Il misconosciuto enigma del pyssavòn – di Mark Adin

Sono abbonato, da tempo, a “Scientific American”, rivista che ormai denota sempre più spesso di essere serva di un modo unilaterale e manicheo di intendere la scienza. Per fortuna, non sempre è così. In uno degli ultimi numeri è apparso una indagine, a firma Nicolaij Lutchowskij, su uno dei fenomeni più inquietanti, a mio modestissimo avviso, e meno conosciuti: il pyssavòn.

Inutile andare alla ricerca di questa parola su Wikipedia: non c’è, e non me ne stupisco. Come molti altri termini tecnici, soprattutto se di recentissimo conio, la strada per renderli alla divulgazione popolare non può essere brevissima.

L’estensore dell’articolo, peraltro anch’esso piuttosto oscuro, è presentato nella sintetica nota biografica che è riportata nel box in calce all’articolo stesso. Una prima sorpresa ci è riservata proprio dalla lettura del profilo dello scienziato: non si tratta di un ricercatore universitario, bensì di un militare. Avete capito bene: Nicolaij Lutchowskij è lo pseudonimo di un alto funzionario dell’ex KGB che deve mantenere l’incognito perché starebbe rischiando la vita. Che ci fa dentro a “Scientific American”?

Durante la guerra fredda, la ricerca si era spinta incredibilmente avanti nella Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, e la caduta del Muro congelò dapprima, e infine disperse, risorse acquisite ingentissime. Un disastro simile all’incendio della biblioteca di Alessandria. Alcuni studi vennero trafugati e venduti persino a cosiddetti Stati-canaglia. E la nostra storia parte proprio da uno di questi, che è riconoscibilissimo nonostante la rivista non lo menzioni direttamente.

Ma non è questo il punto. Atomiche sporche, batteri killer, armi energetiche, nuove armi proiettive, non ci siamo mai fatti mancare niente. Per fortuna equilibri e, forse in misura maggiore, disequilibri garantiscono il loro mancato utilizzo. Chissà fino a quando.

Dicevo che non è questo il punto perché il pyssavòn non è un’arma.

E’ dunque uno scherzo? Neanche per sogno. E’, se mai, a seconda del punto di vista, una opportunità scientifica o una minaccia inquietante. Andiamo per gradi: nel 1963, poco dopo la pubblicazione della enciclica “Pacem in terris” di Papa Giovanni XXIII, mentre le opposte diplomazie dei blocchi si confrontavano pericolosamente, in un villaggio del Kirghisistan, un ragazzino di nove anni ebbe un inspiegabile episodio di improvvisa cecità. E’ utile riflettere sul fatto che una cosa del genere mai sarebbe passata alla storia, se non fosse stato, occasionalmente, di stanza in quel villaggio un esule israeliano che, sorvegliatissimo – per usare un eufemismo – dal KGB, conduceva uno studio epidemiologico su un nuovo batterio che si stava tentando di potenziare per farne l’ennesimo strumento di morte. Il batterio era stato, in modo criminale, inoculato nelle tradizionali focaccine di pane e distribuito alla popolazione: a donne, uomini, vecchi, bambini. A loro insaputa. Maledetti porci.

Lo scienziato israeliano, di cui vengono fornite soltanto le iniziali, J.S., si apprestava a testarne la efficacia nel piccolo villaggio di Ashljan. Un giorno, mentre camminava per un sentiero pietroso, era stato violentemente strattonato da una giovane donna, che tentava di comunicare, concitatamente, qualcosa nel dialetto locale. Era intervenuta la scorta che la aveva allontanata senza troppi complimenti, mentre l’interprete cercava di capire cosa stesse farneticando per tradurlo, su richiesta dello stesso dottor J.S., che si era non poco incuriosito. Capì che era la madre del bambino, di nome Rashid, che era diventato improvvisamente cieco: disperata, continuava a ripetere una parola sconosciuta all’interprete. La parola era, appunto, “pyssavòn”. Era questa la causa, secondo la giovane mamma, del danno permanente al visus di Rashid. Il gruppo terminò l’esperimento in corso e tornò ai laboratori portando con sè Rashid e  dichiarando l’intenzione di curarlo. Così dissero,  Rashid sparì  nel nulla.

Dal 1963 passarono molti anni di osservazioni, incredulità, smentite, statistiche. Poi arrivarono, a poco a poco, evidenze. Un fisico russo, nel luglio del ’66, aveva brevettato una modifica ottica a un apparecchio fotografico Kiev, copia perfetta della più famosa Hasselblad di fabbricazione svedese,  e utilizzando una speciale emulsione di ossido cianidrico in sostituzione di quella in ioduro d’argento, ne aveva fatto una fotocamera innovativa. La combinazione di tali modifiche, infatti, permetteva all’apparecchio di fotografare in rarissime condizioni, nelle quali prendevano origine alcuni fenomeni radianti ancora oggetto di studio. La possibilità di registrare quella tipologia di eventi contribuì non poco anche alla redazione del rapporto segreto sul pyssavòn.

Il team di J.S. aveva sì approntato nuove armi biologiche, sempre più distruttive, ma aveva aperto un altro, inedito fronte. Attraverso la rete spionistica sovietica, la meglio organizzata al mondo, aveva incominciato a raccogliere notizie sull’inspiegabile fenomeno energetico.

Furono trovate testimonianze in luoghi molto diversi, ma tutte concordavano nel provare l’esistenza di quello che sarebbe diventato uno dei più sconvolgenti fenomeni prodotti dalla natura, sempre pronta a rivelarsi in aspetti non ancora esplorati: il pyssavòn.

La periodizzazione, nel susseguirsi del fenomeno, nonostante gli studi dell’agguerritissimo apparato militare di intelligence, non fu possibile inscriverla in alcuno degli algoritmi conosciuti fino ad allora. Né fu mai possibile farlo successivamente. Il pensiero che il pyssavòn  fosse, perciò, in nessun modo prevedibile né artificiosamente replicabile, lo assegnava alla categoria scientifica di quei problemi che costituiscono la dannazione per ogni ricercatore.

Oggi, esattamente come per altri fenomeni naturali, non si può fare altro che tenere un registro nel quale annotare luogo, data, ora, delle loro epifanie. E osservarli impotenti.

Quei fortunati che hanno potuto vedere, almeno una volta, magari da lontano, il manifestarsi di un pyssavòn, hanno goduto la meraviglia della incorporeità della creatura, la sua eterea inconsistenza, le sue magiche iridescenze. L’esperienza, nelle poche testimonianze conosciute, pare davvero ineffabile.

Eppure i pyssavòn, dal tempo dei tempi, emanerebbero luce più di una aurora boreale, e consolerebbe ancora, con il loro manifestarsi, solitari pastori africani con le loro mandrie di bufali o uomini d’affari cinesi dentro le limousine, che hanno la ventura di vederlo baluginare nel vuoto delle loro giornate.

La stragrande maggioranza di noi, che trascorre la propria vita accumulando ricchezza o, al contrario, non possedendo nulla se non la propria anima,  non riesce a vederlo nemmeno una volta nell’arco dell’esistenza. Vederlo apparire è un dono, o per dirla con il Poeta, “la ventura delle venture”.  E bisogna guardare senza fissarlo a lungo, perché il nervo ottico si può danneggiare irrimediabilmente. La cecità da esposizione al pyssavòn è irreversibile. Gli effetti della radiazione, qualora raggiunga il bersaglio, possono essere devastanti anche sul comportamento relazionale, ed è per ciò che le agenzie militari prestano la massima attenzione. L’articolo non dice di più.

Ciò che stupisce è che il mondo scientifico sia tuttora così reticente. Solo adesso, a cinquant’anni dalla obnubilazione di Rashid, trapela qualcosa dalla bocca di un ex militare: si è costituito una polizza sulla vita  asserendo di conservare in luogo sicuro il dossier trafugato al medico J.S., che nel frattempo sembra essersi dissolto nel nulla.

Di quali e quanti segreti l’umanità è ancora all’oscuro?

Resta un po’ di civile turbamento e un fondo di amarezza nel considerare che possano ancora esistere questi buchi nella nostra scienza, coscienza e conoscenza. E persino quando disvelati, ci siano, di fatto, ancora del tutto ignoti. Intendo, ovviamente, ignoti a noi persone comuni.

Pensate che mia sorella, mi si perdoni l’autoreferenzialità, così, tanto per fare un esempio, che ha vent’anni più di me (e non sono più ragazzino da un pezzo), sostiene da tempo di averne visto uno, in gioventù.

E io, che ho sempre creduto fosse la risultanza di un probabile attacco di demenza senile, non le ho mai dato retta. Viviamo in un mondo dove l’informazione è disponibile e addirittura ridondante, eppure, spesso, non ci accorgiamo di quanto succede soltanto a un passo da noi.

 

Mark Adin

 

Redazione
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4 commenti

  • Intanto complimenti per l’articolo, bello e documentato e su una storia che definire oscura e criminale è ancora poco. Da oggi se qualcuno cerca la parola pyssavòn su google.it esce un solo risultato ed è il tuo articolo. Qualsiasi approfondimento d’ora in poi partirà da questo testo, che è insomma un piccolo grande scoop e un arricchimento enorme per il blog. A me la luce non è mai piaciuta, infatti te la puntano in faccia per farti parlare! La scienza non sarà neutrale ma la critica sociale di Mark Adin corre più veloce dei neutrini.

  • Poveri porci, a quale pattume si suole paragonarli!
    Mi piacerebbe riprodurre questo intervento sul mio blog. Si può?

  • Nella fretta di “postare”, questa mattina ho fatto il “copia-incolla” solo parzialmente. Me ne dolgo. Ecco la parte mancante:
    Il 30/10/1938, negli States, andò in onda uno sceneggiato radiofonico tratto da “La Guerra dei Mondi”, di H.G. Wells. L’adattamento era opera di Orson Welles, e gli portò molta fortuna. L’ invasione aliena, di cui parlava la fiction radiofonica, venne scambiata per una notizia vera, suscitando reazioni di tutti i tipi tra gli ascoltatori.
    Orson è sempre stato la mia passione, e non ho saputo trattenermi dallo scrivere un pezzo che richiamasse, e con la necessaria modestia celebrasse, l’episodio e il suo Autore indimenticato.
    Mark Adin

  • una pro-pro-pro-vocazione… come se non bastasse la realtà a inquietarci.
    uh-uh
    alcuni indizi c’erano, uno sotto gli occhi di tutti o almeno dei fans di Orson Welles: Mark Adin è Arkadin preceduto da una M e “mister Arkadin” è il protagonista di un film (“Rapporto confidenziale” noto anche come “Mr Arkadin”) e di un romanzo di Orson Welles. Di quel ilm scrive Morandini: “il consueto (di Wells) repertorio di alta acrobazia stilistica”. Per l’appunto. Signore e signori: dal cappello esce M. Arkadin.
    (però-peron-però in quel film Arkadin fa ammazzare i suoi complici uno per uno, siete-siamo ancora in tempo a cambiare il finale?)

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