I “nostri” pescatori

Stasera Barack Obama sarà a Roma. Incontrerà anche Matteo Renzi, il quale ha promesso che tra le questioni che metterà sul piatto con il Presidente degli Stati Uniti ci sarà quella del caso dei due marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone,
 
arrestati in India per l’accusa di omicidio. Riportiamo un articolo di Matteo Miavaldi uscito qualche mese fa su Giap che ha il pregio di ricostruire questi due anni di giornalismo becero e retorica rivoltante.

di Matteo Miavaldi

Il caso Enrica Lexie, dopo due anni, si sta avvicinando alle fasi finali, dopo una serie di rinvii e complicazioni diplomatiche, mistificazioni e propaganda elettorale tanto in India quanto in Italia: elementi che hanno aperto la strada alla “narrazione tossica” della vicenda dei due marò, strapazzata da un’informazione generalmente superficiale e, in alcune circostanze, platealmente nociva.

Poco più di un anno fa, su Giap, pubblicammo due lunghi(ssimi) articoli, molto densi di dati e fonti, che smontavano punto per punto la ricostruzione offerta da Il Giornale, Libero e Il Sole 24 Ore: una storia che si basa sulle teorie raffazzonate del sedicente “ingegnere” Luigi Di Stefano, dirigente nazionale di Casapound.

Quei due post si sono presto trasformati in un’inchiesta collettiva, e hanno avuto un numero esorbitante di visite e condivisioni sui social media. Il primo dei due è stato visitato da oltre mezzo milione di IP unici, e ogni giorno continua ad attirare lettori.

Da quei post è nato anche un libro, presentato in giro per l’Italia e recensito su importanti testate nazionali.

Eppure, a distanza di un anno, la quasi totalità dei media nazionali finge che quello smontaggio non abbia mai avuto luogo, e continua a raccontare falsità e mezze verità, stravolgendo completamente l’intera vicenda.

L’impianto complottista e sciovinista della “ricostruzione Di Stefano” si è anzi arricchito di nuovi collaboratori, nuovi protagonisti e nuove bufale, abbracciate con entusiasmo da diverse testate giornalistiche, programmi televisivi, opinionisti e parlamentari.

Abbiamo individuato le principali criticità e incomprensioni di massa e qui sotto, per punti, proveremo a sciogliere la matassa spacciata per verità a una fetta considerevole dell’opinione pubblica italiana. Per tutte le altre questioni, rimandiamo ai due post precedenti e, soprattutto, al libro.

1. IL PECCATO ORIGINALE, OVVERO: CHE CI FACEVANO I MARÒ SULL’ENRICA LEXIE?

Inserendo l’incidente tra il peschereccio St. Antony e la petroliera Enrica Lexie all’interno della lotta alla pirateria internazionale, l’impressione data in Italia è che l’India – cercando di perseguire per legge l’operato dei due fucilieri – stia intralciando gli sforzi internazionali della Nato e dell’Onu a contrasto della pirateria, mettendo automaticamente a repentaglio l’immunità di tutti i nostri soldati impegnati in missioni internazionali.

L’Italia, con la Marina Militare, partecipa attivamente – da anni – a due operazioni internazionali di contrasto alla pirateria: Atalanta, dell’Unione Europea, e Ocean Shield, della Nato. Entrambe le operazioni si concentrano in un’attività dissuasiva e di monitoraggio del Mar Rosso e del golfo di Aden, al largo della Somalia, dove il rischio pirateria è maggiore. I militari, a bordo di navi da guerra, scortano i cargo di passaggio e pattugliano le acque limitrofe.

Come si legge sul portale della Marina Militare:

«Il suo [dell’operazione Atalanta, ndr] mandato consiste nel proteggere le navi mercantili che transitano da e per il Mar Rosso ed inoltre svolge attività di scorta alle navi mercantili del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite, incaricate di consegnare aiuti alimentari in Somalia […] La Marina Militare partecipa all’Operazione Ocean Shield con unità navali inserite nella forza navale SNMG1 o SNMG2.»

Quindi l’Italia, quando partecipa come nazione alle operazioni internazionali di contrasto alla pirateria, lo fa con e su navi da guerra.

I marò a bordo dell’Enrica Lexie, invece, tecnicamente non partecipavano a nessuna missione internazionale.

Nel 2011 il Ministero della Difesa e Confitarma, la Confederazione Italiana Armatori, hanno firmato un’intesa, seguita da una convenzione, che permetteva, agli armatori che ne facessero richiesta, di imbarcare dei Nuclei Militari di Protezione (Npm) formati da fucilieri di Marina, impiegati in servizio anti pirateria a difesa, quindi, di navi commerciali italiane, ma private (nel caso specifico della Lexie, di proprietà dell’armatore Fratelli D’Amico).

Una legge votata a larghissima maggioranza (493 voti favorevoli, 22 contrari, 15 astenuti) che l’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa oggi rinnega a mezzo stampa, citando le perplessità espresse già nel febbraio 2011.

La protezione delle attività commerciali su navi cargo italiane veniva quindi “appaltata” a personale militare pagato, secondo quanto sancito dall’addendum alla convenzione, 467 euro a testa per giorno di navigazione.

Questo, legalmente parlando, è il “peccato originale” commesso dall’Italia: aver esposto i propri militari in attività private che non rientrano in operazioni internazionali, non vengono condotte su mezzi militari e ricadono in una zona grigia del diritto in cui l’India ha potuto, a rigor di legge, non applicare l’immunità funzionale garantita al personale militare all’estero poiché difendere la merce e gli interessi di privati non dovrebbe essere il lavoro dei soldati, ma quello dei contractor.

Un unicum a livello internazionale molto pericoloso, come ha spiegato il security advisor Antonio De Felice, in un’intervista contenuta nel saggio I due marò – Tutto quello che non vi hanno detto.

«Ad oggi [marzo 2013, ndr] nessun Paese occidentale consente a privati armati di salire a bordo. Le uniche bandiere che hanno varato una legge in tal senso sono Panama, Marshall Islands e Liberia, che da sole coprono però quasi il 75 per cento del tonnellaggio mondiale. In Europa, oltre all’Italia, gli unici Paesi che hanno accordato la presenza a bordo di Nuclei militari di protezione sono il Belgio e la Francia, ma imponendo condizioni di utilizzo molto ristrette. La Francia, ad esempio, utilizza soldati del proprio esercito solo per difendere pescherecci che operano nelle acque vicino Mahé, ex colonia francese nei pressi di Pondicherry, in India sud orientale. In tal senso anche il peschereccio italiano Torre Giulia, di proprietà Iat di Bari (Industria Alimentare Tonniera) e associato a Federpesc, ha ammainato la bandiera italiana a favore di quella Francese.

Un discorso a parte deve essere fatto per la Spagna che ha modificato con un Regio Decreto il proprio Testo di Pubblica Sicurezza introducendo la possibilità per i privati autorizzati dal Governo spagnolo di imbarcarsi con armi e materiali; tuttavia la norma studiata anch’essa per la flotta (due imbarcazioni…) di pescherecci che incrociano nell’oceano Indiano non è mai stata presa in considerazione da alcun armatore rendendo di fatto la norma inutile.

Ricapitolando: i contractor possono salire su navi battenti bandiera panamense, liberiana e delle Isole Marshall; l’Italia è l’unico Paese ad aver legalizzato un uso così esteso delle proprie Forze Armate a bordo di mercantili privati, esponendosi a rischi e conseguenze legali che il caso Enrica Lexie esemplifica in tutta la sua gravità.»

Resisi probabilmente conto dell’errore, a seguito del groviglio Enrica Lexie, Confitarma è riuscita amodificare la precedente convenzione col Ministero della Difesa, inserendo tra le opzioni di ingaggio anche le guardie giurate; i contractor, che sono dei privati e in caso di errori ne rispondono penalmente in quanto privati, non in quanto organi dello Stato.

Nonostante l’apertura, la Marina Militare gode comunque di una sorta di diritto di prelazione: l’armatore, secondo la convenzione, è obbligato a chiedere in prima istanza la disponibilità di Npm della Marina; se la Marina non potesse garantirne la disponibilità, allora il servizio potrebbe essere richiesto ai contractor.

Per questi motivi, equiparare lo status militare di fucilieri di Marina in servizio su navi private a quello di soldati in missione internazionale – siano essi uomini Nato o contingenti indiani in Congo, come piace ricordare a Fernando Termentini denunciando una diversità di trattamento strumentale – è un errore di fondo, un eccesso di semplificazione utile a rimarcare la presunzione di ingiustizia subìta. Creando questi presupposti, l’India diventa un paese arrogante che agisce disprezzando il diritto internazionale, si muove per sotterfugi e manipolazioni delle prove, approfittandosi della buona volontà di un’Italia che in questa vicenda non ha nulla da nascondere.

Il corrispondente tedesco di RTL Udo Gümpel, in una lunga discussione sulla sua pagina Facebook, ha rilevato che nel caso navi cargo ospitino a bordo del personale armato, l’armatore è tenuto a comunicarlo alle autorità indiane prima di entrare nelle acque pertinenti della Zona economica esclusiva (200 miglia nautiche), secondo la legge indiana SR-13020/6/2009, “Pre-Arrival Notification for Security”, entrata in vigore il 29 agosto del 2011 (quindi prima dell’intesa tra Ministero della Difesa italiano e Confitarma). Cosa che l’Enrica Lexie non ha fatto.

I marò, quindi, si trovavano ben all’interno delle acque di competenza indiana senza che le autorità locali ne fossero a conoscenza: circostanza quantomeno bizzarra se si pretende un riconoscimento internazionale di un accordo stipulato tra governo e armatori italiani.

2. PIRATI, QUESTI SCONOSCIUTI

Le coste del Kerala, stato dell’India meridionale, nell’immaginario collettivo italiano sono diventate una specie di Far West galleggiante dove, secondo varie versioni, spararsi addosso durante la navigazione è pratica comune: un mare “infestato” di pirati affrontati con la forza da fucilieri italiani, vedette cingalesi, contractor greci e guardia costiera indiana.

È necessario fissare una volta per tutte un punto centrale: al largo del Kerala i pirati non ci sono.

Lo dicono da anni gli indiani, abbastanza risentiti del fatto che le proprie coste occidentali rientrino nella cosiddetta zona ad alto rischio pirateria individuata dagli assicuratori del trasporto cargo internazionale, aumentando esponenzialmente il premio assicurativo per chi naviga in quelle acque. Ma lo dicono soprattutto i dati oggettivi dell’International Chamber of Commerce, sezione Crime services, che ogni anno raccoglie tutte le denunce di pirateria mondiali in un rapporto globale.

In tutto il 2013 lungo le coste occidentali indiane si è registrato un solo episodio di pirateria. O meglio, seguendo la dicitura ufficiale adottata a livello internazionale, di “piracy and robbery”. Il caso specifico, verificatosi il 14 febbraio, ha interessato un cargo ancorato nei pressi di Kochi, che è stato abbordato da tre ladri intorno all’una di notte. Svegliato dal rumore in coperta, un membro dell’equipaggio ha dato l’allarme e i tre sono scappati, dopo aver arraffato quel che potevano dalla cambusa.

Nel 2012, l’anno dell’incidente, nella stessa zona si sono verificati solo due episodi: un tentativo di rapina sventato il 15 febbraio – ed è il caso della petroliera greca Olympic Flair – e una rapina riuscita il 30 novembre, quando tre ladri incappucciati sono saliti su una petroliera rubando i beni contenuti nella cabina di comando e scappando non appena l’equipaggio, che stava dormendo, si è svegliato lanciando l’allarme.

3. I TOPOLINI DI CAPUOZZO

Il giornalista Toni Capuozzo è tra i volti più noti del panorama televisivo italiano ad aver fatto proprie le teorie di Di Stefano, ripresentandole come Verità in una serie di servizi trasmessi dal Tg5 e in numerose puntate speciali del suo programma di approfondimento Mezzi Toni, affiancato ora da Luigi Di Stefano, ora da Stefano Tronconi, un “privato cittadino ex dirigente d’azienda che, nel tempo libero, si occupa del caso dei due marò”.

Capuozzo si rifà alle accuse irrealistiche mosse, l’anno scorso, contro la petroliera greca Olympic Flair, che secondo Di Stefano sarebbe la vera responsabile della morte dei pescatori Binki e Jelastine. Un’ipotesi abbondantemente sconfessata nel secondo articolo sulla vicenda pubblicato qui su Giap che, segnalato a suo tempo a Capuozzo, è stato da lui giudicato inattendibile.

A confermare la tesi dell’innocenza Capuozzo aggiunge un nuovo tassello, riportando la traduzione di un’intervista rilasciata a caldo dal comandante del St. Anthony, Freddy, che sostiene gli spari abbiano colpito la sua imbarcazione alle 21:30 del 15 febbraio 2012: diverse ore dopo lo scontro a fuoco che interesserebbe l’Enrica Lexie (16:30) e poco prima della denuncia di attacco pirata sporta dalla Olympic Flair. In sostanza, i greci avrebbero sparato e gli italiani, che non c’entravano nulla, sarebbero stati incastrati (secondo una teoria del complotto che smonteremo in seguito).

Dalle pagine online dell’Espresso ho provato a far emergere l’inconsistenza della teoria ricorrendo al buon senso:

«Il video utilizzato da Capuozzo è un estratto di un servizio andato in onda su Venad News , un canale d’informazione del Kerala, ed effettivamente pare proprio che Freddy dica “21:30″, la traduzione è stata confermata da amici fluenti in malayalam. Ma la stampa indiana non ha mai riportato questa versione, così ci è venuto il dubbio che si trattasse di un abbaglio, di una tara messa alle dichiarazioni di una persona in completo stato di shock (Freddy arriva in porto alle 23, balbetta, mischia malayalam e tamil, ripete più volte le stesse frasi).»

Perché non riportare per intero le dichiarazioni di Freddy? Probabilmente perché a tutti era noto che in quel momento il capitano stava straparlando, considerando il fatto che la stampa indiana era al corrente degli spari contro il St. Anthony almeno dalle 20, ora in cui il Times of India pubblica la breaking news sul peschereccio indiano, senza ancora essere in grado di indicare l’Enrica Lexie come sospettata numero uno. Le indagini erano ancora in corso e, a beneficio dei complottisti, ricordiamo che l’Olympic Flair avrebbe denunciato il tentato abbordaggio solo alle 22:20, due ore e venti più tardi. Quindi o la stampa indiana ha il dono della preveggenza, oppure le parole in stato di shock di Freddy sono da prendere con le pinze.

Ma in tutta risposta Capuozzo bolla il tutto come “una montagna che partorisce un topolino”, sostenendo nella sua lettera pubblicata dall’Espresso che:

«a giustificare lo “sbaglio” del comandante del peschereccio che parla di “21.30″, Miavaldi esibisce come un asso nella manica le breaking news del ‘Times of India’, che informa dell’incidente mortale attorno alle 20, e dunque molto prima dell’ora indicata dal capitano, e molto prima che il capitano parlasse alle telecamere.

Dal pezzo di Miavaldi  si può risalire a quella notizia, così datata: 15 febbraio ore 8.04. Ma se guardate i commenti, che alle otto di sera dovrebbero essere una valanga, vedete che il primo è di un certo Alwyn alle 11.36. Guarda caso, pochi minuti dopo le dichiarazioni del capitano del peschereccio alla televisione. Siccome non è difficile cambiare l’ora di una breaking news, forse è questo quello che è stato fatto al Times of India. Dimenticandosi, purtroppo per loro, di cambiare l’ora dei commenti, e lasciando così cadere nel vuoto una tragica notizia, senza nessuno che la raccolga.»

Siamo sempre immersi nella teoria del complotto, pronti a difendere tesi traballanti ricorrendo ad accuse – gravi – di manipolazione di dati. Come se un incidente avvenuto nella serata indiana fosse in grado, nel giro di pochi minuti, di mobilitare immediatamente con efficacia svizzera le più alte sfere della politica indiana, le forze dell’ordine e i gestori del principale quotidiano indiano: tutti uniti per ordire trame oscure anti italiane.

L’Espresso ha avuto la gentilezza di ospitare una mia controreplica:

«Il vicedirettore del Tg5 sostiene che gli spari contro il peschereccio St. Anthony siano arrivati dalla petroliera greca intorno alle 21:30. L’Olympic Flair, sappiamo dalla denuncia che lei stessa avanza alle autorità intorno alle 22:20, si trovava a poche miglia nautiche dal porto di Kochi: la posizione è confermata dall’International Chamber of Commerce – International Maritime Bureau e dall’International Maritime Organization, che inseriscono l’evento nei propri database (pubblici).

Il peschereccio doveva quindi trovarsi da quelle parti, per entrare nell’ipotetica traiettoria di tiro dei greci, e ci si troverebbe alle 21:30. Quindi, con due membri dell’equipaggio feriti a bordo, Freddy deciderebbe inspiegabilmente di dirigersi non verso il porto più vicino, Kochi, ma di fare rotta verso sud e tornare a Neendakara, nei pressi di Kollam, dove attracca alle 22:40, pronto a pronunciare la dichiarazione che Capuozzo utilizza come base della sua tesi, alle 23.

Kochi e Kollam distano, in linea d’aria, più o meno 125 km . Un volo di linea sulla tratta Kochi-Kollam impiega 48 minuti ad arrivare a destinazione, mentre lo stesso tragitto viene coperto, via terra, in almeno quattro ore.

La velocità massima di un peschereccio come il St. Anthony, mi dicono, si aggira intorno agli 8 nodi; approssimando per eccesso, equivalenti a 15 km/h. Per raggiungere Kollam partendo dai pressi del porto di Kochi sarebbero state necessarie – approssimiamo – almeno 8 ore, mentre Capuozzo posiziona il St. Anthony nei pressi di Kochi alle 21:30 e, magicamente, ricompare a Kollam un’ora e un quarto dopo.

Se sull’attendibilità del Times of India possiamo avere delle divergenze d’opinione, forse sulla fisica e sulla geografia ci potremmo trovare d’accordo. A fugare ogni accusa alTimes of India, ecco qui l’istantanea dell’articolo scattata da WebArchive – archivio delle cache – proprio il 15 febbraio 2012. Il primo commento è di Kalyug (Usa) alle 8:55 pm. (guarda).»

Al momento della redazione di questo pezzo non è ancora pervenuta alcuna replica né da Capuozzo né dai suoi collaboratori, più impegnati a fantasticare sulla “vera” ragione che avrebbe spinto le autorità del Kerala a manipolare i fatti del 15 febbraio.

4. COMPLOTTO IN KERALA

La narrazione della verità alternativa di Capuozzo, Di Stefano e Tronconi si sviluppa a ritroso: partendo da dati oggettivi impossibili da confutare dalle poltrone di casa propria, ci si inventa degli espedienti narrativi in grado di minare la veridicità dei documenti, uno su tutti il rapporto interno della Marina stilato dall’ammiraglio Alessandro Piroli, che Repubblica in esclusiva ha pubblicato parzialmente la scorsa primavera.

Nel rapporto si specifica che gli esami balistici condotti dalla scientifica indiana alla presenza “silenziosa” di specialisti italiani appartenenti all’Arma dei Carabinieri – i maggiori Luca Flebus e Paolo Fratini – indicano la compatibilità dei proiettili ritrovati sullo scafo e nei corpi dei due pescatori con i fucili in dotazione al nucleo di marò in servizio sulla petroliera: le armi che avrebbero sparato sono contrassegnate con le matricole di altri due fucilieri, Voglino e Andronico.

Si tratta di un calibro 5,56mm, ma la teoria Di Stefano (basandosi su un’approssimazione di indiscrezioni non confermate) sostiene invece che gli indiani abbiano per le mani un calibro 7,62mm e che i documenti finali della perizia indiana – trasmessi anche sui nostri telegiornali nazionali – sono stati contraffatti, lanciandosi in una suggestiva indagine, sviscerata nel saggio I due marò – Tutto quello che non vi hanno detto, in particolare in questo passaggio illuminante per apprezzare la viralità della versione di Di Stefano:

«La svolta dell’esame balistico viene annunciata su tutti i Tg italiani il 14 aprile 2012. Il Tg1 e il Tg2 mandano in onda anche alcuni stralci della perizia indiana.

Si tratta di un documento ufficiale, una prova definitiva che sarà presa in considerazione dalla Corte chiamata a pronunciarsi sulla colpevolezza o meno dei due sottufficiali italiani. Gli indiani sostengono che i proiettili calibro 5,56 mm ritrovati sul St. Antony e nei corpi dei due pescatori siano stati sparati dalle armi in dotazione al Nucleo di Protezione Marina sequestrate a bordo dell’Enrica Lexie: 6 fucili SC 70/90 e 2 mitragliatrici Minimi, entrambi calibro 5,56 mm. Hanno fatto degli esami in laboratorio, dei test di tiro, sotto gli occhi dei due specialisti dei Carabinieri mandati dall’Italia, e hanno raggiunto conclusioni che negano quelle di Di Stefano.»

Allora il nostro ingegnere che fa? Si collega al sito della Rai, rivede le puntate del telegiornale, fa degli screenshot delle parti in cui vengono trasmessi i documenti della perizia, li analizza e sentenzia: la perizia è contraffatta.

«Nel documento presentato da Tg1 e Tg2 come uno stralcio della “Perizia Balistica” eseguita dalle autorità indiane appaiono evidenti segni di falsificazione dei risultati.

Dette falsificazioni consistono nell’aver modificato, in tempi successivi alla prima stesura, gli elementi che indicano la responsabilità italiana negli omicidi.

Elementi che evidentemente nella prima stesura erano diversi, altrimenti non sarebbe stato necessario modificarli.»

Siamo al delirio di onnipotenza di un’analisi scientifica fatta dal fermo immagine del Tg2 da un tizio che scova indizi e prove ingrandendo i pixel di una fotocopia dal proprio pc di casa, per accusare di falsificazione le autorità di un altro Stato.

Accuse di questo genere, che in un Paese normale sarebbero state ignorate o coperte dalle risate, in Italia diventano invece uno scoop, ripreso da Lorenzo Bianchi sul Quotidiano Nazionale e da Gian Micalessin sul Giornale del 19 aprile.

«Gli indiani la spacciano per la prova regina, la vendono come la pistola fumante capace d’inchiodare i marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. In verità le risultanze della perizia balistica passate ai giornali indiani e documentate il 4 aprile dai servizi del Tg1 e del Tg2 sono un banalissimo falso. Un falso confezionato alterando i risultati di una perizia capace forse di scagionare i nostri due militari. Una bufala data in pasto a giornali e televisioni per minare le certezze dei nostri diplomatici e convincere l’opinione pubblica indiana e italiana della colpevolezza dei nostri militari. A dimostrarlo è l’ingegner Luigi Di Stefano, un perito giudiziario 60enne famoso per aver cercato di far luce sui misteri dell’aereo dell’Itavia abbattuto nei cieli di Ustica.»

«Guardando il documento messo in onda il 4 aprile dal Tg1 e dal Tg2 – spiega a Il Giornale il perito giudiziario – balza immediatamente agli occhi che si tratta di un documento chiaramente contraffatto, realizzato con due macchine da scrivere diverse. In quel documento notiamo delle alterazioni evidenti. Ci sono delle cancellazioni, dei testi sottotraccia e dei timbri che non quadrano. Abbiamo davanti una perizia passata da più mani dopo la sua stesura originale e alterata per dimostrare conclusioni diverse e più favorevoli alla versione sostenuta dalla parte indiana”.»

La versione del proiettile 7,62 viene sbandierata anche nella puntata dello scorso due febbraio diMatrix, programma condotto da Luca Telese, dove si sostiene che il calibro sia in dotazione alla guardia costiera dello Sri Lanka, «impegnata in una lotta a tutto campo contro i pescatori di frodo indiani che spesso sconfinano nelle loro acque». Una panzana grottesca, considerando che le coste del Kerala affacciano ad Ovest mentre lo Sri Lanka si trova a Sud-Est rispetto ad un altro stato indiano, il Tamil Nadu! Gli scontri per le acque di pesca si verificano da anni tra il golfo di Mannar e la baia di Palk, le acque che dividono lo Sri Lanka dal Tamil Nadu. Il Kerala non c’entra nulla.

Pochi secondi dopo lo stesso servizio denuncia la “conclusione unilaterale” degli esami balistici indiani, che indicano invece un calibro 5,56, “contestata dall’Italia visto che agli esami non sono stati ammessi gli esperti italiani”. Come visto sopra, si tratta di un falso: gli esperti italiani c’erano e l’Italia non ha mai contestato ufficialmente l’esito della perizia balistica.

C’è spazio anche per la teoria della colpevolezza della petroliera greca dell’Olympic Flair. Insomma, il servizio ricalca tutta la tesi di Di Stefano, e nel resto della puntata, durante il faccia a faccia tra Ignazio La Russa e Nicola Latorre, nessuno contesta alcun punto della ricostruzione.

La mistificazione di Di Stefano, a Matrix è la realtà: gli indiani hanno manipolato il caso.

Una manipolazione delle prove di questa portata operata ad ogni livello dalle autorità indiane doveva essere giustificata da un movente eccezionale. Un movente politico, tratteggiato nei dettagli da Stefano Tronconi e ripreso acriticamente da Toni Capuozzo, senza il minimo fact-checking.

5. «LO HANNO FATTO PERCHÉ C’ERA LA CAMPAGNA ELETTORALE!»

Tronconi collega il chief minister del Kerala Chandy, in quota Indian National Congress (partito di governo presieduto dall’ “italiana” Sonia Gandhi), al ministro nazionale della Difesa A.K. Antony, il predecessore di Chandy nello stato dell’India meridionale.

Chandy, a causa di elezioni imminenti in Kerala, avrebbe chiesto ad Antony di pilotare contro i marò le indagini della polizia del Kerala, così da poter strumentalizzare la vicenda in campagna elettorale. Si profila quindi la tesi del rapimento di Latorre e Girone a fini politici e Antony – parafrasando le parole di Tronconi pronunciate durante la puntata di Mezzi Toni dello scorso 2 febbraio – sarebbe «la vera mente dietro il sequestro».

Anche Capuozzo, nel gioco delle parti di Mezzi Toni, ribadisce che la manipolazione era avvenuta «alla vigilia di elezioni che [Chandy] rischiava di perdere».

Peccato che non abbiano mai detto di quali elezioni si trattasse.

Come ricordato qualche tempo fa sul blog Elefanti a parte ospitato da East:

«Trattasi in realtà di elezioni supplettive della circoscrizione di Piravom, previste per il 17 marzo 2012. In Italia, attraverso il prisma lisergico della nostra stampa, le elezioni locali di una delle 140 circoscrizioni locali che compongono il Kerala si sono trasformate nelle elezioni locali del Kerala, condizione di incertezza politica che ha giustificato, agli occhi del pubblico italiano, il sospetto di manipolazioni della faccenda dei marò a fini elettorali.

Il partito dell’Indian National Congress (Inc), guidato nello Stato meridionale indiano da Oommen Chandy, governa il Kerala dal 2011 e con la storia dei marò italiani non ha mancato di mostrarsi un esecutivo a parole duro e risoluto, capace di fare la voce grossa contro le potenze occidentali per difendere i diritti del popolo. Tema centrale in India, ex colonia britannica dove il revanchismo post-indipendentista è ancora molto forte, specie negli strati sociali disagiati, e in particolare nel Kerala, roccaforte comunista per decenni dove nel 1957, per la prima volta al mondo, fu eletto democraticamente un governo comunista.

Oommen Chandy, a colloquio con De Mistura, il 23 febbraio, si mostra inamovibile. Chandy esclude ogni spazio per eventuali trattative, dopo che nei giorni precedenti ha descritto le azioni dei marò come un “omicidio a sangue freddo”, promettendo al proprio elettorato duri provvedimenti legali.

Le elezioni della circoscrizione le vince l’esponente dell’Inc, che porta a casa 82.756 voti contro i 70.686 dell’avversario del Left Front (l’unione dei partiti comunisti indiani), ma più che per tirare la volata al candidato a Piravom […] le parole di Chandy sono rivolte all’opposizione comunista e,  più in generale, alle opposizioni di governo, pronte a strumentalizzare ogni minimo favoritismo accordato agli italiani dal partito dell’Inc seguendo una strategia, in India, consolidata da anni.»

Secondo Tronconi e Capuozzo, quindi, l’India si sarebbe infilata in una gigantesca diatriba diplomatica… per un seggio vacante nella circoscrizione di Piravom dello stato del Kerala, stato abitato da 33 milioni di persone. L’India ne conta un miliardo e duecentodieci milioni, quindi il Kerala conta poco più del 2% della popolazione. A sua volta, Piravom ha 28.000 abitanti, quindi lo 0,002% della popolazione.

In proporzione, è come se l’Italia si fosse impelagata in una spinosa querelle internazionale per influenzare le elezioni a Cervesina.

Insomma, se nessuno ha mai approfondito il dettaglio delle «elezioni del Kerala», beh, adesso sapete il perché.

 

 

Redazione
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