Il futuro è jihad

Recensione di Gian Filippo Pizzo a «Cielo e ferro: il futuro è cambiato» di Italo Bonera e Paolo Frusca (*)

Italo Bonera e Paolo Frusca avevano partecipato a un premio Urania con il romanzo «PhOxGen!», una interessante ucronia ambientata nel 2003 ma basata sull’ampliamento dell’Impero Asburgico che nel 1919 era arrivato a comprendere tutta l’Europa Centrale e a diventare una potenza mondiale. Il romanzo non fu premiato, sebbene a parere di chi scrive fosse migliore del vincitore di quella edizione, ma fu lo stesso pubblicato in un «Millemondi» assieme a un altro finalista, «Ascensore per l’ignoto» di Carducci e Frambrini. In seguito il solo Bonera giunse in finale a un altro premio Urania con «Io non sono come voi», che poi vide la luce presso Gargoyle nel 2013, un thriller futuristico ambientato in un’Italia preda di una forte dittatura, quindi un’antiutopia nella quale l’autore poteva dimostrare il suo forte impegno sociale e politico. Impegno che viene riproposto in una nuova collaborazione tra i due, l’antologia a quattro mani «Cielo e ferro: il futuro è cambiato» – La Ponga Edizioni: 144 pagg per 7,90 euri – forse più un “falso romanzo” sul modello delle bradburiane «Cronache marziane», perché se i nove racconti (scritti separatamente dall’uno o dall’altro, in un paio di casi in collaborazione) sono completamente autonomi c’è comunque una ambientazione comune, ci sono personaggi e situazioni ricorrenti, c’è sempre l’atmosfera terribile della guerra e delle sue deleterie conseguenze. Forse il tutto poteva essere amalgamato e completato in un vero romanzo, ma in effetti in questo modo i singoli episodi, cioè i racconti, risultano più incisivi. La vicenda di uno spicchio dell’Africa chiamata Terranera – prima sorta di zona franca teatro di conflitti locali, poi forzatamente totalizzata dall’intervento di legionari di opposte tendenze, con il suo corredo di stupri, uccisioni, malattie, armi terribili e sangue – è ben viva e in primo piano anche se i racconti ne mostrano solo singoli fatti. Fra tutti i racconti mi ha particolarmente colpito «Cratere Modadiscio» del solo Bonera, per evidenti analogie – che crediamo assolutamente non volute – con la serie della RACHE di Valerio Evangelisti: invece della EuroForce c’è la AfroFor, al posto della Rumena Americana CHiesa degli Episcopali ortodossi c’è l’islamismo Avrahamovita, i Poliploidi sono sostituiti da les survivants, e il luogo dove tutto si svolge è l’Africa, sahariana e subsahariana, che ormai ha rimpiazzato nel ruolo di teatro di conflitti globalizzanti quello che lo era stato fino a poco fa, i Balcani. Perché il nocciolo dei racconti di «Cielo e ferro» è l’ascesa violenta e terrificante di un movimento fondamentalista musulmano chiamato avrahamovismo, nel quale è fin troppo facile vedere una rappresentazione di Boko Haram e dell’Isis. Prima dunque dell’eccidio di «Charlie Hebdo», dell’avanzata del Califfato Islamico e dell’opportunistico «Sottomissione» di Houellebecq, Bonera e Frusca avevano già capito quali vette di nefandezza potesse raggiungere il terrorismo jahidista esacerbato dei seguaci di Al Qaida. Per la verità, sull’argomento in Italia dobbiamo anche segnalare il dittico di Pierfrancesco Prosperi composto da «La Moschea di San Marco» e «La Casa dell’Islam» (Bietti, 2007 e 2009) che vedevano nell’Italia di un prossimo futuro l’ascesa al Parlamento e al governo di un partito musulmano, ma tutto sommato vi si descriveva un islamismo moderato, rigido ma abbastanza tollerante. Lo scenario presentato da «Cielo e ferro» è invece angosciante, opprimente, da qualunque lato lo si guardi: da quello dei mercenari costretti a efferatezze non necessariamente volute, dai giornalisti vittime per aver forse ecceduto nel compiere il loro mestiere, dalla stessa angolazione degli avrahamiti, la cui fede è incrollabile nello loro spietate decisioni. Non compaiono quasi persone comuni, civili innocenti, ragazzi incolpevoli: non compaiono, ma si sa che ci sono, restano sullo sfondo ma sappiamo che sono loro – nella finzione come nella realtà – le prime vittime.

(*) Questa recensione è già apparsa su «Carmilla».

 

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