Il “gratta e vinci” delle corporation

Si chiama Carta dell’energia, è un oscuro trattato che ha già sfilato oltre 50 miliardi di dollari dalle tasche dei contribuenti degli Stati per consegnarle ai colossi che controllano l’energia nel mondo. Vi sembra una cifra esagerata? Forse sì, in effetti è l’equivalente di quel che servirebbe a garantire in tutto il pianeta ogni anno la luce elettrica a chi non ce l’ha. Eppure altri 35 miliardi di dollari rischiano di fare lo stesso percorso qualora le corporation vincessero le cause contro gli Stati che hanno osato ostacolarne i profitti, Italia e Spagna per prime. Un rapporto di tre ricercatrici ha portato alla luce questo incredibile “Gratta e Vinci” a beneficio di aziende che già realizzano profitti vertiginosi. Adesso sta per essere esteso alle regioni più saccheggiate e impoverite del pianeta con conseguenze facilmente immaginabili

 

Trentacinque miliardi di dollari: sono i soldi dei contribuenti di circa cinquanta Paesi che potrebbero uscire loro dalle tasche se tutte le multinazionali che hanno fatto causa ai loro Stati per colpa di un oscuro trattato internazionale vincessero. La Carta dell’energia (Energy Charter treaty – Ect), infatti, ha già portato nelle tasche delle aziende 51,2 miliardi di dollari, l’equivalente di quanto servirebbe ogni anno a garantire la luce elettrica a chi nel mondo non ce l’ha. E rischia di portarcene altri 35 miliardi, distribuiti per circa 150 cause pendenti: una cifra superiore a quella che servirebbe a tutta l’Africa ogni anno per adattarsi ai cambiamenti climatici.

Spagna e Italia sono in prima fila tra gli Stati più bersagliati da queste cause. Questa e altre incredibili storie, del tutto ignote e secretate, sono contenute nel rapporto «Un trattato solo per governare tutto. L’espansione del trattato Carta dell’Energia rafforza le multinazionali nell’ostacolare la transizione verso un’energia pulita», appena pubblicato dalle ricercatrici Pia Eberhardt , Cecilia Olivet e Lavinia Steinfort delle Ong europee Corporate Europe Observatory (Ceo) e Transnational Institute (Tni).

Quasi non ci siamo accorti che il nostro Paese ha ridotto con le ultime leggi di bilancio i sussidi per le energie rinnovabili, scatenando una pletora di cause da parte di potenti investitori che stanno sostenendo di aver perso per questa scelta guadagni futuri che credevano scontati. Per di più, dopo una manifestazione da 40mila persone a Lanciano, in provincia di Chieti, e denunce serrate di geologi, sindaci, ambientalisti e cittadini, nel 2016 l’Italia ha annullato il progetto Ombrina mare e altre 26 concessioni estrattive. Per questo la compagnia petrolifera britannica Rockhopper non sta rivendicando dall’Italia solo i 40-50 milioni di dollari che ha effettivamente speso, finché ne ha avuto la possibilità, per esplorare il giacimento petrolifero nel mare Adriatico che le è stato revocato, ma ci chiede altri 200-300 milioni di dollari per i profitti ipotetici legati alle estrazioni mancate. E questa richiesta pende sulle casse pubbliche nonostante la causa sia stata presentata ben 17 mesi dopo l’uscita dell’Italia dall’Ect avvenuta nel 2016. Questo è possibile perché il trattato protegge gli investitori per altri 20 anni dopo che un Paese si sia ritirato da esso.

Oggi l’Ect si applica a oltre cinquanta Paesi dall’Europa, All’Asia centrale, al Giappone, e tra le sue previsioni più stringenti c’è appunto quella di permettere agli investitori di fare causa agli Stati per rivendicare i propri interessi in specifici tribunali commerciali. Il famigerato meccanismo Investor to state dispute settlement o Isds che la stessa Corte europea di giustizia nel marzo 2018 ha dichiarato illegale se applicato tra un investitore di uno Stato membro dell’Ue e uno Stato europeo. Eppure il 67 per cento delle cause legali aperte per colpa dell’Ect sono tra Stati e imprese europei. Nel complesso, gli Stati hanno già subito 114 cause nell’ambito della Carta dell’Energia, molte delle quali avviate solo negli ultimi cinque anni e soprattutto contro i Paesi dell’Europa occidentale. In 16 casi, gli investitori hanno chiesto più di un miliardo di dollari in compensazioni. Nel 61% dei casi passati in giudicato, l’esito è stato favorevole all’investitore.

Uno dei risarcimenti più cospicui è quello chiesto dalla multinazionale svedese Vattenfall alla Germania dopo che con un referendum il Paese ha deciso di uscire dal nucleare: scelta che potrebbe costarle oltre 5,1 miliardi di dollari. La causa più esosa vale 50 miliardi di dollari contro la Russia ed è del 2014. Un tribunale ordinò alla Russia di pagarli agli ex azionisti del progetto petrolifero Yukos, smantellato tra il 2006 e il 2007. La cosa singolare è che la Russia abbia perso nonostante risultò nel procedimento che aveva aderito all’Ect nel 1994 ma la Duma non avesse mai ratificato l’adesione.

Un tribunale svedese nel 2016 annullò la sentenza perché la Russia sollevò nei confronti degli arbitri incaricati del giudizio un deficit di giurisdizione. A tutt’oggi pende un ricorso, ma nel frattempo i tre arbitri si sono messi in tasca oltre 5,3 milioni di euro, un loro assistente si è portato a casa quasi 1 milione di euro di compenso: circa 10 volte lo stipendio annuo di un cancelliere giudiziario che lavora con un giudice della Corte suprema degli Stati Uniti. Gli avvocati di Yukos (dello studio Shearman e Sterling, chiamati dai media «gli avvocati da 1,065 dollari l’ora») hanno fatturato da soli 81 milioni di dollari per la rappresentanza legale e l’assistenza del cartello.

Il report avverte che molte altre cause potrebbero essere presentate grazie all’Ect, se i governi metteranno in atto ulteriori, necessarie e più stringenti misure per rispondere al cambiamento climatico e alla povertà energetica. Già oggi il trattato ha permesso l’avvio di più cause investitore-Stato che ogni altro accordo di investimento. «Il Trattato sulla Carta dell’Energia offre ancora più potere alle corporations che stanno distruggendo il pianeta e hanno commesso serie violazioni dei diritti umani. Sarebbe pura follia se altri Paesi siglassero questo accordo quando invece dovrebbero costringere le multinazionali a ripulire i loro disastri ecologici a beneficio delle comunità locali», sostiene Pia Eberhardt.

L’Ect, però, sta per espandersi ancora, con decine di Paesi in Africa, Asia, Medio Oriente e America Latina in procinto di firmarlo, a dispetto degli enormi rischi politici, legali e finanziari che ne deriveranno. «Nel momento in cui tutta l’attenzione dovrebbe essere concentrata sullo scongiurare la catastrofe climatica, un accordo rende illegali molte delle soluzioni al problema. Ora è il momento per gli Stati di abbandonare il trattato». E questa è una delle poche volte in cui possiamo indicare l’Italia come un esempio da seguire: uscire dall’Ect è possibile, ma può costare troppo all’erario e all’ambiente. Meglio restarne fuori.

(*) ripreso da “Comune-info”

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