I ribelli, la sconfitta, la propaganda

Fabio Troncarelli sul film «I sacrificati» di John Ford

Il 7 dicembre 1945, nell’anniversario di Pearl Harbour fu proiettato a Londra, per la prima volta, il film di John Ford «I sacrificati» (They were expendable, 1945). Doveva essere un film di propaganda, che eguagliasse il successo del best-seller dallo stesso titolo, apparso nel 1942, dedicato ai protagonisti della grande sconfitta statunitense nelle Filippine. Emergeva la figura di un eroe adatto a quel momento, il tenente John Bulkeley, che aveva salvato l’onore delle armi americane con il suo coraggio, riuscendo a imporre ad uno Stato Maggiore riluttante e conservatore la nuova tecnica della guerra con le motosiluranti, piccole e agili, capaci di contrastare il massiccio sfoggio di potenza giapponese. Gli Stati Uniti ritrovarono la fiducia identificandosi in personaggi come Bulkeley, in cui riviveva lo spirito individualistico dei pionieri, che non si arrendono mai e si battono da soli con ogni mezzo contro un mondo ostile dalle proporzioni immense.

È più che naturale che si pensasse di fare un film da questo libro. Altrettanto naturale che Hollywood e lo Stato Maggiore pensassero a John Ford come regista. Ma Ford non ne voleva sapere. Impegnato nella guerra vera in prima linea, provava un estremo disagio a tornare in borghese, a perdere tempo con il mondo fatuo di attori e di illusioni che pure era stata la sua ragione di vivere. Inoltre si sentiva in imbarazzo a dover realizzare un film scopertamente propagandistico che doveva solo esaltare un eroe senza macchia e senza paura.

Per più di un anno il regista riuscì a respingere le pressanti richieste di amici e produttori, finché per una strana «combinazione» incontrò a Londra proprio il protagonista del libro, John Bulkeley, trasferito sul fronte occidentale. Per una combinazione ancora più strana, Ford fu assegnato alla motosilurante di Bulkeley che si distinse in pericolose azioni di appoggio allo sbarco in Normandia. Le drammatiche ore passate insieme di fronte al pericolo e alla morte legarono i due uomini: Ford fu preso da grande ammirazione per il suo comandante, un uomo schivo e sobrio, addirittura infastidito dal successo presso l’opinione pubblica. Lui aveva fatto solo il suo dovere. E non chiedeva niente. Il regista si convinse. Bulkeley meritava un film. A Hollywood tirarono un sospiro di sollievo. Ed anche allo Stato Maggiore. L’operazione Ford-Bulkeley era andata in porto. I produttori e i generali sensibili alle necessità della propaganda si aspettavano naturalmente un film tronfio e retorico: un bel drammone ambientato nel Pacifico, con immancabile lieto fine che esaltasse la virtù bellica degli Stati Uniti. Ma Ford, come al solito, spiazzò tutti. E girò un capolavoro ispirato a tutt’altri sentimenti.

Il film è imperniato sul concetto di sacrificio. Bulkeley, con i suoi uomini, sono costretti dalle resistenze dei loro superiori e dalle obiettive difficoltà belliche a tirarsi sempre indietro e svolgere funzioni ausiliarie. Essi assistono quasi impotenti alla disfatta americana, nonostante il successo delle operazioni militari loro affidate. Alla fine, dopo essere stati privati delle motosiluranti, costretti a rinunciare alla loro identità di marinai e gettati sul bagnasciuga con un fucile in mano, sbandati in mezzo a sbandati, Bulkeley e il suo braccio destro debbono abbandonare i loro commilitoni. Tornano a casa perché finalmente lo Stato Maggiore si è accorto di loro e ha deciso di formare squadre di motosiluranti. Il trionfo di Bulkeley si vena così di amarezza: dovrà combattere la guerra facendo l’istruttore, abbandonando i suoi uomini al loro destino. Amaro e malinconico, il film non si raccomanda davvero come opera di propaganda. Invece esalta al massimo un tema fordiano che la guerra rendeva attuale: lo spirito di sacrificio. In una celebre sequenza questo atteggiamento viene espresso senza possibilità di equivoco. L’ammiraglio Blackwell, il superiore di Bulkeley (che nel film si chiama Brickley) dice al tenente che si rammarica di essere sempre tenuto da parte: «Ascolti figliolo. Io e lei siamo dei professionisti. Se l’allenatore dice “Sacrificatevi” noi ci sediamo in panchina e lasciamo che siano gli altri a fare punti… Il nostro compito è fare questo sacrificio». Realizzando questa celebrazione della donazione di sé, Ford piegava la materia bellica ai suoi fini e attraverso il ritratto dell’altruista e riservato Bulkeley ci offriva un altro eroe antieroico e antiretorico che si aggiunge alla galleria di splendidi protagonisti della storia dei suoi film, come il suo Lincoln.

Qual è la relazione fra il culto del sacrificio – con l’abnegazione sublime degli eroi fordiani – e il sacrificio disperato e romantico dei ribelli destinati alla sconfitta? Il legame tra sacrificio etico degli uni e il sacrificio fatale e ineluttabile degli altri è più forte di quanto si possa credere. Al di là dell’apparenza, al di là delle motivazioni razionali, la vocazione al sacrificio degli uni e degli altri nasce dalla sensazione profonda, disperata dell’impossibilità di uscire dalla prigione del proprio destino.

È questo che ci colpisce più di ogni altra cosa vedendo film come I sacrificati, Furore o Sfida infernale. Abbiamo l’impressione di assistere a una tragedia greca, in cui l’eroe è schiacciato nella morsa di eventi predeterminati che non possono avere altro esito. L’uomo può ribellarsi. Ma ciò che avviene lo sovrasta. Da questo punto di vista ha ragione Jean-Loup Bourget a criticare le interpretazioni di chi sottolinea eccessivamente la grandezza epica degli eroi fordiani, come Bogdanovich, che enfatizza la «gloria» e l’apoteosi insita nella «sconfitta» dei protagonisti di eventi comunque memorabili. Per quanto simili sentimenti possano esserci, sono nettamente subordinati al senso tragico delle vicende e alla struggente malinconia che ci prende mentre assistiamo.

Gli eroi della tragedia greca portavano una maschera. Questa maschera rendeva riconoscibile il personaggio. Ford è stato una persona grazie alla sua persona. Ha costruito la sua identità sulla base di una serie di schermi e di filtri che avvolgevano il nucleo più profondo e segreto della sua individualità. Di tutti questi strati quello che abbiamo ricordato ora è certamente il più profondo, che aderisce come una pelle alla carne viva. Il culto del sacrificio e la rassegnazione-disperazione davanti al proprio destino sono i due lati della maschera fordiana che maggiormente aderisce al volto nascosto. Quella maschera che si incolla talmente al viso da non staccarsi più. Eppure anche questo è un travestimento.

Che cosa ci sia dietro si può solo immaginare. O intuire se per un attimo qualcosa di ciò che è sepolto si rivela, come per incanto. Ford può parlare quanto vuole di sacrificio. Quello che ci lascia ancora oggi senza parole in un film come I sacrificati è una scena di ballo, una meravigliosa, misteriosa, seducente, commovente scena di ballo: una sublime «variazione sul tema» di questo straordinario artista che ci ha regalato le più belle scene di ballo della storia del cinema.

Dopo giorni e giorni di bombardamenti e di distruzioni, di ansia e di fatica nell’ospedale da campo, le infermiere dell’ospedale di Corregidor decidono di andare a ballare. Le vediamo allontanarsi infagottate in tute militari che offendono la loro femminilità. Ma ecco, per miracolo, le donne soldato ridiventano donne, con vestiti eleganti che frusciano davanti a chi guarda. A dire la verità guardare è impossibile. C’è l’oscuramento e tutto si svolge al buio. Eppure, costi quel che costi (al diavolo la guerra e la morte) giovani e vecchi, ragazzi e ragazze si lasciano andare al ritmo mesto, lento di un valzer che stordisce monotono e sentimentale. Tutti cantano sottovoce come se fossero dolcemente ubriachi, un coro appena stonato, all’inizio della serata in un bar, quando l’alcool ancora non ha fatto tutto l’effetto. Nell’ombra danzano le ombre. In queste figure senza forma, scintillano gli occhi, lampeggia un sorriso improvviso, qua e là, come stelle che tremano, appare e scompare la tenerezza, la confidenza.

In questa notte dove come brace i sensi si accendono e si smorzano, arriva timido e ruvido l’attore preferito di Ford, il maturo John Wayne che impersona Ryan, l’aiutante di Bulkeley, scontroso e impetuoso. Un attimo prima quest’uomo, inchiodato all’ospedale da un’infezione, si era scagliato contro il ballo e le infermiere, sfogando il malumore per la sua malattia sulla ragazza (Donna Reed) che in segreto desidera e da cui in segreto è desiderato. Adesso, come per scusarsi, compare – ombra tra le ombre – e unisce il suo sorriso timido allo scintillio dei sorrisi di chi danza. La ragazza lo vede: lo riconosce anche nel buio e sorride di un sorriso più intenso, con gli occhi che si inondano di felicità. Il suo cavaliere le sussurra qualcosa all’orecchio: è un buon amico del burbero ufficiale e ha capito che cosa sta per nascere fra lui e la ragazza. Si tira da parte. Ma il suo non è un sacrificio. È un atto cavalleresco, cortese, leale, nobile, gentile, pieno di sensibilità, di delicatezza. Come l’umanità dovrebbe essere tutta, per permettere agli uomini bruschi e vulnerabili e alle ragazze altere e sensibili d’incontrarsi, di conoscersi, di amarsi. Come in un sogno i due cadono l’uno nelle braccia dell’altro. E danzano. Niente al mondo è più commovente di questa coppia, di questo omone grande e grosso che tiene con la delicatezza con cui si stringe un cristallo la mano della ragazza piccola e leggera. Che danza un po’ goffo, un po’ massiccio e pare una farfalla d’ardesia che si accoppia a un’altra farfalla nell’aria: il volo dell’una e dell’altra diventano un solo volo.

Ombre tra le ombre, scivolano nell’ombra calda, profumata, sonora. Quando la musica incantata finirà, si siederanno su un’amaca, sospese in aria. Le teste si sfiorano e gli occhi aperti scrutano la luminosità del cielo. Le bombe illuminano in modo sinistro l’orizzonte. Sui visi protetti dall’oscurità indoviniamo l’angoscia. Ma gli occhi mesti si accendono lo stesso. Quella notte piena di stelle e di lampi ricorda le notti lontane della giovinezza, dell’infanzia, animate da bisbigli, da risa, dalla luce delle lucciole.

Ecco, se Ford è stato veramente se stesso, o meglio se Ford è stato veramente John Feeney, il ragazzo irlandese con l’anima troppo vulnerabile per poter essere esposta e costretta a uscire fuori di notte come un animale selvaggio, mai come in questo momento, in questo teatro delle ombre, si è rivelato a se stesso ed a noi, gettando la maschera.

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

Redazione
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Un commento

  • Ammazza che scordata! E che recensione! Profonda e analitica, appassionata e vibrante, me vado subbito a cerca’ er firm.
    “Mi chiamo John Ford e faccio western”.

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