Il cinema dei Fratelli Coen e dintorni…

sogni, entusiasmo, follia, dolore

di Fabio Troncarelli

Fabio-aveCESARE

Tanto tempo fa, in un’altra vita, ho fatto una lunga intervista a Martin Scorsese. Era appena uscito «New York, New York» e lui non vedeva l’ora di sfogarsi, di confessare a qualcuno che aveva dovuto tagliare i dieci minuti migliori del film: dieci minuti di pura nostalgia e di amore per il cinema, nei quali aveva girato scene di ballo degne di un film di Stanley Donen e di Vincent Minnelli, raccontando, con una serie indiavolata di balli e canzoni che strizzavano l’occhio alle vecchie commedie musicali del Cinquanta, il trascorrere degli anni in cui i protagonisti crescono e invecchiano, come se ogni titolo di film fosse il nome di un anno perduto, un anniversario da ricordare, da celebrare.

Qualche mese dopo ebbi la fortuna di vedere la scena tagliata, lo stuzzicante fuori programma di un cineclub romano che rivelava la vera natura di «New York, New York». Su quale fosse la sua vera natura non avevo dubbi: Scorsese non era riuscito a trattenere i singhiozzi ricordando i suoi pomeriggi da bambino a vedere e rivedere quei film incantati, luminosi, magici; gli stessi singhiozzi dei suoi genitori quando avevano visto per la prima volta «Roma città aperta» e avevano rivisto l’Italia abbandonata ridotta in rovine ma ancora viva, tragica, furente. Ecco, per lui i musicals di Leslie Caron e Gingers Rogers non erano solo film di evasione: erano ore e ore di sogno, di entusiasmo, di follia; un narcotico per non ricordare di essere il figlio di emigranti senz’arte, né parte, per illudersi che anche lui, il picciotto del Bronx, forse ce l’avrebbe fatta come il picciotto Frank Capra e allora la vita sarebbe stata musica, armonia, perfezione. Mi diceva commosso: «Ho girato quelle scene da ballo, quelle canzoni con le troupes di una volta. C’erano tutti: vecchi tecnici del suono; vecchi maestri di ballo; vecchi musicisti; vecchi scenografi; vecchi costumisti. E pure vecchi costumi, ripescati chissà dove. Li abbiamo ricuciti addosso ai ragazzi e alle ragazze che non erano ancora nati quando le loro madri e i loro padri li portavano. Come siamo stati fieri e felici!».

Il risultato era degno di tanto entusiasmo: davanti ai nostri occhi riviveva la vecchia Hollywood, piena di ritmo, di energia, di emozione. Sì, è vero, alla fine il regista aveva dovuto buttare via questa meraviglia, perché faceva a cazzotti con la storia dolce e amara della coppia piena di conflitti di «New York, New York». Aveva girato immagini troppo belle, troppo esuberanti, troppo vitali che rischiavano di “rubare la scena” alla malinconia così in punta di penna, così “Grenwich Village”, così “anni Settanta” dei due protagonisti e perfino di fare ombra al trionfo finale di Liza Minnelli, che canta a squarciagola New York, New York e seppellisce per sempre la vecchia versione dolciastra di Frank Sinatra. Eppure quelle scene restavano nel cuore. Uno si chiedeva se non avesse ragione il picciotto cresciuto troppo in fretta: se gli anni di angoscia e di paura, quei miserabili anni Cinquanta in cui i ribelli senza una causa avevano dovuto imparare a sopravvivere senza una ragione, non fossero stati veramente l’apice della gloria del Rinascimento Americano e se perdersi la prima di «Un americano a Parigi» fosse stato grave come perdere la prima degli «Uccelli» di Aristofane.

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. L’operazione-nostalgia ha portato fin troppi frutti a chi ha speso fin troppi soldi per deliziare i troppi nostalgici in circolazione, a volte estasiandoli con remakes belli come gli originali e a volte, francamente, annoiandoli con una pignoleria filologica degna di miglior causa. A ogni modo, per quanto mi riguarda, credevo di non avere altro da scoprire e di avere perduto ormai la freschezza di quel primo struggente incontro con le citazioni dei musicals di Scorsese, destinate per natura a essere soppresse, perché troppo intime, troppo vere. Beh, lo volete sapere? Mi ero proprio sbagliato. Dopo avere visto «Hail Caesar!» dei fratelli Coen sono rimasto veramente di sale. I Coen hanno girato scene degne della vecchia Hollywood con una tale bravura da fare impallidire Scorsese e tutti i suoi collaboratori. E, per dirla tutta, hanno compiuto un’impresa memorabile che è stata tentata nella cultura moderna solo da personaggi fuori del comune come Igor Stravinsky. Il loro film somiglia al celebre «Rake’s progress» del musicista russo: praticamente è tutta una citazione, quasi un centone, fatto di frammenti che imitano scopertamente frammenti di opere del passato. Eppure da questa ragnatela di imitazioni non esce fuori un calco freddo e accademico, ma invece un’opera originale, vibrante, amara e appassionata, nella quale non pensi neppure un minuto che tutto è stato già detto. No, per i fratelli Coen non è vero quello che diceva Mallarme: «la carne è triste e ho letto tutti i libri». E’ vero invece che se hai letto tutti i libri sei stato ferito nella carne viva e la tua ferita non finisce mai di sanguinare.

Procediamo con ordine. E raccontiamo il film in due parole. La storia si svolge negli anni cinquanta a Hollywood, quando il sistema degli studios di una volta sta per tramontare e l’astro della televisione brilla all’orizzonte insieme alla luce sinistra della bomba all’idrogeno che per i “veri americani” è, come ci viene detto esplicitamente, l’immagine trionfale del futuro. In questo mondo avviato alla distruzione spicca, solitario, cocciuto e miserabile, un piccolo funzionario di una grande casa di produzione che non conosce riposo. Il suo lavoro è questo: se c’è una rogna bisogna risolverla, a costo della vita, perché the show must go on. Ammirati da tanta ostinazione, seguiamo le patetiche avventure e disavventure di questa figuretta uscita da un film di Billy Wilder e scivoliamo estasiati da uno studio all’altro, assistendo a scene tipiche dei film di quei tempi, rifatte con una perfezione che rasenta il prodigio: in mezzo a una piscina, dove rivive la gloria dei balli nell’acqua di Esther Willams e delle sue sirene; in groppa a un cavallo al galoppo tra spari e capriole in un western mozzafiato; perduti fra gli smoking e i vestiti di raso dell’alta società in una commedia sofisticata; stravaccati in una bettola dove meravigliosi marinai ballano meglio di Nureiev. E poi naturalmente eccoci in mezzo ai “rossi” che popolavano gli anni Cinquanta: quei cospiratori di lusso, che in una villa spettacolare hanno fondato una cellula del partito comunista americano e sognano la Rivoluzione insieme a un rimbambito Marcuse (sì, proprio lui!) che discetta di “dialettica” e “antidialettica”, schioccando le labbra come se parlasse di sauce bernaise e di champagne.

I rossi rapiscono un attore: è un perfetto cretino ma è una grande star di Hollywood e sta girando una porcata degna di Cecil De Mile, niente meno che la storia di Gesù che può commuovere grandi e piccini e fare incassi da record per tirar fuori la produzione dalla crisi in cui è sprofondata. L’attore fa la parte di un generale romano che alla fine si converte: viene rapito l’ultimo giorno di riprese, quando deve recitare la scena decisiva, il monologo della sua conversione davanti alla croce, che farà rivoltare le viscere degli spettatori.

Inutile perderci nei dettagli del tragicomico rapimento e delle sue conseguenze. Il film fila liscio come l’olio e coinvolge dall’inizio alla fine. Tutto ci viene scaraventato in mezzo agli occhi in una girandola che fa pensare a un Luna Park mostruoso, dove il divertimento è tirare palle di stoffa contro il passato e prendersi una rivincita contro il vecchiume, mettendolo alla berlina con una parodia scintillante. Ecco, dicono i Coen, questo è il mondo dei nostri padri. Volevano farci sognare. E sapevano sognare solo sogni miserabili. Li sappiamo a memoria i loro squallidi trucchi. Talmente a memoria che possiamo rifarli alla perfezione meglio di loro. Ma sono sogni grotteschi e ridicoli. E chi ha nostalgia per questa roba è anche lui grottesco e ridicolo. Non sono sogni. Sono carta straccia

Ma questa è solo l’apparenza. Guardiamo meglio il film. Ascoltiamo con attenzione i dialoghi strampalati. Scopriremo che dietro il riso c’è la disperazione. La disperazione perché nessuno sogna più, neppure i rivoluzionari da strapazzo che comunque almeno un sogno credibile ce l’avevano. No, no. Tutto questo mondo è solo una fesseria. Lo dice con tanta bonomia, con tanta serena convinzione il rappresentante di una compagna aerea che offre all’ometto testardo e cocciuto un lavoro “serio” e ben pagato migliore di questo pseudo-lavoro in mezzo ai matti e ai falliti. Il futuro, gongola l’uomo “serio”, è la bomba all’idrogeno: la potenza degli Stati Uniti che trionfano sui loro nemici veri o immaginari e dominano sulle macerie che hanno creato, spazzando via, sogni, illusioni e stupidaggini degne solo di ragazzini ingenui

La disperazione sta in questo. La fabbrica dei sogni produce sogni e sonno solo perché gli spettatori prendono un sonnifero. Non è un sonno che rilassa. E’ solo una droga sotto mentite spoglie.

Tutto quello che si svolge davanti ai nostri occhi è una crudele illusione. I piccoli esseri che si affannano sullo schermo sono tali e quali alle piccole vite che si affannano senza ragione nel nostro mondo assurdo. Per questo anche se si ride fragorosamente nel film, c’è poco da ridere in ultima analisi. Il mondo dei Coen è una landa desolata. Non è un Paese per vecchi, come recita il titolo di un loro celebre film, rubato a un verso di Yeats. In fondo non è un Paese per nessuno. E’ stato creato da un dio crudele e spietato.

Eppure, senza darlo a vedere, i due cinici e brillanti registi insinuano qualcosa di diverso. Qualcosa che viene fuori di sguincio, quasi senza volere, magari in una parola di troppo, buttata lì per caso. Come quando a un certo momento qualcuno dice che i film consolano «la gente stremata» . “Stremata”. Disperata. Sola.

In Italia Leonard Redbone è poco conosciuto. Ma in Canada e negli Stati Uniti tutti conoscono quest’omino con la paglietta e gli occhiali scuri, che canta sempre ubriaco, con un filo di voce così struggente sempre e solo canzoni di altri tempi. Ascoltatelo quando sussurra «Moonlight bay». Era la canzone di «Pretty Baby» di Malle. La canzone della “età dell’innocenza”, dell’America di Edith Warthon e di Henry James proiettata verso il futuro; la nenia che addolciva la vita del pubblico di allora e che avrebbe consolato perfino una piccola prostituta destinata sin da bambina a essere una maîtresse americana, a non potere mai sognare o a fare solo sogni miserabili e grotteschi. Redbone ce la mormora disperato e ci suggerisce che quel mondo lì, il mondo dei nostri padri e dei nostri nonni, in cui si cantavano le canzoni dolci e si faceva l’amore al chiaro di luna è tramontato per sempre e oggi non possiamo resuscitarlo neppure se cantiamo le stesse canzoni. Ecco, i Coen fanno qualche cosa del genere. Nel momento stesso in cui negano ogni speranza ci fanno sentire un affetto acerbo e desolato, come direbbe Leopardi, una disperata solidarietà con chi non ce la fa, con chi non ce la farà mai a sognare.

So bene che quello che dico può sembrare strano. I giornali sono pieni di recensioni esilarate del film e sostengono che si tratta di puro divertimento, anche se poi molti si chiedono che cavolo di divertimento è questo e confessano a mezza bocca la delusione per non avere rivisto il sequel de «La folle storia del mondo» o qualcosa del genere: uno spettacolo burlesco, una parodia dei film in costume, insomma tante belle risate, magari un po’ acide e corrosive come sono sempre i Coen, ma insomma una cosa divertente che mette allegria e basta. Invece il ghigno dei Coen mette i brividi. E le loro citazioni perfette di un passato da prendere in giro, su cui ci fa tanto comodo sorridere, non mettono il buonumore: magari ci fanno ridere fragorosamente, ma la risata è troppo fragorosa per rilassarci. Dopo, quando smettiamo di ridere, ci resta l’amaro in bocca. E’ un enigma inquietante . L’ombra di un fossile che forse è estinto e forse invece è la prova che gli alieni sono veramente scesi a visitarci al tempo dei dinosauri e dei draghi. Lo si capisce perfettamente nel bel mezzo del film: insieme a un ragazzone che fa il cow boy nella vita e nei film, entriamo per vedere un suo capolavoro: «The old lazy moon». Era il titolo di una canzone di Roy Rogers, soprannominato «Il re dei cow boys», che ha afflitto generazioni di spettatori dal 1951, girando valanghe di film insieme al fedele cavallo dorato Trigger e al suo cane lupo Bullett, per sbarcare felicemente alla televisione e infliggerci ancora 101 episodi del «Roy Rogers show» fino al 1957. Beh, il ragazzotto che fa il cow boy è un bravissimo Alden Ehrenreich che dietro la sua faccetta da timidone dell’Ovest cela una rigida educazione all’ebraismo ortodosso duro e puro: ma non si sente affatto a disagio nei panni pittoreschi che indossa (magia dell’arte!) e si affanna a sedurre con la baldanza di un formichiere una brunetta tutta rotolini di ciccia, che va in estasi se può battere le ciglia al ritmo delle ali di un colibrì e scatenarsi in balli sfrenati con una gonna di banane e un’orchidea tra i ricci in film che rifanno il verso a Isa Miranda e ai «Tres caballeros» di Walt Disney. Ecco questi due sfigati – lui così imbranato che dice sempre e solo «Porca vacca!» pure quando sussurra paroline tenere e lei con le guance così paffute che pare abbia ingoiato un ananas – vanno a vedere un western in cui il ragazzone è l’eroe, sperando che il buio favorisca qualche timido approccio. Entrano nella sala che si è fatta buia e davanti ai nostri occhi si accende misteriosamente lo schermo azzurro. E’ tutto finto, tutto idiota, tutto assurdo, come è assurda la luna finta in un cielo finto, «luna di marmellata» direbbe Paolo Conte. Eppure… In quell’attimo in cui entriamo davanti ai nostri occhi non c’è una ridicola, squallida sala di proiezione. Siamo nel «Cinema a New York» di Edward Hopper. Per un attimo. E fra un attimo vedremo «I due attori» sempre di Hopper che vengono verso di noi su uno sfondo azzurro, E quella Luna, quella luna che pare così stupida, non è quella di «La vita è meravigliosa»? Quella che George Bailey offre alla sua fidanzata dicendole: «Che cosa vuoi, Mary? Vuoi la luna? Se la vuoi, io la prenderò al laccio per te». In fondo il ragazzone timido prende proprio al laccio il dito della sua polposa Isotta, usando uno spaghetto per lazo! Allora, se le cose stanno così, se il gioco delle citazioni e delle imitazioni ci spiazza e ci fa vedere tra le righe il contrario di quello che vediamo in apparenza, allora l’amore finto e ridicolo tra i due ridicoli personaggi è più vero del vero e ci fa venire le lacrime agli occhi perché è l’amore-illusione dei nostri padri, delle persone ingenue, senza cervello, senza capo né coda che hanno tirato la baracca in questo mondo di pazzi, facendo la loro parte mentre tutti perdevano la ragione. E sapete che vi dico? Che quando il cow boy si mette a cantare nel film la sua zuccherosa «Old lazy moon», cavallo di battaglia del cavaliere senza macchia e senza paura Roy Rogers, ecco io sento tanta tenerezza; credo a quelle parole assurde, credo che il falso sia vero, più vero del nostro vero falso e orribile. In fondo è quello che penso anche quando il protagonista del film, ottuso e rigido, ma ostinato e leale, come un vero rabbino anche se è un cattolico fottuto, quando quest’ometto d’acciaio con la testa piena di segatura rifiuta montagne di danaro per lavorare nella compagnia aerea che spasima per la bomba all’idrogeno e per il trionfo maniacale di militari e tiranni. Quando quell’ometto dice: «No grazie!» e sembra Bartleby lo scrivano, che con un filo di voce mormora «Preferisco di no!» ed è l’ultimo rantolo di un morente che non ha ancora perduto la capacità di rifiutare il Pensiero Unico, io dico che dovrebbe venire giù il loggione, come davanti a una carica del Settimo Cavalleria!

Viva i fratelli Coen! Viva la loro amarezza spietata, che non fa loro rinnegare secondo la più pura tradizione ebraica il rispetto per “l’ultimo dei giusti”, anche quando è uno Schlemil, un eterno perdente, che ricorda tanto Jack Lemmon. La loro non è nostalgia e neppure parodia. Per questo è inutile cercare il burlesco dove non c’è. E neppure bollare la loro struggente fedeltà alla poetica del freak is beautyful come una frivola rievocazione del passato, sulla scia dei film del genere «Com’eravamo». Altro che nostalgia! Per i Coen il passato è una fonte di tagliente disperazione, perché i suoi fallimenti e la sua illusorietà, travestita da magica illusione, sono gli stessi di chi vive nella illusorietà del presente in questo mondo, pieno di stupida ferocia .

Per dirla in due parole: lo sappiamo benissimo che in questo mondo che fa schifo a Dio siamo stracci coperti di stracci. Ma questi stracci sono il costume di scena con cui l’ultimo guitto, l’ultimo Dulcamara del pianeta può sussurrare le ultime parole e sputare tutto il suo veleno uscendo tra i fischi per andare a morire ammazzato. Ma crepa con tutta la dignità e la sua malinconia stretta, stretta in pugno, anche se ha i brividi per la febbre. Solo, spigoloso, antipatico, struggente come un rabbino che ha perduto la fede, l’eroe dei fratelli Coen si avvia verso il suo destino. Che abbia perduto la fede lo testimonia, beffarda, la scena in cui Clooney immola la sua stupida presa di coscienza filocomunista e recita un roboante pentimento davanti a Gesù che somiglia ai pentimenti di quelli che confessavano il loro comunismo alle jene del Maccartismo. Al momento giusto il guitto senza dignità si dimentica la parola chiave «fede» e la sua confessione strappalacrime è rovinata per sempre, come è rovinata per sempre la scena girata a vuoto. Ecco, per questo atto mancato, per questa dignità indegna, che nessuno ricorderà se non per scuotere la testa, per questa spietata malinconia l’unica cosa viva nell’aridità che ci assedia da ogni lato, bisogna essere grati ai fratelli Coen, e prima di chiudere gli occhi per sempre, vorremmo chiudere gli occhi a loro, con una carezza e cantando una canzone per farli addormentare, anche se la canzone parla di una luna di marmellata… che ci fa sorridere per mascherare meglio quanto ci fa piangere.

 

Redazione
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Un commento

  • Daniele Barbieri

    Mi schiero con Fabio.
    Condivido analisi e commozione. Qualche lacrimuccia, un po’ di ghgni, molti ululati per festeggiare la mia approvazione e felicità.
    Gran film.

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