I nostri debiti con l’Africa

Ogni anno la fuga illegale di capitali procura all’Africa una perdita di 88,6 miliardi di dollari

di Francesco Gesualdi (*)

E’ ufficiale: ogni anno la fuga illegale di capitali procura all’Africa una perdita di 88,6 miliardi di dollari, il 3,7% del suo prodotto lordo. Lo sostiene l’Unctad, l’agenzia delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo, nel suo rapporto “Tackling illicit financial flows for sustainable development in Africa”. In 15 anni, dal 2000 al 2015, il totale trafugato all’estero ha raggiunto 836 miliardi, una somma superiore al debito estero accumulato dal continente, che ammonta a 770 miliardi di dollari. Il che porta l’Unctad ad affermare che l’Africa è un creditore netto del resto del mondo. Addirittura un donatore netto considerato che gli aiuti ufficiali ricevuti annualmente dall’Africa si fermano a 48 miliardi di dollari.

Tre voci compongono il grosso del flusso illegale di capitali: corruzione, contrabbando, fatturazione fittizia. Secondo l’African Development Bank, la corruzione è una piaga che da sola provoca all’Africa una perdita annua di 148 miliardi di dollari. Una cifra di gran lunga superiore agli investimenti necessari per garantire l’energia elettrica a tutte le famiglie africane, stimati fra i 60 e i 90 miliardi di dollari. Valutazioni più prudenti stimano in 20/40 miliardi le somme incassate indebitamente da parte di pubblici ufficiali per favorire condotte illecite da parte di persone e imprese tese ad aggirare le leggi dello stato o a guadagnare alle sue spalle. Somme poi trasferite su conti esteri tramite tortuosi giri bancari per fare perdere le proprie tracce. Ma il Rapporto Unctad cita un’indagine giornalistica del 2015, svolta in alcuni paradisi fiscali, che ha rintracciato 5.000 conti milionari riconducibili a individui residenti in 41 paesi africani.

Fra i soggetti che ricorrono abitualmente alla corruzione ci sono i contrabbandieri che non vanno immaginati solo come persone singole dedite al piccolo commercio clandestino con l’obiettivo di aggirare dazi e divieti. In Africa i contrabbandieri comprendono anche gruppi ben organizzati al servizio di grandi imprese transnazionali attive nel commercio illegale di prodotti più vari. Non solo legname e specie selvatiche in via d’estinzione, ma anche rifiuti pericolosi e minerali. Benché il commercio illegale di rifiuti abbia conseguenze sanitarie molto gravi sulle popolazioni riceventi, non esistono molti dati al riguardo. Tuttavia secondo l’Organizzazione mondiale delle dogane, la quantità di rifiuti esportata illegalmente è cresciuta del 500 per cento in venti anni, passando da 45 milioni di tonnellate nel 1992 a 222 nel 2012. La parte esportata verso i paesi più poveri è cresciuta del 40% facendo dell’ Africa e dell’Asia sud orientale i principali porti di sbarco di rifiuti elettronici, plastiche e rottami di metallo. E assieme ai rifiuti sono arrivate anche le mazzette per comprare il silenzio di chi dovrebbe vigilare e imporre il rispetto della legge. Esattamente come succede nel settore minerario, dove si è sviluppato un fiorente mercato clandestino che oltre ad avvantaggiare le imprese acquirenti, finanza i signori della guerra. Tipico il caso del tantalio estratto in Congo nella regione dei grandi laghi. Ma anche oro, zinco e tungsteno sono al centro di traffici illeciti perché utilizzati dalle mafie internazionali per riciclare il denaro sporco proveniente dal commercio di droga e di armi. E fra tutti l’oro è il preferito perché racchiude grande valore in piccoli quantitativi. Esponenti delle Nazioni Unite hanno ricostruito una rotta illegale di oro che dal Congo raggiunge la Svizzera tramite l’Uganda e gli Emirati Arabi. Alla fine tutto viene classificato come oro svizzero dal momento che la Svizzera raffina fra il 40 e il 70% dell’oro mondiale.

L’Unctad ritiene che una buona metà dei capitali in fuga dall’Africa sia connessa con il commercio di minerali. Per il 2015 la somma è stata calcolata in 40 miliardi di dollari, derivante per il 77% dall’oro, il 12% dai diamanti, il 6% dal platino. Una somma a cui contribuiscono anche i minerali prodotti nella legalità, a causa dell’evasione fiscale operata tramite il sistema della fatturazione fittizia. In Africa l’economia di diciotto nazioni dipende fortemente dai minerali, ma la loro estrazione è gestita da multinazionali che utilizzano la fatturazione fittizia per trasferire i profitti di tutto il gruppo dove sono tassati di meno. Il che procura un danno enorme all’Africa considerato che a causa del suo elevato tenore di economia informale è il continente a più bassa pressione fiscale: 17% sul Pil contro una media Ocse del 34%. In questo scenario il gettito fiscale atteso dalle multinazionali assume un’importanza strategica, ma a causa della fatturazione fittizia è tagliato del 10% rispetto al dovuto.

L’Unctad stima che nel 2014 il sistema fiscale africano abbia perso 9,6 miliardi di dollari a favore dei paradisi fiscali, il 2,5% del suo gettito complessivo. Perdite che mettono a rischio la possibilità di raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile che l’Africa si è posta per il 2030. Ad esempio è stato appurato che i governi dei paesi africani ad alta fuga di capitali spendono in sanità il 25% in meno e in istruzione il 58% in meno rispetto a quelli a bassa fuga. Con danno particolare per donne e bambine che generalmente sono le più escluse da scuola e servizi sanitari. Per non parlare dei neonati. Il Sierra Leone, che è uno dei paesi del mondo con il più alto tasso di mortalità infantile (105 decessi sotto i cinque anni ogni 1000 nati vivi), potrebbe salvare 2322 bambini all’anno se aumentasse la sua spesa sanitaria grazie ad una riduzione della fuga di capitali. E virando su un altro capitolo altrettanto critico, l’Unctad ricorda che mettendo insieme i capitali in fuga da qui al 2030, l’Africa potrebbe ottenere circa metà dei 2400 miliardi di dollari che le servono per tamponare gli effetti dei cambiamenti climatici. L’Africa ha un urgente bisogno di fermare i capitali in fuga. Ma, per riprendere le parole pronunciate da Papa Francesco all’ultima assemblea delle Nazioni Unite, potrà farcela solo se “tutti si impegnano a lavorare insieme per eliminare i paradisi fiscali, evitare l’evasione fiscale e il riciclaggio di denaro che derubano la società, nonché per riaffermare l’importanza di difendere la giustizia e il bene comune al di sopra degli interessi delle più potenti aziende e multinazionali. Questo è il momento giusto per rinnovare l’architettura finanziaria internazionale.”

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