«Il giorno senza nome: Un caso per Jakob Franck»

Ci lasciamo ingannare troppo facilmente”: Bianca Menichelli sul romanzo di Friedrich Ani

Un giorno tra i tanti, «..quel giorno era senza nome, perché la morte, i nomi di quei giorni, li porta sempre via con sé».

Ne «Il giorno senza nome – Un caso per Jakob Franck» dello scrittore tedesco Friedrich Ani (edizioni Emons:, traduzione di Emilia Benghi) seguiamo per la strade di Monaco e di Berlino il commissario della criminalpol in pensione Jakob Franck, rimessosi sulle tracce di un caso che risale a vent’anni prima e che forse non è stato seguito al meglio.

A distanza di tanto tempo, i testimoni hanno solo i morti per riempire la loro vita, come lo stesso commissario Franck. «I morti non santificavano la loro festa; arrivavano quando volevano e restavano per la notte, a volte in due, a volte uno soltanto, come d’accordo a non sottrarsi l’un l’altro né tempo né spazio o forse per rispetto reciproco». Sono i protagonisti dei casi che Franck ha seguito nel corso della sua professione. «I morti abitavano il suo presente, … solo, avrebbe fatto a meno di spaventarsi a morte ogni volta».

Di rispetto reciproco non c’è traccia nei rapporti che il commissario cerca (e trova) nei testimoni di 20 anni prima: tutte/i vivono in assenza di parole e di umanità.

Ognuno è ristretto senza scampo nel perimetro dei propri muri mentali, come il Muro chiudeva le vite senza possibilità di scambio o di fuga.

Testimoni solo di se stessi, dei silenzi cementati dalle loro certezze che Franck sgretola con imparziale freddezza come se ponesse di fronte a ognuna/o uno specchio nel quale si riflette il vuoto di un’esistenza passata vigliaccamente a costruirsi una propria consolatoria (ir)realtà. «Ci lasciamo ingannare troppo facilmente: forse perché altrimenti non riusciremmo a sopravvivere dalla disperazione».

Come in un campo/controcampo cinematografico, anche Jakob Franck è messo di fronte a uno specchio e specularmente si interroga sulla mancanza di empatia nei suoi rapporti interpersonali, costruiti con precisione scientifica ma senza alcuna partecipazione emozionale.

Conosce solo un modo per affrancarsi, in rari momenti, da questa sterile solitudine: un abbraccio, reciproco o subìto, anche se dopo non c’è alcuna assoluzione laica per il proprio autismo, come per quello degli altri, siano vivi o morti.

La scrittura di Friedrich Ani non ha bisogno di molte parole per farsi apprezzare: «Franck … passeggiava avanti e indietro, impaurendo la fiamma della candela». La scelta di quel verbo (impaurire) per dare suggestiva sostanza a qualcosa di altrimenti banale ne è la conferma.

E’ costante nella sua narrazione la frantumazione dei punti di vista, come uno specchio rotto, che si avvale di sottili slittamenti di senso compiuto.

Ani ha scritto molti libri, da quel che si deduce dalle note biografiche: solo quattro sono stati tradotti in Italia; ne ho letti altri due della stessa casa editrice, «Süden, il caso dell’oste scomparso» (2015) e «M come Mia, Süden e le ombre del passato» (2016). Protagonista è l’investigatore Tabor Süden, ex commissario dell’Ufficio persone scomparse di Monaco; pur con uno svolgimento più distesamente di genere, ma sempre con una scrittura che consente di rilevare l’aderenza empatica dell’autore (lui sì) ai suoi personaggi: le parole chiave rimangono solitudine e morti.

Il parallelo con altri protagonisti memorabili credo si possa trovare nell’ispettore Tyador Borlú della Squadra Crimini Estremi di Beszel (China Miéville «La Città & la Città», Fanucci 2011 traduzione di Maurizio Nati) e nello sbirro morto D’Arco (Antonio Moresco «L’addio», Giunti 2016).

Chissà cosa (non) si potrebbero dire nello studio di Jakob Franck («che non era diventata la stanza dei bambini») alla luce della fiamma impaurita di una candela e con i morti a far loro ricordare.

 

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