IL CIMITERO DEI VIVI

(dagli Appunti da Letture del Pabuda)

Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta:

noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; – noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori.”   

Queste sono parole di Filippo Turati: le pronunciò alla Camera dei Deputati il 18 marzo 1904, in un discorso memorabile, che poi fu pubblicato in opuscolo sotto il titolo Il cimitero dei vivi. Le carceri italiane, cimitero dei vivi; erano così cinquant’anni fa, sono così oggi, quasi immutate. Alla fine di quel discorso il Turati, dopo aver descritto quelle prigioni che egli stesso, pochi anni prima, aveva esperimentate come recluso politico, si diceva sicuro che «i nostri figli, ne ho la convinzione, ricordando l’attuale sistema carcerario italiano, lo considereranno con quello stesso senso di orrore con cui noi guardiamo, quando andiamo in Castel Sant’Angelo, il carcere di Beatrice Cenci e le altre segrete del Medioevo …». Era troppo ottimista: i figli sono cresciuti, sono cresciuti i nipoti; ma il nostro sistema carcerario medievale è rimasto com’era. Anzi, sotto qualche aspetto, è  peggiorato; (…) perchè il passaggio del ventennio fascista ha deliberatamente portato nella disciplina dei reclusori, colla riforma della legislazione penale e dei regolamenti carcerari, un soffio di gelida crudeltà  burocratica e autoritaria, che senz’accorgersene sopravvive al fascismo.

(…) E tuttavia, anche se la condizione delle carceri è ricaduta a quella che era mezzo secolo fa, vi è oggi nella vita pubblica italiana un elemento nuovo, che potrebbe essere decisivo per una fondamentale riforma di esse. Se nel 1904 gli uomini politici che avessero esperienza della prigionia si potevano contare nella Camera italiana sulle dita di una mano, oggi nel Parlamento della Repubblica essi sono certamente centinaia; solo nel Senato siedono diverse diecine di senatori di diritto che hanno scontato più di cinque anni di reclusione per condanna del Tribunale speciale. Mai come ora è stata presente nella nostra vita parlamentare la cupa esperienza dolorante della prigionia vissuta; se neanche questa volta si facesse qualcosa per cominciare a portare un po’ di luce di umanità  nel buio delle carceri, non si potrebbe addurre questa volta la comoda scusa burocratica della mancanza di precise informazioni!

Nel 1904 Filippo Turati propose una commissione di inchiesta: «se volete una commissione efficace in questa materia non la dovete comporre di consiglieri di Stato o di eccellenti burocrati, pieni di esperienza legislativa o regolamentare, ma dovete cercare delle forze vive, degli apostoli veri, che abbiano il coraggio di squarciare i veli, di mettere a nudo tutte le vergogne del nostro sistema carcerario». Ma il ministro del tempo si oppose alla proposta; gli pareva una menomazione della sua autorità  di governo. Una inchiesta analoga è stata nuovamente proposta nel 1948. Questa volta la proposta, sia pure in una forma un po’ attenuata, è stata accolta da un guardasigilli di più largo ed umano respiro. La nomina di una commissione è stata promessa: essa potrà avere il vanto di esser composta in gran parte di deputati e di senatori ex reclusi, che quando andranno a visitare le prigioni vi ritroveranno sulla soglia l’ombra del loro dolore e la guida scaltrita della loro consapevolezza. Intanto, in attesa che la promessa sia mantenuta, si cominciano a radunare in questo fascicolo le testimonianze di coloro che hanno sofferto questi inumani orrori: che son motivo di fierezza per chi ora può ricordare vivo d’averli affrontati in difesa d’un’idea; ma che sarebbero, per quel governo che conoscendoli continuasse d’ora innanzi a non far nulla per portarvi rimedio, motivo di infamia.

(da: Piero Calamandrei, Introduzione al fascicolo “Bisogna aver visto” della rivista Il Ponte, anno 1949)

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Pabuda
Pabuda è Paolo Buffoni Damiani quando scrive versi compulsivi o storie brevi, quando ritaglia colori e compone collage o quando legge le sue cose accompagnato dalla musica de Les Enfants du Voudou. Si è solo inventato un acronimo tanto per distinguersi dal suo sosia. Quello che “fa cose turpi”… per campare. Tutta la roba scritta o disegnata dal Pabuda tramite collage è, ovviamente, nel magazzino www.pabuda.net

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