I ponti crollano. Però…

Ariccia, Genova, Benetton e i patti col diavolo

di Guglielmo Ragozzino (*)

Antefatto. Il ponte di Ariccia, crollato nel 1967; tre passi nel delirio

Il nuovissimo cavalcavia sul Polcevera fu inaugurato a Genova il 31 luglio 1967. Da Saragat. Sei mesi prima, in gennaio, era crollato il famoso ponte di Ariccia, cittadina presso Roma, sull’Appia. L’aveva costruito – o finito – papa Mastai, a metà del diciannovesimo secolo, imitando i più arditi acquedotti romani a tre piani. Dopo quasi cent’anni l’avevano distrutto una prima volta gli aerei angloamericani (1 febbraio 1944). Fu subito ricostruito, ma un po’ “alla romanella”, come si dice nella capitale. Ci furono tre morti ad Ariccia, nel crollo del 1967 che avvenne di notte. La circolazione fra Roma e il Sud fu sconvolta. Se ricordiamo l’episodio non è per ricavarne amare riflessioni sulle antiche malefatte dei pontefici e dei pontieri; non erano errori degli architetti papalini ma una causa diversa, una questione di controllo successivo e di manutenzione, come si dice fra gli addetti ai lavori. Dal canto suo lavoce.info elenca (in un articolo di Angela Bergantino e Andrea Boitani ) sei recenti crolli di ponti, tutti Anas, fra 2013 e 2016.

Ricordare il ponte di Ariccia è l’occasione per citare un editoriale di Vittorio Gorresio apparso su La stampa il 20 gennaio 1967 con il titolo «Nessuno in Italia controlla i ponti» completato dall’occhiello «La legge li ignora». Gorresio faceva notare, con ammirevole buonsenso, lo scaricabarile fra le varie amministrazioni statali e locali, tutte maldisposte all’opera e alla spesa di manutenzione e riparazione.

Toby Dammit, protagonista del racconto «Non scommettere la testa» di Edgar Allan Poe, è il protagonista dell’episodio diretto da Fellini nel film collettivo «Tre passi nel delirio» (gli altri autori sono Malle e Vadim). Dammit, interpretato da Terence Stamp, scommette con il diavolo, secondo il racconto di Poe: nel film la scommessa consiste nel saltare al di là del Ponte rotto con la sua Ferrari: la lancia a tutta velocità, ma perde e ci lascia la testa che ha scommesso, tagliata da un cavo d’acciaio. Morale: anche i proprietari dei ponti scommettono la testa con il loro diavolo, che è il profitto: “niente manutenzione; non avverrà niente. Scommettiamo”?

 

La Gronda democratica

Il lungo ponte fatto da Riccardo Morandi per connettere le due autostrade esistenti a Genova, per Milano e verso la Costa Azzurra, collega anche la città borghese con il Ponente operaio, sorvolando case di abitazione, fabbriche, strade, binari ferroviari e il letto del Polcevera. Il nuovo percorso è però subito utilizzato anche dal crescente traffico pesante da e per il porto trasformandosi ben presto in un imbuto che non libera Genova ma la mette in altre difficoltà. Passano anni, s’intrecciano dibattiti sul che fare e all’inizio del nuovo secolo una decisione è ormai presa dall’insieme delle autorità pubbliche, Stato, Regione, Comune di Genova. E’ opportuno costruire una seconda via. Di fatto a Genova mancava e manca una strada-percorso che consenta di separare il traffico locale da quello di attraversamento della città, in modo analogo a quanto avviene per altre grandi metropoli. Le alture sovrastanti Genova rendono tale strada al tempo stesso difficile e in pratica indispensabile. Si sale e si scende dalle colline, oppure ci si mette in fila sul Morandi (si comincia a chiamarlo così).

Ecco che fra Comune, Regione e governo – con tanto di passaggio al CIPE – si decide (con una discussione che ha inizio nel decennio ottanta, e si completa trent’anni dopo) di dare il via alla Gronda, nome del percorso alternativo. Passano dunque anni e decenni. La mossa risolutiva del CIPE è rompere gli indugi e affidare il compito alla società che gestisce le autostrade ed è ormai privata, mantenendo il vecchio nome. Autostrade per l’Italia, cioè Aspi, si fa convincere dalla giunta Vincenzi, al governo della città. L’accordo prevede un percorso, a pagamento, di un’ottantina di chilometri; tre quarti dei quali in galleria. Il compito di trovare una soluzione che concilii i diversi interessi, ricade in particolare sull’assessore alla cultura Andrea Ranieri. Il progetto è aprire (o consentire) una discussione cittadina per scegliere un percorso, eventualmente diverso, alternativo a quello deciso dai dirigenti di Autostrade per L’Italia). L’Aspi accetta di aprire la discussione, insolita in Italia, dove nella sola Toscana, ricorda Ranieri, è prevista la discussione pubblica preventiva.

A Genova la discussione è solo parziale, perché una scelta zero – nessuna Gronda – non è più possibile, dopo che il CIPE ha già deciso, con l’affidamento ad Aspi. Si tratta di scegliere o addirittura cambiare il percorso genovese, individuando quello meno impattante. Per risolvere il compito, in inabituali modi democratici, Ranieri si rivolge a un esperto politologo, Luigi Bobbio che raccoglie un gruppo di persone competenti e ben accette che guidino il pubblico dibattito. La discussione ha luogo a Genova nel corso del 2010 e si svolge nei quartieri del Ponente, dove gli abitanti che cercano di evitare il disagio della Gronda si riuniscono e suggeriscono alternative. La scelta varia fra tre vie che solcano in vario modo i quartieri. La discussione è accesa; Ranieri nei suoi articoli, pubblicati da «Huffigton Post» e da «Inchiesta», osserva che i funzionari di Aspi che credono di cavarsela con un po’ di chiacchiere si trovano a mal partito: alcuni fra gli abitanti ne sanno più di loro e li costringono a studiare ancora. Quando vince il nuovo sindaco, Marco Doria, la Gronda non fa più parte del suo programma e viene accantonata, con poco o nullo dispiacere da parte di Autostrade.

L’opzione zero – che molti genovesi preferivano negli anni novanta e poi al tempo della grande discussione – contrasta con l’eccesso di traffico evidente negli ultimi anni, tutto convogliato sul Ponte. Questo non significa che se non ci fosse stata discussione o si fossero evitate le lungaggini, il Ponte non sarebbe caduto e le vite si sarebbero salvate. La Gronda comunque non sarebbe stata in funzione, nel 2018. Diverso l’esito con le necessarie manutenzioni, per tenere il Ponte nelle migliori condizioni possibili e comunque sotto controllo accurato.

 

Morandi spiega le manutenzioni necessarie che non si fanno perché costano

Parla l’autore. Da un po’ di tempo, da quando è iniziata la discussione sull’opera, molto prima del crollo, il viadotto sul Polcevera ha cambiato nome; per brevità o per spregio lo si chiama Pontemorandi. L’autore, Riccardo Morandi, era considerato allora un ingegnere di prima categoria, un formidabile innovatore ma anche, da un’altra parte della professione, un visionario pericoloso. A pensarla così forse era la sezione più conservatrice, esclusa dalle grandi opere dell’Iri che guidava lo sviluppo autostradale senza alternative: senza troppi concorsi né gare. Morandi era comunque un personaggio notevole, una delle poche persone del secolo da ricordare. La damnatio memoriae che gli è stata buttata addosso è ingiusta. Egli era un professionista qualche passo avanti agli altri; ma non si accontentava di questo come tanti archistar del giorno d’oggi. Dieci anni dopo la costruzione del viadotto sul Polcevera, Morandi – in un’intervista rintracciata nelle teche Rai da «Canale Cronaca Nera» – mostrava il suo grande buonsenso e il suo interesse per la città e per gli abitanti. «L’atmosfera salina della città e il forte vento di scirocco carico di umidità e di salsedine proveniente dal mare che è distante meno di un chilometro in linea d’aria, devono essere considerati fattori di rischio. L’aria di mare rischia di attaccare la struttura portante in acciaio con maggiore aggressività: occorrerà dunque una manutenzione scrupolosa e attentissima».

Poi rivolgeva l’attenzione all’Italsider, la siderurgia di Genova che incombeva sul Ponente: «Gli scarichi delle acciaierie andranno studiati e monitorati per verificare se e come interagiranno con la struttura del ponte e i suoi componenti. Anche questo diventa un fattore significativo». Infine parlava della sua opera, del desiderio che esistesse nel tempo e dei pericoli della corrosione: «Qualsiasi ingegnere o architetto sogna che le sue opere gli sopravvivano se non che siano addirittura eterne. Ma dobbiamo tutti essere ben consapevoli che il nostro lavoro è al servizio dell’urbanistica e dei cittadini; lavorare per finire sui libri o schiavi dei record non è serio. Il mio ponte è un’ottima costruzione che con la giusta manutenzione si rivelerà utile e duratura ma la corrosione è di fatto un pericolo per qualsiasi opera costruita con qualunque materiale». Ma la giusta manutenzione è mancata. E il ponte viene sottoposto a un eccesso di traffico: l’unico ponte in città.

 

Le autostrade passano di mano e diventano private

Gli anni novanta iniziano sostanzialmente con Tangentopoli – o meglio con il suo antefatto, l’esaurimento del patto chimico fra Stato e mercato, sotto forma di Eni e Montedison, con l’imprevista vittoria del primo e il passaggio all’Eni dell’Enimont, la società comune, in cambio di 2.800 miliardi di lire. La Procura di Milano capì che era venuto il suo momento e aprì il processo al mondo: quello alto, quello di mezzo e quello basso: partiti, grandi imprese, persone. Di conserva anche il capitalismo scelse la sua rotta: per salvare il salvabile bisognava rovesciare i rapporti di forza nel sistema di potere. La nuova linea era ricompattare il sistema privato, facendo restituire al mercato tutti i poteri capitalistici perduti. Lo Stato si sarebbe adattato; lo slittamento era simile a quanto avveniva in vari Paesi d’Europa. I soliti partiti chiusero bottega: la loro forza era solo apparente.

Lo Stato cominciò a vendere pezzi d’industria e di servizi e a eliminare interi sistemi di partecipazioni statali; senza considerare le banche, la svendita principale fu quella delle autostrade e più tardi dei telefoni. Il venditore – lo Stato – si dette da fare per trovare un acquirente, ma pochi erano disposti e la Borsa (quanto dire il mercato) era molto sospettosa. Dell’estero neanche parlarne, anche se si fecero svariati tentativi, come quello, rimasto famoso, del Britannia, il panfilo reale inglese affittato per metter a proprio agio il gran mondo e vantare agli ospiti, finanzieri e banchieri internazionali, le italiche e disponibili bellezze. Le decisioni in un primo tempo le prendeva per tutti Bankitalia e in particolare il governatore Carlo Azeglio Ciampi che avrebbe in seguito guidato tale politica direttamente come primo ministro, come ministro del Tesoro e responsabile dell’economia e infine presidente della repubblica. Decisivo l’apporto di Mario Draghi allora direttore generale del Tesoro.

Le autostrade furono vendute dall’Iri che aveva dato inizio alla loro costruzione alla fine del decennio cinquanta. Partendo da Milano, l’Autostrada del sole doveva arrivare a Roma e poi a Napoli. Era più di una via di comunicazione; era la modernità del Paese che prendeva vita. L’Iri aveva affidato un compito tanto arduo a Fedele Cova che per i punti critici si era rivolto a un gruppo di professionisti fra i quali spiccava Morandi. Era materia viva, Autostrade; una volta realizzata, era la colonna vertebrale del Paese, ma se l’ordine era di vendere, allora si sarebbe fatto. Non contava il prezzo che in effetti fu scarso; bisognava fare presto. Si trattava di mostrare al mondo la maturità capitalistica dell’Italia.

Quando la svendita ha inizio, alla fine degli anni novanta, in pratica c’è un solo compratore, la famiglia Benetton che nel caso assume il nome di Schemaventotto. Passa di mano il 30% del capitale di Autostrade per 2,5 miliardi di euro. Metà prezzo è pagato dai Benetton con soldi propri e l’altra metà, 1,2 miliardi, con soldi delle banche, in buona parte uscite anch’esse dall’Iri. La seconda fase qualche anno più tardi, è affidata a una Newco28 filiazione di Schemaventotto che compera il 54% del capitale per 6,5 mld. e fa cassa vendendo subito il 12%. Alla fine del decennio ’90 i presidenti del Consiglio sono Prodi prima e poi D’Alema, mentre ministro economico è sempre Ciampi e Draghi lo spalleggia come direttore generale del ministero. Il governatore di Bankitalia è diventato Antonio Fazio. La decisione di vendere – giusta o sbagliata che fosse – nasceva dal concerto di costoro.

Dopo essersi assicurati il controllo di Autostrade si sviluppa per i Benetton una fase finanziaria decisiva che ha il suo punto di forza nei caselli e nei pedaggi. Il controllo è esercitato da una catena di società: In testa Edizione, braccio operativo, probabilmente finanziaria di famiglia, è padrona di Sintonia che detiene le azioni di controllo della società operativa, Atlantia. Quest’ultima è proprietà di Sintonia ma solo per il 30% mentre altri grandi soci, rappresentati nel consiglio di amministrazione di Atlantia sono il Fondo sovrano di Singapore, nome d’arte Gic Pit con l’8%, il Fondo della Cassa di risparmio di Torino con il 5% e la Holding HBC cui fanno capo una decina di altri fondi e altre banche con un altro 5% complessivo. L’altra metà del capitale è distribuita nella finanza mondiale e Atlantia spiega volentieri che si tratta di capitali inglesi, europei, americani…

Vendendo le azioni di Atlantia, Sintonia fa cassa e si consente di investire negli aeroporti di Roma e di Nizza, in altre autostrade in Italia e in vari Paesi d’Europa nonché fuori continente, poi in catene di ristoranti per viaggiatori ecc per finire con il sistema autostradale rivale e parallelo spagnolo, Abertis. La finanza internazionale così collegata serve per ottenere il capitale per la diversificazione ma anche per rendere più forte e pressoché inaccessibile il potere di Atlantia e delle sovrastanti società dei Benetton. Per rendere ancora più sicura Autostrade per l’Italia Aspi, la base di tutta la piramide finanziaria, i padroni hanno scelto di venderne una parte 7% ad Allianz, ultrapotente assicuratrice tedesca e 5% a Silk Road, gruppo finanziario cinese dal nome evocativo.

Riassunta così la forza sorprendente della catena di controllo su Aspi occorre aggiungere un particolare: tutti coloro che hanno speso molto e si sono in qualche forma associati ai padroni di Aspi, aspettano fiduciosi di ricavarne profitti. Aspi è stata indicata come la gallina che produce oro, non a furia di uova miracolose ma a manciate di umili monetine, eurini, quelli dei pedaggi, raccolti nei caselli. C’è l’inchiesta del 2004 di «Report» condotta da Milena Gabbanelli. Risultava un divario eccessivo fra proventi dai pedaggi e spese per gestire le tratte autostradali. La domanda rimasta senza risposta era perché lo Stato – che ha fatto un così cattivo affare in partenza e poi dovrebbe parametrare i pedaggi al traffico – non limita gli aumenti dei pedaggi visto che il traffico è aumentato in modo imprevisto? Perché non impone almeno, da concedente delle autostrade, una manutenzione paragonabile a quella delle autostrade esistenti altrove in Europa? Ma forse lo Stato temeva e teme la possibile disaffezione dei soci stranieri di Aspi e di Atlantia. Quieta non movere et mota quietare.

 

Dati inverosimili

Scarsa voglia di fare manutenzione ordinaria. I dati ufficiali di Aspi-Atlantia sembrano inverosimili. Per la manutenzione ordinaria del Ponte Polcevera sono stati spesi 24 milioni di euro dal 1982 ai nostri giorni; per la precisione 24.610.500. Il 98% della cifra è stato utilizzato prima del 1999 quando le autostrade erano pubbliche. Abbiamo a che fare con due periodi di durata simile, come dire due metà tempi. Nel primo tempo la spesa è del 98%, nel secondo tempo del 2%. Il secondo tempo è quello amministrato da Atlantia. Per dirla in altri termini: nel primo periodo la spesa di manutenzione è stata di 1,3 milioni di euro all’anno, in tutto 24 milioni circa. Negli anni seguenti la spesa è precipitata a 23 mila euro l’anno per un totale – nei 19 anni fra 1999 e 2018 – di 470 mila euro. Riccardo Morandi si sarebbe rammaricato di una manutenzione così, tutt’altro che «scrupolosa e attentissima». D’altro canto, come turbare un flusso tanto imponente di auto, camion, rimorchi, tir? Come imporre rallentamenti e ritardi a Genova e a tutta la struttura economica del Nord Italia, al turismo ligure, alle famiglie? L’unica cosa da fare era scommettere, ogni giorno, la propria testa; scommettere con il diavolo che non sarebbe capitato niente.

(*) ripreso da sbilanciamoci.info

 

Redazione
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