«Il fiume»: ricordando Jean Renoir

di Fabio Troncarelli

Il 12 febbraio 1979 Jean Renoir moriva a Beverly Hills. Moriva lontano dalla sua Parigi: nell’America che aveva sempre odiato e da cui non era capace di staccarsi, come un marito infedele, attaccato a una moglie che esiste solo di nome e non di fatto. Perchè un uomo come lui, uno dei più grandi registi mai esistiti, il figlio di uno dei più grandi pittori mai esistiti si era ridotto così, come il più miserabile degli adulteri? Sarebbe facile guardando i suoi vecchi film trovare tanti personaggi che gli somigliano: tanti mostri che tali non sarebbero mostri ma sono costretti a esserlo; costretti e stretti da catene inesorabili, quelle del Fato.

Il destino di Renoir somiglia ai suoi personaggi che diventano criminali senza volerlo, come il protagonista di «La cagna» o di «L’angelo del male».

Jean Renoir con il padre Pierre-Auguste Renoir

Ma non è di questo che voglio parlarvi. Se mi permetto di farlo e di dire ancora due parole su un regista come Renoir è solo perché quando mi è ritornata in mente la sua immagine, inciampando come per caso nella data della sua morte, è emerso il ricordo di un suo film che pochi ricordano ma che è un capolavoro (come hanno detto, fra gli altri, Martin Scorsese e Peter Bogdanovich): si tratta di «Il fiume», girato completamente in India, con molti attori presi dalla strada, senza grandi mezzi finanziari e cinematografici. Prima di tornare in Francia, dopo quattro anni di inattività, perché nessuno voleva più saperne di lui, riuscì a fare questo film speciale, il suo primo a colori: il film adatto per uno come lui, vissuto fra due mondi e straniero in entrambi, ispirato dal romanzo di Rumer Golden, scrittrice inglese nata in India e vissuta sempre a metà fra due mondi.

Ambientato in Bengala, dove Renoir si trasferì per alcuni mesi, e privo di ogni aspetto spettacolare, il film somiglia a un documentario che ci svela un mondo fantastico, segnato da feste misteriose che scandiscono il tempo come il Diwali (Festa delle Luci) in autunno, la Festa degli Aquiloni in inverno, la Festa dei Colori in primavera.

Come ha scritto il regista: «Vedevo nei colori dell’India dei meravigliosi motivi per provare nella pratica le mie teorie sui film a colori. Erano anni che volevo fare un film a colori. Penso che il bianco e nero contribuisca potentemente a fare del cinema uno spettacolo: beneficia del vantaggio di non poter essere realista. Che lo si voglia o no, la vita esterna (in esterni) è a colori. Io volevo evitare gli effetti di laboratorio, mettendo davanti alla macchina da presa un paesaggio o un décor così come sono. In secondo luogo, dovevo evitare i paesaggi dalle sfumature troppo complesse. In Bengala, come in molti Paesi tropicali, i colori sono vivi e non mescolati» (Jean Renoir, La mia vita, i miei film, Marsilio, 1992, pag 211)

Il film racconta la storia di una famiglia inglese con parecchi figli che vive in una casa vicino alla riva del Gange, in contatto con una civiltà profondamente diversa. Le due sorelle Harriet e Valeria e una loro coetanea, la “mezzosangue” Melanie, sono turbate per l’arrivo di John, un giovane ufficiale americano mutilato di guerra, amico di famiglia e ospite della casa. La sua presenza cambia la vita delle ragazze attratte dall’uomo, che l’amore trasforma da bambine in piccole donne. Ma l’idillio finirà presto: la famiglia sarà sconvolta da un grave lutto, la perdita dell’unico figlio maschio, il piccolo Boogey, morso da un cobra. Harriet, che si sente in colpa per non avere protetto il fratello, tenta il suicidio nel fiume ma sarà salvata da alcuni pescatori. Subito dopo John ripartirà per l’America e le tre ragazze rimarranno sole. Tuttavia la madre delle due sorelline partorirà un’altra bambina e la vita riprenderà il suo ritmo, come il fiume che sempre fluisce. Come dice una poesia scritta da Harriet la più giovane delle ragazze:

Corre il fiume e ruota il mondo.

Alba e tramonti, notti e pomeriggi e

il sole che arde,

e il vento, la luna le stelle …
Muore il giorno e la fine ha inizio.”

E’ un film paziente e incantato che scruta una realtà vergine e arcaica, un territorio inesplorato dell’anima nel quale cercare ciò che l’Occidente ha smarrito: la natura che vive e sopravvive di cui è metafora lo scorrere infinito del fiume sacro.

L’essenza di un simile rapporto con la vita è il disegno simbolico che le donne indiane tracciano sul pavimento che si vede dalla prima inquadratura: la macchina riprende un pavimento dove mani di donne versano polvere di riso, usata come colore. Misteriosamente la polvere forma sul pavimento una figura simbolica, un fiore al cui centro c’è un cerchio. È un Rangoli, il disegno che le donne indiane creano per onorare gli ospiti venuti a fare visita.

Entrare nel film è com essere accolti in una casa da ospiti e non da stranieri. Allo stesso modo entrare nella vita è come entrare in un fiume che ti avvolge e ti fa dimenticare che sei un estraneo. Un microcosmo che somiglia a una spirale i cui raggi, allargandosi sempre di più, formano un macrososmo come nel Rangoli: un universo sempre più grande e connesso in cui la vita scorre e tutto può iniziare di nuovo anche quando sembra essere finito per sempre.

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

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Un commento

  • Grazie Francesco per questo bell’articolo su un film misconosciuto di Renoir, uno di quei film che nei tempi antichi del pre-digitale bisognava andarsi a cercare in qualche videoteca per cultori o nelle emeroteche universitarie. E ricordo ancora quanto grande fu stupore et maraviglia la prima volta che vidi questo film ‘paziente e incantato’ come lo hai ben descritto. Renoir rimane uno dei registi più sottovalutati della scena pre-truffauttiana e godardiana. Un cinema non di papa, ma un cinema viscerale e contemplativo allo stesso momento. E non solo per il ‘manifesto pacifista’ di La grande illusione, ma per l’opera variegata e intrigante di Renoir, cinema di figlio.

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