Il dolore fisico e la malattia diventano…

occasioni di cambiamento?

di Sergio Mambrini (*)  

Ci possono essere periodi brevi nella vita di una persona che concentrano in sé tutte le domande esprimibili in un completo arco vitale. Allora diventa un esame difficile da sopportare, superabile soltanto con risposte autentiche e non di circostanza. Eppure, di fronte a certe questioni, riuscirà complicato esprimere un parere preciso e giusto, perché ogni essere umano si confonde e può perdersi nella vastità dei significati concettuali di tali misteriosi e imperituri quesiti. Tale difficoltà costringerà l’individuo a cercare un chiarimento nella propria coscienza, a trovare un’interpretazione possibile in tutte le manifestazioni sociali, in ogni momento successivo in cui gli è donato di vivere la sua pur breve esistenza.

E’ come se sulle spalle portasse uno zaino, che, di volta in volta, lo rassicura con il proprio contenuto e nello stesso tempo lo tormenta col suo peso. Da lì in poi prenderà forma la sua vera e intima rivoluzione, che potrà scaturire solamente nella profondità del proprio animo, se ne sarà capace, se ne avrà il coraggio, se sarà fortunato di possedere le armi della volontà, della curiosità e l’amore sufficiente per sopportare la misteriosa fatica del personale radicale cambiamento. L’unico veramente necessario. Questo momento tormentato e spiacevole, eppure importante, crudele e angoscioso ma molto umano, per Giorgio era appena arrivato. Un male oscuro tentava di strozzargli il corpo, soprattutto la parte sinistra del collo, per dilagare all’interno della gola, sul torace e avvinghiarsi infine attorno all’orecchio. La febbre alta lo accompagnava la notte senza confondergli le idee. Fu la sua fortuna. Da quella sofferenza imparò l’azione giusta. Trent’anni dopo, o forse più, mi raccontò la sua riflessione notturna.

– Il dolore fisico, materiale e grossolano è un aspetto del fenomeno. L’altro tormento è più mentale, immateriale. Però sono entrambi facce di una stessa medaglia e, non sempre, si riesce a distinguere la differenza tra i due elementi, perché vivono in una relazione fra loro in continuo mutamento.

Per aver coscienza sia del corpo sia della mente, quindi del proprio destino, si deve afferrare il senso di questa relazione. Credo che sia il nocciolo del problema per dare anche un significato ai gesti, alle parole, all’azione e, in definitiva, al proprio pensiero. In questo modo s’impara quali sono i limiti di spazio e di tempo entro cui si può governare la vita, ovviamente per quello che dipende da noi stessi.

Innanzi tutto si deve capire cos’è il dolore, per quale ragione germoglia, da quale fatto ha origine.

Accidentalmente, il corpo è una macchina molto semplice ma, nello stesso tempo, anche molto complessa, più di un qualsiasi altro meccanismo pensato o costruito. E’ paradossale ma è così, si deve accettarlo.

Il corpo possiede la mobilità in ogni direzione, vive e si riproduce attraverso un lavoro continuo e costante degli organi, trasforma l’ambiente ed inventa oggetti mediante il pensiero e l’azione, riuscendo, anche, ad avere coscienza di sé. Il suo funzionamento perfetto segue le leggi imposte dalla natura, facili da percepire: la vita e la morte, la salute e la malattia si susseguono palesi, senza sosta ed interruzione.

Lo scambio di informazioni tra il cervello e la più lontana cellula di un dito del piede è regolato sicuramente da qualcosa, ma da cosa? In che modo si può farcela ad arrivare alla fine della vita nel momento giusto, stabilito dal personale orologio fisico, e non prima?

Si sa che quando si sgarra dal corretto stile di vita, previsto dalla natura, non si cessa di vivere immediatamente ma si viene avvertiti dalla malattia che il proprio comportamento è sbagliato. Lei rappresenta sia la capacità di reazione e di controllo del proprio stato sia la flessibilità dell’intero sistema. Senza malesseri non ci si accorgerebbe mai se l’organismo non marcia al meglio. In poco tempo, se si continuasse a compiere errori, anche minimi, si arriverebbe alla fine della vita senza percepirne il motivo, in maniera inconsapevole. Mi pare evidente che pure la malattia passerebbe inosservata, se non fornisse segnali visibili e sensibili dello “stare male”. Senz’altro il più evidente e drammatico è il dolore, ma se ne possono fiutare anche altri più deboli, come la mancanza d’appetito, la febbre, l’insonnia, la stanchezza, che però si accettano e sopportano con pazienza e autodisciplina. E’ chiaro che non mi riferisco ai danni irreversibili procurati al corpo prima della nascita, ma solo a quei malanni che provochiamo a un essere sano in partenza.

E’ proprio il dolore che si cerca di schivare come un parente noioso, e per evitarlo, a volte, non si risparmiano i mezzi e le risorse. Certe medicine rispondono egregiamente a ogni desiderio individuale di eliminare la sofferenza, o almeno di limitarla ma, il più delle volte, usandole s’indebolisce ulteriormente l’organismo invece di rafforzarlo. Agendo in questo modo si rischia di confondere l’effetto con la causa. E’ vero, si lenisce il dolore, perché si crede che la sua presenza indebolisca, mentre non è altro che l’effetto finale di una causa primaria, rilevabile in errori precedenti che, a loro volta di sicuro, hanno avuto origine da qualche personale comportamento sbagliato.

In definitiva la malattia con il dolore, suo intimo alleato, rappresentano, nello stesso tempo, sia un preciso ed evidente avvertimento, sia il rimedio stesso agli errori commessi. Per ritrovare la salute, si deve assecondare la propria malattia, invece di combatterla, ostacolarne lo sviluppo e la sua benefica evoluzione. Bisogna capire che è molto importante darsi da fare per la salute e non contro il dolore e la malattia.

Questa scelta però non deve impedire di accettare i comportamenti diversi di altre persone. Purtroppo non c’è, in tutti, sempre una visione così ottimistica e lungimirante delle ingarbugliate faccende della vita. Non si devono giudicare come sbagliati gli atteggiamenti diversi, perché, anche se a volte la medicina interviene per salvare il salvabile, cioè…… per evitare almeno il dolore, può essere la giusta risposta sensata, cui tutti dovrebbero adeguarsi con modestia, per alleviare molte inutili sofferenze con tutti i mezzi disponibili, evitando, però, di accanirsi contro la malattia in maniera sconsiderata, accettando la fine della vita come limite umano e naturale.

Non è la malattia il nemico, piuttosto siamo noi stessi con le nostre abitudini sciagurate, le indecisioni che ci impediscono di agire, la pigrizia quotidiana che ci obbliga ad abbassare il livello di qualità della vita. Il nemico è nel nostro atteggiamento mentale, è dentro di noi e ci divora. Non bisogna ridursi a una esistenza misera e monotona, perché il corpo seguirebbe ciecamente la coscienza offuscata.

La malattia che mi è capitata era inevitabile, visto il modo caotico con cui, personalmente, ho vissuto la giovinezza. Dovevo reagire con sapienza al mio stato, per modificare e correggere il modo con cui vivevo. La giustezza del dolore sta nel suo parlarci da amico per migliorarci. Ci vuole tempo. Giorno dopo giorno, mi sono impegnato in un lavoro paziente e coraggioso, allo stesso tempo, semplice e difficile.

Non devi temere l’ignoto. Solo sperimentando su di te l’approccio giusto, potrai dimostrare alla tua coscienza che valeva la pena provare un’altra strada.-

Forse non ci crederete, ma le parole di buon senso di Giorgio funzionarono come una flebo per il mio giudizio. Da quel giorno guardo con sospetto ogni pasticca, pratico la resistenza consapevole al dolore, studio la mia personale natura anche attraverso l’esperienza. Ancora oggi Giorgio mi aiuta. Quando sono incerto, quando il coraggio si trasforma in timore, poi in paura, lo chiamo. Diventa la mia medicina, simpatica e benevola. Con lui vicino ogni angoscia scompare.

(*) Sergio Mambrini è autore di «Fango nero» (recensito in blog). Nel 2014 uscirà un suo libro di «proposte, consigli e ricette per una cucina più naturale». Questo è il suo quinto eco-racconto in blog e rimanda ai personaggi di «Fango nero» (db)

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