qualcuno devastante.

Le donne stuprate che partoriscono in spiaggia, gli uomini tenuti a bada a forza di botte

La maggior parte delle donne che abbiamo soccorso ha subito abusi sessuali durante il viaggio per arrivare sulla costa oppure vengono stuprate durante la permanenza in Libia, in attesa di partire. Qui i migranti vengono suddivisi per paese d’origine e ‘sistemati’ in centri appositi. O più semplicemente ‘carceri’. Se una donna è incinta, la fanno partorire in spiaggia e poi si parte sui gommoni. Non è raro che a bordo ci siano neonati. Su una parete della nave abbiamo appeso la scarpetta di un bambino che aveva pochi giorni: ora sta bene. Gli uomini spesso arrivano con le ossa rotte, per tenerli ‘calmi’ vengono picchiati. Molti sul gommone si agitano, non sono pochi quelli che arrivano dall’Africa Nera e non hanno mai visto il mare.

I gommoni scomparsi in mezzo al mare, i giubbini di salvataggio che “ti portano giù”

Non sempre riesci a salvare tutti. È frustrante, perché a volte non puoi fare altrimenti. In un anno siamo riusciti a portare in salvo circa 15mila persone, ma in tutto il 2016, prima che io arrivassi, ne sono morte 5mila. A maggio ho vissuto la situazione più drammatica. In mezzo al mare c’erano ventidue gommoni, alcuni erano bucati e andavano a fondo. Li vendono su internet: “Gommoni per migranti, 800 dollari”, dice un annuncio su Alì Baba, l’Amazon cinese. Nel ‘prezzo’ della traversata è compreso anche giubbino di salvataggio: non serve a niente se non a farli affogare, visto il materiale con cui sono fatti. In quell’occasione abbiamo fatto partire le operazioni di recupero ma quattro gommoni sono rimasti in mare: i posti di salvataggio erano finiti e anche i salvagente. “Il vento li riporterà sulla costa, state tranquilli”, ci ha detto un operatore Frontex. Che fine hanno fatto quelle persone? Non l’abbiamo mai saputo. Non credo sia difficile immaginarlo.

I soldati libici che prima sparano, poi parlano. E chiedono il pizzo ai migranti

Quando abbiamo a che fare con la Guardia costiera libica – se così si può chiamare – la storia è quasi sempre la stessa. Partono col warning shot (sventagliate di mitra d’avvertimento, ndr), sparano in aria, poi aprono il canale radio. Capire perché si comportano in questo modo è semplice, l’abbiamo visto molte volte. Prima ci mandano via, lontano dai migranti, quindi abbordano i gommoni e ci richiamano: “Venite, salvateli voi”. Quando le persone salvate salgono a bordo, confermano i sospetti: per lasciarli andare, gli uomini della Guardia costiera si sono fatti pagare.

Libia e ricatti

Stiamo finanziando non si sa bene chi. Ci stiamo comportando come la Spagna con il Marocco: i primi pagano, i secondi bloccano le partenze. Solo che con la Libia non si capisce con chi si abbia a che fare. La Guardia costiera? Che risponde a chi? A quale fazione? Stiamo armando e soprattutto finanziando dei cani sciolti, delle vere e proprie milizie: ognuno lavora per chi vuole e come vuole, sono senza alcun controllo. E sia chiaro: lì in mezzo al mare c’è una guerra. Vera.

da qui

 

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